Sul molo di Bari intitolato a san Nicola, al tramonto di un sabato infuocato di fine estate, si intuisce perché per le elezioni regionali del 20 e 21 settembre 2020 quelle in Puglia siano considerate tra le decisive per le sorti del governo nazionale.
Per la prima volta dall’inizio della campagna elettorale, salgono insieme su un palco Raffaele Fitto, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Il primo, candidato alla presidenza della regione, è salentino di Maglie come Aldo Moro, ed è stato catapultato in politica ad appena vent’anni per la morte prematura in un incidente stradale del padre Salvatore, esponente di rilievo della Democrazia cristiana pugliese. Nel 2005 Fitto era stato battuto a sorpresa da Nichi Vendola e recuperato da Silvio Berlusconi come ministro per gli affari regionali. Finora ha condotto una campagna elettorale in sordina, comparendo poco e sottraendosi alle interviste. Dopo una delle rare apparizioni pubbliche, il 25 agosto in un’azienda ortofrutticola di Polignano a Mare insieme a Meloni, è stato pure costretto a un tampone d’emergenza perché proprio lì nei giorni successivi è esploso un focolaio di covid-19 che ha infettato 105 lavoratori. Inoltre, come è stato fatto notare in questi giorni, su di lui si allunga l’ombra del conflitto di interessi: la regione che vorrebbe guidare gli ha chiesto 21 milioni di euro come risarcimento per una delibera del 2004 – quando era presidente – che avrebbe causato uno spreco di soldi pubblici.
Gli altri due sono stati i veri protagonisti della campagna elettorale. Evitando accuratamente di incontrarsi, Meloni e Salvini hanno imperversato per tutta l’estate su spiagge e in feste di piazza, combattendo un’ulteriore sfida per l’egemonia sull’elettorato di destra. Se l’una ballava la pizzica in valle d’Itria, l’altro rispondeva mangiando focaccia e polpo vivo sulla spiaggia di San Girolamo.
Una competizione dentro la destra
Questa sera è la prima volta che si mostrano insieme e le persone che si assiepano sul lungomare, incuranti delle norme sul distanziamento sociale, sono qui solo per loro. I sostenitori di Fratelli d’Italia e della Lega si contendono la piazza a suon di ovazioni, cori e bandiere.
Il massimo dei decibel si raggiunge quando Giorgia Meloni dice che il voto alle regionali serve per “mandare a casa Conte” e quando Salvini urla “vogliamo i turisti che pagano, non quelli che sbarcano e poi rimangono qua per essere mantenuti a vita”, utilizzando a sproposito san Nicola, “patrono dei marinai” e migrante a sua volta. In questa singolare competizione populista, un ideale applausometro assegnerebbe una vittoria ai punti a Giorgia Meloni, mentre sullo sfondo si fanno sentire i fischietti dei contestatori di sinistra.
Fitto applaude a margine e non pare brillare di luce propria. Orfano di Forza Italia, ha stabilito un patto di ferro con Meloni, che da queste parti vuol dire con gli eredi di Pinuccio Tatarella, l’ex missino che con Gianfranco Fini riuscì a sdoganare i post-fascisti fondando Alleanza nazionale, e come tutta la destra sente vicina una vittoria di cui rischia di rimanere ostaggio. Al termine del comizio, stringe la mano a Salvini per la prima volta dall’inizio della campagna elettorale.
Il silenzio del centrosinistra
In tutta Bari si fa fatica a trovare perfino un manifesto elettorale del centrosinistra. Il presidente uscente della regione, Michele Emiliano, ha dichiarato esplicitamente di non sopportarli e all’inizio dell’estate ha detto che non avrebbe fatto campagna elettorale perché troppo impegnato a occuparsi dell’emergenza coronavirus. Una decisione astuta che ha sventato il rischio delle piazze svuotate più per le divisioni interne al centro sinistra – e per il mancato accordo con i cinquestelle – che per la paura del covid-19.
Per sentirlo rievocare le campagne dei bei tempi andati, quando montava su un carretto per raggiungere posti dove non arrivava neppure l’asfalto, è stato necessario prenotare un posto al cinema. In sala il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha arringato la platea promettendo progetti e opportunità legati ai soldi del recovery fund.
La vera ricerca del consenso passa dai santini elettorali che scivolano di mano in mano negli uffici dei professionisti e negli studi medici, dalla moltiplicazione delle liste e delle candidature forti come quella dell’epidemiologo Pier Luigi Lopalco – che ha gestito l’emergenza sanitaria durante i mesi più difficili –, o ancora dall’appoggio non dichiarato dell’associazionismo laico e religioso che non condivide l’estremismo della destra, specie sul fronte dell’immigrazione.
Il centrosinistra è arrivato però diviso alla competizione elettorale ed Emiliano rischia di essere colpito dal fuoco amico dei renziani, che gli oppongono Ivan Scalfarotto con l’obiettivo dichiarato di impedirgli la rielezione; della sinistra di Rifondazione comunista che corre da sola con il professore di educazione fisica brindisino Nicola Cesaria; e dei cinquestelle, che alle regionarie sulla piattaforma Rousseau hanno scelto come candidata la consigliera uscente Antonella Laricchia. Per questo Emiliano ha fatto appello al voto disgiunto, anche degli elettori del Movimento 5 stelle, sostenendo che è “l’unica strada per non indebolire il governo e per salvare la Puglia”.
Ne parlo con Leonardo Palmisano, uno dei pochi eredi della sinistra che tra il 2005 e il 2015 aveva dato vita alla cosiddetta primavera pugliese insieme al governatore Nichi Vendola. Una stagione che ora tanti, pure tra chi all’epoca era stato particolarmente critico, rimpiangono. Specie se messa a confronto con il “movimentismo immobile” di Emiliano, come lo definisce il direttore del Nuovo quotidiano di Puglia Claudio Scamardella, nel libro Le colpe del sud.
Palmisano ha sfidato Emiliano alle primarie e ora, candidato con il Pd, trascorre gli ultimi giorni di campagna elettorale a denunciare i rischi legati alla vittoria della destra. Dice che “nel centrosinistra non tutti hanno capito” che la Puglia è “un laboratorio politico per il fronte sovranista”, che “la destra che verrà fuori da queste elezioni sarà molto più radicale di quella del passato” e che “Fitto ha fatto buon viso a cattivo gioco e si è accordato con loro per stare al potere, ma sarà un burattino nelle loro mani”.
A fare la differenza potrebbe essere il voto dei comuni in cui si elegge anche il sindaco, dove l’affluenza sarà più alta e le divisioni locali nel centrosinistra, come a Corato e Modugno, potrebbero penalizzare Michele Emiliano ancor più della concorrenza renziana, comunista o del M5s.
La sfida a Modugno
Per questo ho deciso di andare a vedere cosa accade a Modugno, un centro di 37mila abitanti che ospita nel suo territorio il 70 per cento delle industrie baresi. Come molti comuni della cintura attorno al capoluogo, Modugno ha una tradizione di sinistra e, mi spiega con un certo orgoglio Enzo Fanelli, fondatore della sezione locale del Pd dopo essere passato per il Pci, il Pds e i Ds di cui è stato segretario, “conserva un’identità operaia che Bari non ha”.
In effetti, passeggiando per le viuzze di un centro storico denso di chiese e palazzi nobiliari, la campagna elettorale si vede ovunque: si mostra nei manifesti di centinaia di aspiranti consiglieri, nei simboli delle diciannove liste che sostengono cinque candidati a sindaco, negli immancabili santini di cui si può far collezione, e nelle chiacchiere da bar. Ogni lista ha una sua sede, ricavata in locali a volte di pochi metri quadri, con davanti il capannello di candidati, parenti o simpatizzanti.
Quasi tutte le liste affermano di sostenere Emiliano ed esibiscono la scelta di campo nei manifesti elettorali, ma sono in guerra tra loro e, a dispetto dei proclami pubblici, spesso lasciano libertà di voto sul candidato presidente alla regione. Tra gli aspiranti sindaci, tre su cinque si possono ascrivere al campo del centrosinistra e, a pochi metri di distanza, si guardano in cagnesco i sostenitori del Pd-Partito democratico e quelli del Pd-Preferenza democratica.
Lo scenario è molto diverso dalle elezioni del 2015, quando c’era più entusiasmo e più unione
“La verità è che la destra è compatta, noi no”, dice Fanelli, per il quale questa volta lo scenario è molto diverso rispetto alle elezioni del 2015, quando si veniva dal 40 per cento alle europee dell’anno prima e c’era più entusiasmo, oltre che più unione. Quella di Emiliano dovrebbe essere una vittoria annunciata, da queste parti, ma rischia di essere azzoppata dalle contraddizioni e dalle ambivalenze locali. Almeno, è quello che temono al circolo del Pd, dove al tramonto è previsto un dibattito.
La sede dei democratici affaccia sul corso principale di Modugno. Gli spazi all’interno sono angusti, gli organizzatori portano le sedie di plastica all’aperto e le dispongono a semicerchio sul marciapiede, rispettando le distanze per l’emergenza covid-19. Per attirare l’attenzione mettono anche un po’ di musica. Dalle casse parte a tutto volume l’immancabile Bella ciao nella versione folk-rock dei Modena City Ramblers e il clima è un po’ da festa dell’Unità d’altri tempi.
Sono pure i giorni della festa del patrono della città san Nicola. “San Nicola da Tolentino però”, ci tengono a precisare per rimarcare la differenza con l’omonimo di Bari. Con singolare tempismo passa la banda a confondere le musiche. Il trambusto si risolve in breve tempo, così possono prendere posto per primi il vecchio compagno Aldo Campanile, ex ferroviere, prima tessera del Pci agli albori degli anni cinquanta, e l’ex segretaria del circolo Lilly del Zotti. Un militante, Fabio de Pasquale, dice di sentirsi “cornuto e mazziato” perché alle regionali dovrebbe stare dalla parte di chi a Modugno è contro di lui. Il segretario Vito Silvestri esordisce con una punzecchiatura a Emiliano: “Qui sono venuti tutti i candidati tranne il presidente, prendiamo nota”, lasciando intendere che, se si fosse presentato, avrebbe dovuto scegliere da chi andare e nell’imbarazzo ha forse preferito non farlo.
Mentre la discussione si infervora sullo ius soli, mi allontano per andare a dare un’occhiata alle altre iniziative elettorali. Nella vicina piazza Sedile il candidato sindaco del Pd, Fabrizio Cramarossa, partecipa a un comizio del Partito socialista, con tanto di garofani e bandiere rosse. Poco distante, il sindaco uscente Nicola Magrone, ottant’anni, ex pretore a Monza, magistrato esperto di questioni ambientali e deputato progressista, davanti al comitato elettorale vanta l’abbattimento di un ecomostro che vegliava da 47 anni sul quartiere Cecilia, in un’area ad alta densità malavitosa, e la creazione di un “parco della legalità”.
Poco più tardi c’è un comizio del Movimento 5 stelle. Il candidato Domenico Rossini parla di centraline dell’aria e degli appalti per la pulizia delle strade a uno sparuto drappello di militanti.
Quando davanti alla sede della Lega, domenica 13 settembre, si presenta Matteo Salvini, i toni e l’atmosfera sono diversi. A Modugno c’è una sola lista di destra, quella leghista, e così Salvini ha gioco facile nel riempire la strada davanti alla sede del partito. Le persone si assembrano senza timori, esultano e applaudono a ogni battuta del capo del partito.
Il copione è il solito, con l’armamentario retorico sui “valori cristiani” e i fascisti che non sono fascisti ma “italiani orgogliosi di essere tali”. La citazione del santo del giorno stavolta riguarda padre Pio e ci sono pure i fischi di militanti di sinistra, che si fanno sentire a debita distanza. Nello stesso momento, a una quindicina di chilometri di distanza, Giorgia Meloni impastava orecchiette con alcune donne di Bari vecchia. Il risultato, a detta di quest’ultime, non è stato dei migliori.
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