Nella contea di Østfold, un centinaio di chilometri a sud di Oslo, in Norvegia, sorge un grande e asettico hangar un tempo conosciuto come Smart club. Per decisione del ministero dell’immigrazione e dell’integrazione, al suo interno sono state montate una cinquantina di tende militari in fila per tre, in modo che lo spazio libero tra una tenda e l’altra non sia maggiore di sei-sette metri. Il campo coperto è un mondo a sé: vi si può accedere solo da alcune porte, mentre su tutto il perimetro della sua superficie l’illuminazione è artificiale, anche di giorno.
Le tende raccolte nell’hangar possono raggiungere una capienza complessiva di mille posti letto. Qui, a partire dal 2018, saranno rinchiusi tutti i migranti che arrivano in Norvegia in attesa di sapere se otterranno o meno l’asilo politico. La permanenza durerà al massimo 21 giorni: chi otterrà l’asilo sarà poi trasferito in centri di accoglienza, chi andrà incontro a un rifiuto sarà invece immediatamente espulso. Rimpatriato nei paesi di partenza o rispedito in quelli di transito.
È questo il modo in cui la ministra dell’immigrazione e dell’integrazione Sylvi Listhaug intende procedere a una “revisione totale” del sistema d’asilo in Norvegia. Listhaug è una dei due ministri in quota al Partito del progresso, la formazione politica di destra radicale – che però rifiuta di essere definita sia di “estrema destra”, sia “populista” – che dal 2013 governa con il Partito conservatore. Le elezioni del settembre 2017 hanno confermato la stessa maggioranza di governo, lasciando il partito laburista e le altre formazioni di sinistra all’opposizione.
Indesiderati
La decisione di rinchiudere tutti i migranti in unico luogo è solo l’ultimo atto della profonda rivisitazione delle politiche dell’immigrazione (e non solo di quelle che riguardano i richiedenti asilo) volute dal Partito del progresso.
Il suo successo culturale, e non solo politico, il potere di condizionare il partito del premier vanno di pari passo con la drastica diminuzione degli arrivi dei migranti nel paese e con l’aumento delle procedure di rimpatrio di quegli stranieri ritenuti indesiderati.
Un caso particolare, che agita il dibattito sulla stampa norvegese, riguarda l’Afghanistan. Secondo i dati della Missione di assistenza delle Nazioni Unite (Unama) nel 2016 in Afghanistan sono rimaste uccise o ferite circa 11.500 persone, contro le 8.500 dell’anno precedente. Nei primi sei mesi del 2017 le vittime civili documentate sono già 5.423.
La Norvegia è tra i paesi che più si sono impegnati a rimpatriare i migranti a Kabul, benché non sia un posto sicuro
Eppure, come ha denunciato Amnesty international, “secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3.290 a 9.460”. L’aumento è direttamente proporzionale a un netto calo delle domande d’asilo accolte: dal 68 per cento del settembre 2015 al 33 per cento del dicembre 2016.
La Norvegia è tra i paesi che più si sono impegnati a organizzare voli di rimpatrio verso Kabul, benché Kabul non sia affatto un posto “sicuro” come ripete il ministero dell’immigrazione e dell’integrazione. Solo nel 2016 sono state rimpatriate 800 persone. E anche la Germania, i Paesi Bassi e la Svezia vogliono proseguire su questa strada.
Secondo Anna Shea, ricercatrice di Amnesty international sui diritti dei migranti e dei rifugiati, “i governi europei stanno attuando una politica tanto sconsiderata quanto illegale: cinicamente ciechi di fronte al livello record di violenza e all’evidenza che nessun luogo dell’Afghanistan è sicuro, fanno correre alle persone il rischio di subire rapimenti, torture, uccisioni e altri orrori”.
Vita da rifugiati
Sul giornale della sinistra norvegese Klassekampen (Lotta di classe) è stata raccontata di recente la storia di Taibeh Abbasi. Sua madre è scappata dall’Afghanistan dilaniato dalla guerra e ha raggiunto la Norvegia 18 anni fa. Taibeh è nata un anno dopo. All’inizio del 2017, dopo che sono stati riscontrati dei vizi di forma nella presentazione della domanda d’asilo di diciotto anni prima, è stata revocata la cittadinanza alla madre. Il provvedimento è stato applicato anche a Taibeh e ai suoi fratelli di 20 e 15 anni. Nonostante il ricorso presentato in tribunale, tutti e quattro possono essere rispediti in Afghanistan.
La storia di Taibeh ha fatto divampare la protesta tra gli studenti del suo liceo e di tutti gli altri istituti superiori di Trondheim, la terza città del paese. Sono stati loro a raccogliere i soldi per coprire le spese per il ricorso alla corte suprema e a indire più di una manifestazione nella piazza centrale della città.
Per ora la decisione sul rimpatrio dell’intera famiglia è sospesa. Tuttavia i casi come quello di Taibeh e della sua famiglia sono tantissimi in Norvegia. Sempre su Klassekampen è stata raccontata la storia di Hadi (per volere dei familiari il nome è di fantasia). Hadi era scappato dall’Afghanistan nel 2015, dopo essere stato sequestrato e torturato. Arrivato in Norvegia dopo un lungo viaggio gli è stato rifiutato l’asilo politico.
A questo punto è stato rimpatriato nel suo paese d’origine, dove pochi mesi dopo è rimasto ucciso. Una storia simile è quella di Mahad Abib Mahamud, giovane tecnico di laboratorio, a cui è stata negata la cittadinanza norvegese, perché a un certo punto l’ufficio immigrazione ha scoperto (o, meglio, ha ritenuto di scoprire) che era arrivato in Scandinavia diciassette anni prima (quando di anni ne aveva quattordici) da Gibuti e non dalla Somalia. Pertanto non avrebbe potuto richiedere l’asilo.
Ciò che sorprende in tutte queste storie sono due aspetti. Il primo è il valore retroattivo dei provvedimenti. La cittadinanza viene revocata molti anni dopo, non appena si rilevano (o si ritiene di rilevare) delle incongruenze nel processo che ha portato alla concessione dell’asilo. Il secondo è che le espulsioni, una volta decretate, coinvolgono anche i figli e i nipoti in via discendente, così che finiscono per essere espulse anche persone nate e cresciute in Norvegia.
Rendere la vita difficile a chi ce l’ha fatta
Come dice Nazareth Amlesom Kifle, docente di linguistica all’università di Bergen, fuggita dall’Eritrea più di dieci anni fa, il calo del numero di migranti e profughi nel paese è stato raggiunto attraverso tre linee guida: “Controlli capillari delle frontiere, drastico ridimensionamento della concessione dell’asilo e dei ricongiungimenti familiari, incremento dei respingimenti e dei rimpatri”.
La incontro al termine di un dibattito sul cambiamento delle rotte dell’immigrazione in Europa, in un centro culturale di Bergen. A queste tre linee guida, sorride mestamente, ne andrebbe aggiunta un’altra: “Rendere la vita difficile a chi ce l’ha fatta, a chi ha ottenuto lo status di rifugiato e poi la cittadinanza, in modo che possa alla fine dire stremato: basta, me ne vado”.
È capitato di pensarlo anche a lei. Benché insegni all’università e abbia una casa e quindi sia – almeno in teoria – in regola con i parametri fissati dal governo, non è mai riuscita a ottenere un semplice visto turistico per i suoi genitori che vivono in Eritrea – “un semplice visto di pochi giorni, non certo il ricongiungimento”, dice. Così, dal momento che loro non possono mettere piede in Norvegia e che lei non può tornare in Eritrea dove, in quanto oppositrice politica sarebbe subito arrestata, va a trovarli in Uganda. Ogni due anni gli manda un biglietto aereo per Kampala e li raggiunge dopo pochi giorni nella capitale ugandese. Poi se ne torna in Norvegia, mentre loro tornano ad Asmara.
Il dibattito sul Partito del progresso
L’inasprimento delle misure nelle politiche dell’immigrazione e dell’accoglienza dei profughi, rispetto ai precedenti governi a guida laburista, solleva un interrogativo sulla natura del Partito del progresso. Come ha notato di recente Emily Shultheis sull’Atlantic, siamo in presenza di uno dei pochissimi casi europei in cui un partito populista arrivato al governo nel 2013 vince di nuovo quattro anni dopo, continuando a raccontarsi al tempo stesso come forza governativa e antisistema, contraria a modificare di una sola virgola la retorica contro le istituzioni e contro gli stranieri.
Pur avendo avuto meno voti rispetto alle elezioni precedenti, passando dal 16,3 per cento nel 2013 al 15,2 per cento nel 2017, il Partito del progresso è ancora un elemento di rottura istituzionale ben inserito nella politica norvegese.
I suoi dirigenti e i suoi militanti amano definirsi come l’emblema di una destra responsabile e sono soliti tracciare un solco tra loro e il Front national in Francia o Afd in Germania o la destra austriaca. Non amano essere definiti “populisti”, benché tutta la loro campagna elettorale si sia basata su un unico concetto: la torta da spartire non è illimitata, anzi si sta riducendo, per cui occorre chiudere le frontiere. Benché sia stato iscritto al partito tra il 1999 e il 2006, rifiutano ogni collegamento con Anders Breivik, il terrorista neonazista che nel luglio del 2011, con esplosivi e fucili automatici, uccise prima otto persone nel centro di Oslo e poi 69 ragazzi nel campo estivo che si teneva nell’isola di Utøya.
Le parole da usare
“Qui da noi non si parla più della strage compiuta da Breivik”, mi dice Dag Solstad quando vado a trovarlo nel suo appartamento a due passi dal centro di Oslo. Solstad, che ha vinto per tre volte il premio della critica e ha alle spalle una lunga militanza nella nuova sinistra (i suoi libri sono stati pubblicati in Italia da Iperborea), non nutre alcuna speranza su un’inversione di rotta:
Non si parla di quella violenza. Si parla invece dell’islamizzazione occulta della nostra società, come se si trattasse di un processo sotterraneo che deve essere arrestato a ogni costo. Sono stati loro a coniare questa espressione: islamizzazione occulta. Il Partito del progresso è in realtà molto simile ai Democratici svedesi o alla destra austriaca. Si tratta di fenomeni simili che si stanno riproducendo in molti paesi europei. È incredibile che si possa parlare di pistole e armi da usare per fermare i migranti che arrivano a Lampedusa o ai confini dell’Europa. Il fatto stesso che si possa parlare di tutto ciò come di una cosa possibile, normale, è per me scioccante.
Oggi, prosegue lo scrittore, in Norvegia manca innanzitutto una riflessione sulle parole da utilizzare: “Per me non è importante definire questo partito come fascista, ma allo stesso tempo trovo anomalo che non sia possibile discutere se vi siano delle profonde analogie o somiglianze con il fascismo. Questa discussione oggi in Norvegia non esiste, è ritenuta inaccettabile”.
In un commento pubblicato su Aftenposten, il primo quotidiano del paese, l’editorialista Therese Sollien sostiene che il 2017 non è certo il 1933 e che formazioni come il Partito del progresso e i suoi corrispettivi danesi e svedesi svolgerebbero una funzione positiva: farebbero entrare nel gioco democratico “la critica dell’immigrazione”, evitando così che sfoci in alternative più violente. Ma Mads Andenas, che insegna diritto all’università di Oslo ed è stato presidente del gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite, parla apertamente di “linguaggio da anni trenta”.
“Il discorso contro l’immigrazione”, dice nel suo studio all’università, un palazzo bianco settecentesco che fronteggia il teatro nazionale, “ è tipico di ogni retorica fascista. L’insistere per esempio su ‘i nostri figli’, che cosa sarà del ‘futuro dei nostri figli’ mentre arrivano ‘loro’ è una costante nelle parole del Partito del progresso. Usano davvero una retorica da anni trenta. Esattamente come nella Germania dell’epoca, un dato caratteristico di questa retorica è costituito dal gonfiare le cifre, dal dire che gli immigrati (come ieri gli ebrei) siano molti di più di quanto sono in realtà. Sparano percentuali fantasiose, dicono che gli stranieri sono ormai il 20-25 per cento dei residenti, quando invece sono circa il 14 per cento. Dicono cose del genere, ma senza nessuna statistica ufficiale. Condividono davvero con Breivik la paura che la Norvegia possa trasformarsi in pochi anni in uno stato musulmano”.
Andenas, che nella strage di Utøya ha perso quattro dei suoi studenti, parla di poujadismo, il movimento qualunquista di rivolta contro il fisco nato nel 1950 in Francia : “Mi sembra la definizione più corretta. Esattamente come il poujadismo classico, il Partito del progresso nasce negli anni settanta del novecento come movimento contro le tasse. Solo dopo fa sue le tematiche dell’estrema destra sull’immigrazione. Hanno sovrapposto i due aspetti, e li hanno nutriti con una spiccata critica della classe politica tradizionale. È stato Carl Hagen, leader storico del partito per tre decenni, a tenere insieme i tre livelli. È stato lui il primo a porre l’accento sulla presunta islamizzazione della società norvegese”.
Negli ultimi anni, poi, le politiche contro gli immigrati e i musulmani si sono mescolate alle paure generate dal terrorismo e al desiderio di nuove misure securitarie. Per certi versi, la chiusura delle frontiere, soprattutto dopo la grande ondata di migranti del 2015, è stata la naturale conseguenza.
Frontiere chiuse
Andenas mi ripete ciò che hanno detto e diranno tutti i miei interlocutori in Norvegia: “La verità è che ora non ne arrivano proprio più di migranti”. L’unica frontiera ancora in qualche modo attraversabile, perché meno controllata, anche se i numeri si sono molto ridotti, è quella dell’estremo confine con la Russia. Ma per chi viene da sud, o dalla Svezia, gli ingressi sono molto più difficili. Inoltre, per i pochissimi che ce la fanno è (quasi) certo essere rispediti indietro, nei paesi europei in cui si è lasciato traccia, per esempio la Germania, o direttamente – come abbiamo visto – nei paesi di partenza. A questo va aggiunto un altro dato: con i muri che ogni paese europeo ha alzato lungo i propri confini, ormai il percorso di chi vuole raggiungere i paesi scandinavi dopo essere sbarcato in Italia o in Grecia si arresta spesso molto prima.
L’ultima trovata del Partito del progresso è quella di annunciare periodicamente le corone risparmiate dalle casse pubbliche grazie alla diminuzione del numero di rifugiati rispetto agli anni precedenti. È interessante, continua Mads Andenas, vedere anche come si muove il variegato mondo del cristianesimo norvegese. “I cattolici, che sono una piccola minoranza, sono apertamente schierati contro le politiche dell’estrema destra e a difesa degli immigrati. Anche nella chiesa ufficiale luterana, di cui fa parte l’80 per cento dei credenti in Norvegia, i discorsi per l’apertura delle frontiere sono maggioritari. Ma poi ci sono alcune correnti evangeliche, vicine ai cristiani rinati, che fanno proprie le stesse parole del Partito del progresso in chiave antislamica. Siamo in presenza di un evidente processo di americanizzazione e radicalizzazione del mondo evangelico di base. Come negli Stati Uniti, si ritrovano in linea con il neopoujadismo. Mescolano un’idea iperconservatrice della famiglia e del ruolo della donna, le solite campagne antiaborto e antigay, l’islamofobia e la xenofobia crescente”.
Nella provincia norvegese
La torta si sta davvero riducendo, come sostiene il Partito del progresso? Detto in altri termini: l’aumento della xenofobia, che ha reso possibili le politiche e il successo elettorale del partito, si rafforza grazie alla crisi economica.
È difficile parlare di insicurezza sociale in quello che, come dice Dag Solstad, è uno dei paesi più ricchi al mondo, con un elevato livello di benessere garantito a tutti. Tuttavia, basta andare a Stavanger – città nel sud del paese bagnata dal mare del Nord, per decenni “capitale del petrolio norvegese” e sede di tutte le maggiori compagnie estrattive – per accorgersi che il successo del Partito del progresso e delle politiche contro l’immigrazione coincidono con gli anni della crisi del petrolio. “Quando il prezzo del barile è sceso al di sotto dei 50 dollari, un intero sistema è andato in crisi”, mi dice un ex dirigente italiano della Eni Norge, che preferisce rimanere anonimo. “Prima i dipendenti delle compagnie petrolifere avevano privilegi incredibili. Quindici giorni in piattaforma e ventotto a casa; viaggi gratis in tutta Europa. Ora la sola Total è passata, nel giro di pochi anni, da 1.600 a 200 dipendenti”.
Certo, una parte del settore ha subito investito sulle energie rinnovabili. Tuttavia, è facile percepire che il credo inscalfibile in un progresso illimitato si sia ormai esaurito, e questo ha influenzato anche la politica. Ma c’è dell’altro. Per capire la Norvegia profonda bisogna visitare la provincia. Le città maggiori sono relativamente piccole. Oslo ha meno di un milione di abitanti. Bergen e Trondheim circa 250mila a testa. Gran parte dei norvegesi vive in piccoli centri. Molti addirittura in campagna, specie nel sud del paese.
Guardi le grandi fattorie disseminate qua e là, le ampie case in legno dalle pareti rosse e il tetto grigio scuro, isolate l’una dall’altra, in una campagna perfetta, in cui si alternano foreste e campi coltivati a grano, in cui tutto è grazia e silenzio, e pensi che è proprio questa la Norvegia profonda.
Non necessariamente conservatrice, ma ben lontana dalle città, anche se poi magari tanti fanno i pendolari per lavoro. Qui, a differenza della Svezia, dove a partire dagli anni sessanta c’è stato un forte processo di urbanizzazione, la dimensione rurale è ancora forte. Per gli abitanti i profughi sono un pensiero lontanissimo, quasi un oggetto sociale indefinito. Così mi confida, ad esempio, un pensionato benestante che è appena tornato da una vacanza in Umbria e sta per partire con la sua barca per un giro delle isole intorno alla costa svedese: “La verità è che non vogliamo spendere soldi per un profugo a cui dobbiamo insegnare tutto. Un tempo volevamo gli italiani perché sono educati e formati. Con i profughi abbiamo paura di dover partire da zero. È questo il punto da afferrare. Inoltre, vediamo che quelli che arrivano fin qui non sono i più bisognosi. Non vediamo donne con i bambini piccoli, ma giovani maschi. Per questo c’è un atteggiamento di diffidenza”.
A scuola
Questi cambiamenti avvengono in un paese dove il sistema di accoglienza è stato e al momento continua a essere uno dei migliori al mondo, insieme a quello svedese e a quello canadese. Per accorgersene basta parlare con gli operatori dei centri di accoglienza, in particolare con gli insegnanti impegnati nei progetti scolastici.
Sharif, arrivato vent’anni fa dalla Somalia, lavora come insegnante per il comune di Bergen. I rifugiati hanno la possibilità di studiare nella loro lingua madre le materie che non capiscono in norvegese. “Siamo 110 insegnanti in rappresentanza di 41 lingue. Le principali sono somalo, arabo, persiano, tigrino, oromo. Io insegno in somalo: ho 38 studenti in otto scuole diverse. L’anno scorso erano 53, anche questo è un effetto della diminuzione delle richieste d’asilo accettate”.
Sharif lavora con rifugiati e figli di rifugiati. Alcuni sono minori non accompagnati, altri sono arrivati qui con le loro famiglie. “La maggioranza dei ragazzi proviene da zone di guerra dove le scuole non funzionano più. Per un ragazzino somalo appena arrivato la differenza è enorme. Tuttavia credo che vada corretto il concetto di analfabetismo. Magari non ha frequentato le scuole normali, ma ha studiato in una scuola coranica. In più questi ragazzi spesso sono più maturi dei loro coetanei. Sono spugne pronte ad assorbire tutto, usano Facebook, i social, maneggiano tablet… Non sono proprio una tabula rasa”.
La maggioranza degli alunni di Sharif è arrivata qui pagando i trafficanti. Molti hanno attraversato il deserto e il Mediterraneo da soli. Altri si sono ricongiunti ai loro genitori. I tragitti percorsi sono i più disparati. Alcuni sono arrivati dai Paesi Bassi, altri dalla Danimarca o dalla Svezia. Alcuni nascosti in una nave, altri nei pullman. Anche qui nell’Europa del nord le rotte cambiano continuamente: durano qualche mese e poi altre le sostituiscono, non appena la polizia scopre quelle vecchie.
“Domani”, prosegue Sharif, “devo tenere un discorso di congedo per due miei ex allievi arrivati qui nel 2014. Hanno finito le scuole superiori con successo e ora andranno a lavorare, uno come operaio specializzato e l’altro come impiegato in una farmacia. Il primo quando è arrivato era completamente analfabeta, l’altro aveva frequentato solo quattro anni di scuola, per come può essere frequentata una scuola oggi in Somalia. Sono arrivati qui con una fortissima determinazione: volevano inserirsi, volevano continuare a studiare. Ci sono riusciti”.
Alessandro Leogrande è morto il 26 novembre 2017 a Roma. Nato a Taranto nel 1977, ha collaborato con Radio3, Pagina99 e il Corriere del Mezzogiorno. È stato vicedirettore della rivista Lo straniero. Tra i suoi libri, Uomini e caporali e La frontiera. Per Internazionale ha scritto reportage, commenti e inchieste.
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