Cuoco, romano, 34 anni: Lorenzo Leonetti ha cominciato a stare dietro ai fornelli undici anni fa. Di solito gestisce la cucina del Grandma bistrot al Quadraro, un quartiere popolare di Roma. La sua specialità sono i piatti dell’Europa orientale come il gulasch o il pileći batak, un piatto a base di pollo che ha imparato a cucinare quando viveva in Ungheria e viaggiava spesso attraverso i Balcani.
Quando, qualche mese fa, ha risposto all’annuncio di un’organizzazione umanitaria spagnola che cercava un cuoco per la cambusa della sua nave, non pensava che sarebbe finito nel mezzo di un confronto con la guardia costiera libica, a 73 miglia dalle coste del Nordafrica. Invece, il 15 marzo 2018, Leonetti si è ritrovato a bordo dell’imbarcazione dell’ong Proactiva Open Arms, fermata per due ore dai guardacoste libici nel Mediterraneo mentre cercava di soccorrere un gruppo di migranti.
“Dall’oblò della cucina ho visto la motovedetta libica arrivare a tutta velocità e sono salito di corsa sul ponte per capire cosa stava succedendo”, racconta. Sono cominciate fitte comunicazioni via radio tra i volontari, che avevano già recuperato alcune donne e bambini, e la nave spagnola, che era a pochi metri dalle lance di soccorso. “Avvisate Roma, i libici ci stanno minacciando”.
Non riuscivo a credere che stesse davvero succedendo: stavano minacciando chi salvava delle persone
Un guardacoste a bordo della motovedetta libica 648 Ras Jadir, donata dal governo italiano, ha urlato nel megafono ai soccorritori: “O ci date i migranti o vi uccidiamo”. La situazione di tensione è durata due ore: appena le lance spagnole hanno mostrato di volersi ritirare, l’imbarcazione dei migranti le ha seguite e una decina di persone si sono buttate in mare quando hanno capito che rischiavano di essere prese dai libici.
Un guardacoste è salito sul gommone degli spagnoli e si è messo a strattonare i migranti per costringerli a seguirlo, ma dopo un po’ se n’è andato. “A bordo la preoccupazione era altissima”, racconta Leonetti, che era alla sua prima esperienza in mare. “Eravamo minacciati con le armi, era una situazione surreale. Non riuscivo a credere che stesse davvero succedendo: stavano minacciando chi salvava delle persone”.
“Per fortuna”, continua, “alla fine l’aggressione è stata solo verbale e il clima di tensione a bordo è stato vissuto con grande professionalità. Il comandante e la capomissione sono riusciti a mantenere la calma e a trasmetterla al resto dell’equipaggio”. Quando i migranti sono arrivati a bordo sani e salvi la paura è diventata sollievo: “La preoccupazione più grande era di non riuscire a salvarli tutti, soprattutto quelli che si erano buttati in acqua”. La prima cosa che hanno fatto i piloti delle lance una volta tornati a bordo è stata andare ad abbracciare i migranti.
Da cuoco a interprete
La possibilità d’incontrare i libici era prevista, perché in passato c’erano già stati episodi di tensione. Il protocollo da seguire in questo caso era stato spiegato dalla coordinatrice prima dell’inizio della 43ª missione e anche Lorenzo Leonetti sapeva come avrebbe dovuto comportarsi. “Ma mai avremmo immaginato di essere minacciati da militari con le armi”, afferma.
Alla fine i libici si sono ritirati e il gommone dei migranti è stato trainato dalle lance spagnole fino alla nave madre. Leonetti ricorda di essersi occupato di accompagnare sul ponte i nuovi arrivati: “Gli portavo le coperte, dell’acqua e qualcosa da mangiare, erano infreddoliti, alcuni erano bagnati”. Una volta al sicuro si sono messi a piangere, qualcuno aveva gli occhi lucidi. “Hanno detto duecento volte grazie, sembravano preghiere di ringraziamento”. Ogni pacca sulla spalla, ogni stretta di mano era seguita da un grazie, racconta il volontario, che aveva deciso d’imbarcarsi dopo aver conosciuto molti rifugiati e richiedenti asilo nella sua città.
“Da anni faccio formazione sia per i neet (giovani tra i 15 e 29 anni che non lavorano e non studiano) sia per i richiedenti asilo nei centri di accoglienza”, racconta, “e ho conosciuto molte persone che hanno fatto il grande viaggio per arrivare in Europa. Per questo avevo voglia di fare un’esperienza come volontario a bordo di una nave di soccorso. Volevo capire come si organizza una cucina in una situazione simile, perché mi occupo anche di ristorazione sociale. Il cibo è anche trasmissione di valori ed è sempre più usato dalle associazioni non profit per autofinanziarsi. È una questione che m’interessa”.
Per il suo lavoro Leonetti non ha ricevuto nessun compenso. E invece ha dovuto organizzare la sua sostituzione nel ristorante: “Il problema più grosso è stato trovare qualcuno che mi sostituisse nel periodo di tempo che sarei stato imbarcato”. Ma una volta a bordo organizzare la cucina è stato più facile di quanto si aspettasse: “Mi sono trovato davanti una cucina molto ben attrezzata e ho capito subito che era importante per i soccorritori che ci fossero sempre dei panini pronti per i lunghi turni di lavoro. Qualche soddisfazione sono riuscito a levarmela: ho fatto anche il pane e la lasagna durante i primi giorni di navigazione”.
Durante il viaggio di ritorno, il tempo è peggiorato e le onde si sono alzate: “C’erano dei cavalloni altissimi e avevamo più di duecento persone a bordo con una nave bassa che non regge il mare. E per quasi 48 ore non ci hanno assegnato un porto dove sbarcare. Ho cucinato più di 40 chili di riso e molto purè, perché avevamo paura che le persone a bordo potessero sentirsi male per le condizioni del mare”. I migranti erano molto collaborativi, “quelli che erano in condizioni migliori davano una mano agli altri e all’equipaggio”.
L’aiuto del cuoco romano, però, è stato determinante soprattutto dopo lo sbarco nel porto di Pozzallo, in Sicilia. Dato che era l’unico italiano sulla nave, Leonetti ha dovuto improvvisarsi interprete quando le autorità hanno chiesto alla capomissione Anabel Montes Mier e al capitano Marc Reig Creus di seguirli al posto di polizia nell’hotspot del porto di Pozzallo per un interrogatorio. “Abbiamo scoperto solo qualche ora dopo l’arrivo di essere sotto accusa, mentre pensavamo di essere noi le vittime di un attacco in alto mare”, racconta Leonetti.
Montes Mier e Reig Creus non avevano neanche un avvocato che assistesse all’interrogatorio. Il capo della squadra mobile di Ragusa aveva nominato un avvocato d’ufficio, mentre gli avvocati scelti dai due spagnoli non erano stati informati dell’indagine. Lorenzo Leonetti è stato per ore al telefono con l’avvocato di fiducia a Catania e stava sulla banchina di Pozzallo quando il 18 marzo la polizia ha consegnato gli avvisi di garanzia nelle mani del capitano e della capomissione della Open Arms insieme alla notifica del sequestro della nave.
“Ho capito il peso che portano sulle spalle il capitano di una nave e il capo di una missione di questo tipo. Li ho visti trattati da criminali e, in tutti i modi a me consentiti, ho fatto il possibile per aiutare un’ong che vuole cambiare in meglio questo mondo”, ha scritto Leonetti sulla sua pagina Facebook una volta tornato a casa. Sotto la scritta c’è una foto delle 19 persone dell’equipaggio che mostrano uno striscione: “Salvare vite umane non è un reato”.
Sullo stesso argomento:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it