“Non è stata una decisione facile, ci ho messo sei anni ad arrendermi all’idea che affidarmi alla procreazione medicalmente assistita fosse l’unico modo per diventare genitore”. M. è un’avvocata, che ha da poco passato i quaranta. Mi parla mentre sua figlia, che ormai ha quasi due anni, ci guarda curiosa dal seggiolone. Le dà un cucchiaino con cui giocare e continua: “Quando mi hanno indicato la possibilità di una fecondazione eterologa o di ricorrere a un embrione donato proprio non me l’aspettavo. Quella terminologia mi ha spiazzata e, prima di prendere in considerazione l’ipotesi, ho dovuto digerire il dolore di non trasmettere i geni della mia famiglia a mia figlia. A pensarci oggi, una sciocchezza”.

Ci hanno insegnato l’importanza della contraccezione, ma non ci hanno spiegato che a 37 anni la fertilità di una donna diminuisce drammaticamente e un giovane maschio su tre è a rischio infertilità. In Italia una coppia su cinque non riesce ad avere figli naturalmente, circa il doppio rispetto ad appena vent’anni fa. Ma non se ne parla. Così quando viviamo questa situazione sulla nostra pelle, ci coglie un misto di incredulità, negazione, vergogna. Ci si sente soli e sbagliati, si spera nel miracolo e, quando finalmente si accetta l’infertilità come una malattia e si ricorre alla medicina per curarla, lo si fa con pudore e rabbia. È un tabù, una questione privata, secondo molti. Ma, come avremmo dovuto imparare dalle femministe degli anni settanta, “il personale è politico”, sempre. E lo dimostrano i numeri.

Sul sito dell’Istituto superiore di sanità c’è il registro nazionale della procreazione medicalmente assistita (pma), che tiene meticolosamente i conti: negli ultimi vent’anni quasi 220mila bambini sono nati grazie a queste tecniche. Per farsi un’idea, nel 2021 (ultimi dati disponibili) sono stati più di 16.625, ovvero oltre il 4 per cento del totale, e tra loro più di uno su quattro (3.719) deve ringraziare un donatore e/o una donatrice di gameti, le cellule destinate a unirsi nel processo della fecondazione: ovociti e spermatozoi, per intenderci. Dal 2014, cioè da quando la corte costituzionale ha corretto la legge 40, permettendo la cosiddetta fecondazione eterologa, crescono le coppie che ne fanno ricorso. L’Iss calcola che in dieci anni l’utilizzo di questa tecnica è passato dallo 0,3 al 13,8 per cento sul totale dei cicli di pma effettuati. Con percentuali di successo sempre più alte.

Questi dati poi non tengono conto di chi sceglie di andare all’estero per evitare liste d’attesa che possono allungare i tempi anche di qualche anno o di chi è costretto a farlo perché in Italia non gli è permesso essendo gay o single. Secondo la Società italiana della riproduzione umana (Siru), solo nel 2022 più di tredicimila coppie italiane sono andate in altri paesi per motivi riproduttivi, nella maggior parte dei casi puntando alla cosiddetta fecondazione eterologa. Significa che in Italia migliaia di bambini nascono ogni anno grazie a una donatrice o a un donatore, o a entrambi. Anche se, troppo spesso, non ne sono al corrente.

“Eterologo in italiano si usa per definire il materiale organico proveniente da una specie diversa”, spiega Tullia Penna, ricercatrice in filosofia del diritto all’università di Torino. “È una scelta lessicale raccapricciante che il nostro legislatore ha fatto nel 2004 ed è entrata nell’uso comune portandosi dietro un pesante stereotipo negativo: nella fecondazione definiamo l’uso di cellule altrui come se si trattasse dell’impianto della valvola cardiaca di un suino su un essere umano. E poi ci stupiamo che esista un tabù nel raccontarla!”.

Penna ha cominciato a interessarsi di questi temi in Francia, dove ha lavorato per un paio d’anni e si è trovata “immersa in un ambiente in cui il diritto di chi è nato grazie alla donazione di gameti a conoscere le proprie origini era diventato un tema enorme. Confrontandomi con le associazioni dei pazienti, ho capito che per l’Italia era solo questione di tempo. Nel giro di qualche anno affronteremo gli stessi temi nel dibattito pubblico e nel campo legislativo”.

N. è una grafica freelance di 44 anni. Ha cominciato ad affidare il suo desiderio genitoriale alla medicina quando di anni ne aveva 36. “Già dai risultati delle prime fecondazioni in vitro era chiaro che saremmo dovuti ricorrere agli ovociti di una donatrice, ma il mio compagno non riusciva a rassegnarsi all’idea. Paradossale, no? Non era lui a dover rinunciare alla trasmissione del proprio patrimonio genetico a un eventuale figlio, eppure l’ipotesi che lo facessi io lo disturbava”.

La coppia non ha retto, ma N. non si è arresa: è diventata madre da single a quasi 41 anni, grazie a una doppia donazione. “Dopo tanti tentativi falliti sono rimasta incinta al primo colpo, ma non facevo altro che domandarmi come l’avrei detto a mia figlia. Mi sentivo come se non avessi pienamente diritto a diventare madre, mi immaginavo una confessione, un’annunciazione che non c’è mai stata e mai ci sarà. La verità, se non la si nasconde, filtra quotidianamente a scuola e nel confronto con le altre famiglie. E, per dirla tutta, pesa più l’essere genitore unico, che l’assenza di un legame genetico”.

“La genitorialità è una relazione dal punto di vista psicologico, non c’entra niente con il dna”, dice al telefono Valentina Berruti, psicologa e psicoterapeuta che dal 2014 si occupa soprattutto di sostegno alle coppie che non riescono ad avere figli. “Le famiglie omogenitoriali si esercitano sulla narrazione delle origini fin da subito e le ricerche sui loro figli ci dimostrano che non soffrono di alcun trauma nel sapere di essere nati da uno o due gameti donati. Perché dovrebbe essere diverso per i figli degli eterosessuali? Nelle relazioni è il segreto che impone una distanza difficile da colmare, e il segreto in questo caso è spia del fatto che non si è stati in grado di elaborare il lutto biologico. In poche parole si prova un senso di inadeguatezza e di vergogna per non avere potuto generare un figlio con il proprio patrimonio genetico”.

Senza leggi

Dico a Berruti che ho avuto difficoltà a trovare coppie etero disposte a farsi intervistare sul tema. Le poche con cui ho parlato non hanno alcuna intenzione di affrontare pubblicamente l’argomento e, almeno per il momento, ai loro figli non hanno detto nulla. La psicologa non si stupisce. Secondo lei hanno più problemi a confrontarsi con questo tema perché sono meno abituate a gestire e accettare la propria diversità. “Spesso non consideriamo l’impatto psicologico che può avere una diagnosi di infertilità sulle persone: ci si sente sbagliati e diversi. Ed è per evitare di affrontare una nostra fragilità che preferiamo non dire di aver fatto ricorso alla donazione di gameti. Nella maggior parte dei casi ci raccontiamo che è un modo per proteggere i nostri figli, ma stiamo proteggendo noi stessi. Non c’è nulla di male nel nascere in un modo diverso”.

E sarebbe bene saperlo. Perfino nel consenso informato, che si firma a monte di ogni trattamento, c’è una postilla in cui si spiega che non dire ai propri figli di essere nati da fecondazione eterologa li espone a diagnosi mediche inappropriate. Inoltre, una raccomandazione del Consiglio d’Europa adottata nel 2019 incoraggia i paesi a legiferare per la fine dell’anonimato delle donatrici e dei donatori. E sempre più stati stanno andando in questa direzione. Questo non significa etichettare i gameti con il nome e l’indirizzo di chi li ha donati, ma garantire alle persone nate grazie a loro che una volta raggiunta la maggiore età possano accedere a queste informazioni. In Italia siamo indietro e, in assenza di leggi specifiche, non è facile trovare il giusto equilibrio tra i diritti dei genitori che scelgono di tutelare il proprio nucleo familiare anche attraverso l’omissione di un’informazione, quelli dei figli a conoscere le proprie origini e quelli dei donatori a cui è stato garantito l’anonimato.

“La ricerca delle origini, secondo la gran parte della dottrina giuridica, riguarda proprio il diritto di ogni individuo all’identità” spiega nel suo ufficio Chiara Ingenito, avvocata specializzata in diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni che ha cominciato a occuparsi del tema quando nel 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver tutelato la volontà di una madre biologica a rimanere anonima di fronte alle richieste di sua figlia che, abbandonata alla nascita, era stata adottata.

“In assenza di norme specifiche, noi giuristi cerchiamo di ragionare per analogie. La legge obbliga i genitori adottivi a informare il figlio sulla sua condizione di adottato, ma nulla di simile è previsto nei casi di fecondazione assistita con donazione di gameti. E cosa succederebbe se una persona nata grazie all’eterologa si rivolgesse al giudice per avere informazioni sui suoi cosiddetti genitori biologici?”.

Ingenito sostiene che potrebbe addirittura sollevarsi un problema di costituzionalità: “Se diciamo che i figli adottivi godono di diritti differenti rispetto a quelli nati grazie alla donazione di gameti non stiamo violando il principio di uguaglianza tra cittadini?”. Inoltre, spiega ancora l’avvocata, “dal 2012, quando il codice civile ha finalmente parificato la condizione dei figli nati dentro e fuori il matrimonio, dovrebbe essere chiaro a tutti che lo status di figlio è uno solo, a prescindere dal modo in cui è stato generato”.

Ma chi genera e si prende cura di un figlio non condividendo con lui un legame biologico deve imparare a dialogare con molte paure. Le più comuni: saprò accettare un figlio che non mi somiglia? E se si sentisse diverso dagli altri? Se si arrabbiasse con me per questa scelta? Un giorno potrebbe desiderare di conoscere i donatori? E se li preferisse a noi? “La maggior parte degli studi di psicologia e antropologia medica”, spiega Penna, “sostengono che è la scoperta accidentale a produrre il trauma che spinge a cercare l’identità del donatore. Speriamo che questa figura possa sanare un irrisolto della nostra personalità o del rapporto con i nostri genitori, che nella realtà è stato generato da un tabù”.

Inoltre, secondo Berruti, “il modo in cui siamo nati definisce la nostra identità e allenarsi a raccontarlo ci insegna ad accettarla. Dobbiamo saper accettare il fatto che i nostri figli potranno non esserne contenti, esattamente come non lo saranno di tante altre scelte che abbiamo fatto per loro. La genitorialità è costituita principalmente da quattro ingredienti: il desiderio di avere un figlio, l’intenzione di farlo, la dedizione che gli si offre e la capacità di instaurare una relazione. Con la genetica non c’entra proprio nulla”.

Da sapere
La foto

La foto pubblicata in questo articolo fa parte della serie Dreaming of Zeno, per cui la fotografa Annalaura Cattelan ha seguito la storia di Sara e Martina, che nel 2022 sono andate in Spagna per intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita.


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