“Piccola Firenze”, c’è scritto così sull’insegna del negozio di fiori alla fine della strada principale che taglia in due il paese, Nehoiu, circa dodicimila abitanti, 150 chilometri a nordest di Bucarest.
È un sabato pomeriggio nebbioso, un inverno che non sembra già finito come in Italia: Bogdan, 33 anni, guida con prudenza una Dacia rossa del 2002 che usiamo per spostarci dal centro della capitale fino a qui, nella regione pedemontana del distretto di Buzau, dove lui e gli altri due ragazzi seduti dietro sono cresciuti insieme.
Usciamo da Bucarest passando per la periferia industriale. Bogdan parla della potenza intrinseca, vitale, di un paese che sta cercando di centrarsi: una giovane generazione di studenti, neolaureati che affollano l’università della capitale. Dice creatività, talento, opportunità.
“Il sistema economico fatica ancora moltissimo a trovare una quadratura: il livello di corruzione nel panorama politico è spaventoso, gli stipendi in città non riescono a soddisfare le esigenze di una qualità della vita pienamente occidentale” – la chiama così lui – “l’affitto, una macchina, un pacchetto di sigarette, le serate nei locali o un weekend al mare, a Costanza”.
“Le cose cambiano, piuttosto drasticamente, se si decide di spostarsi nelle zone rurali: in campagna puoi trovare un affitto a centocinquanta euro, senza troppe pretese, puoi scegliere di lavorare la terra o di rimettere a posto la casa dei nonni o dei genitori, con una cifra esigua si riesce ad arrivare a fine mese. Ma il lavoro scarseggia, le infrastrutture e i servizi sono ancora lenti, e le giovani generazioni non se la sentono di affrontare il ritorno alla terra”.
La maggior parte dei miei amici più cari abita ancora a Firenze. Mi dicono che di lavoro, oggi, se ne trova meno
E mentre Bogdan parla, proprio la terra, cristallizzata sotto una brina ghiacciata, si apre a perdita d’occhio: entriamo nella regione di Muntenia, qualche contadino a cavallo, trainando balle di fieno sul carretto, spezza il silenzio delle strade boschive, sconnesse.
Passiamo anche per Bascenii de jos, un piccolo agglomerato abitato in prevalenza dalla comunità rom: castelli in miniatura, con torrette e verande verniciate di colori accesi, con le staccionate aperte, molti lavori da finire e le decalcomanie Ferrari attaccate alle finestre dei saloni.
“Ci sono molti esempi di insediamenti rom da queste parti: qui vivono proprio quel tipo di persone che voi in Italia vedete chiedere l’elemosina ai semafori. Con i soldi che mettono da parte all’estero costruiscono ciò che hai davanti. Sono una comunità piuttosto tranquilla, non creano problemi. In Romania sono stati schiavi per almeno cinque secoli, dal 1300 all’ottocento, e dopo il comunismo la diffidenza fra noi e loro è diminuita”.
Quando arriviamo a Nehoiu, sede di una storica, gigantesca fabbrica di legname, che da sola dava lavoro a quasi tutta la regione, Bogdan sorride e dice: “Siete fortunati. Domattina ci sarà il mercato cittadino in piazza, credo che troverete esattamente quello che state cercando”.
I ragazzi italiani
I ragazzi si muovono disinvolti per le strade, ci trattano da turisti: la vallata che si estende a pochi chilometri, con la fabbrica che domina imponente la parte centrale, le villette costruite sul promontorio del paese, poco sopra l’ospedale, una ciminiera grandiosa – “il campanile della chiesa, quella a cui tutto il paese era davvero fedele” – che segna il profilo di una realtà “addormentata”, dove loro hanno scelto di tornare ad abitare, in controtendenza o forse un passo avanti, orgogliosi delle idee che hanno in testa, solerti, motivati.
“Ci vediamo fra un paio d’ore al pub, verranno altri amici che potrete intervistare”, dice Simona, un’amica di Bogdan che viaggia con noi. Classe 1985, vive e lavora a Bucarest per una grande multinazionale di digital marketing. Pure essendo romena, cresciuta in una realtà rurale simile, Simona sembra la prima a stupirsi del silenzio di Nehoiu.
Così, poco dopo esserci sistemati nell’unico albergo del paese, ci avviamo al locale e cominciamo a conoscere tutti i “ragazzi italiani” che sono tornati a casa: fra un sorso di gassosa e qualche snack, alla fine siamo una quindicina di persone riunite intorno al tavolo.
Lo spaccato di una generazione: facce infreddolite, berretti di lana in testa, quando si siedono tolgono i guanti e si presentano sorridenti. Imitano l’accento fiorentino, parlano un italiano invidiabile.
“Sono stato nel vostro paese più di dieci anni”, dice Constantin, il più loquace e guascone dei tanti ragazzi. “Ho fatto diversi tipi di lavoro, dal facchino allo spedizioniere. La maggior parte dei miei amici più cari abita ancora a Firenze, li sento spesso. Mi dicono che di lavoro, oggi, se ne trova meno rispetto a quando siamo partiti insieme, intorno al 2002. A quell’epoca se ti mostravi rispettoso e non avevi molte pretese, nel giro di una settimana avevi uno stipendio più che decente”.
Gabriel invece ha 35 anni, occhi scuri, mostra un carattere abbastanza schivo. Il suo più grande sogno è fare il parrucchiere: “In Italia ci ho provato, ho lavorato molto per pagarmi la retta delle scuole professionali. Ho frequentato diversi corsi ma di mettere un’attività in proprio alla fine non me la sono sentita: le tasse, la burocrazia, il costo degli affitti”.
Costantin, Bogdan, Gabriel e gli altri ragazzi sono partiti per l’Italia poco più che maggiorenni, tutti e tre hanno ancora la madre che vive e lavora a Firenze come badante.
“Siamo partiti prima noi: non avremmo mai mandato le donne in avanscoperta. Non è parte della nostra cultura, del nostro modo di pensare. Dopo qualche anno che vivevamo in Italia, che avevamo una casa e uno stipendio regolare, loro ci hanno raggiunti.”
Se davvero capissimo che soffrono, le faremmo tornare. Ma loro sono contente di poterci aiutare
Oggi, queste mamme-forza lavoro sono vicine ai sessant’anni e, a detta dei figli, “non hanno la minima intenzione di tornare a casa. Non adesso almeno, non così”.
In Italia le pensioni, che possono percepire dopo vent’anni di lavoro, sono molto più alte rispetto a quelle romene, e anche la qualità della vita non ha paragoni: “Ogni volta che è triste, mia mamma mi chiama al telefono da un posto vicino a Ponte Vecchio”, racconta Bogdan. “Con questa vista che ho davanti, dice, Bogdan mio, amore mio, adesso sto già meglio”.
Quando chiediamo ai ragazzi se si sentono dei privilegiati, se non provano malinconia pensando alle condizioni di lavoro spesso sfiancanti, di grande fatica emotiva e relazionale, delle madri, tutti rispondono accorati: “Se davvero capissimo che soffrono, le faremmo tornare. Ma loro sono contente di poterci aiutare, sono devote alla nostra felicità”.
Così, oggi, Bogdan ha tante idee in testa: ci ha portati a visitare la grande casa dei nonni che pian piano sta ristrutturando da solo, cercando di dotarla di ogni comfort possibile. “Potrebbe diventare un b&b di livello”, sorride. “In fondo questa zona è vicina a delle località sciistiche, ed è a un’ora di strada da Brașov, una città con un grande patrimonio storico e archeologico”.
Gabriel vuole aprire un salone di parrucchiere proprio nella strada più trafficata del paese, ha già messo gli occhi su un negozio che potrebbe avere le caratteristiche giuste. Constantin lavora ogni giorno l’appezzamento di terra che ha ricevuto in eredità insieme alla casa dei genitori e ha un progetto ambizioso, di cui per scaramanzia racconta lo stretto indispensabile, sulla coltura dei semi e dei frutti che potrebbe diventare un vero business.
Sono vulcanici i ragazzi seduti al pub di Nehoiu un sabato sera d’inverno: sprizzano certezze, non hanno nessun accenno di vacuità, mostrano una fede accesa nell’iniziativa personale e una sfiducia nelle istituzioni governative, ma anche l’intenzione ferma di sabotare ciò che arresta, che incaglia.
Ragazzi che, alla domanda provocatoria “tornereste in Italia adesso?”, rispondono all’unanimità: “Solo se ce ne sarà bisogno. E pregando il Signore, no”. Il bisogno è quel lavoro fatto di una rubrica di contatti telefonici da chiamare se capiterà. Gli amici rimasti a Roma, che lavorano come stagionali negli agriturismi della Maremma, come Jodi, che è qui in vacanza per un paio di settimane, ma lui da Grosseto non si sposterebbe mai: ha una moglie olandese, due bambini che vanno alle elementari, d’estate lavora anche dodici ore come factotum della struttura ricettiva, ma con l’Italia, dice, ha fatto una scommessa grande quanto un’esistenza intera.
Le donne di Nehoiu
La domenica mattina, al mercato allestito nella piccola piazza nella parte bassa del paese, le donne non ci sono. Tutta la popolazione femminile dai 35 ai 55 anni è nebulizzata nel ricordo, nei nomi affettuosi del ricordo di chi resta.
Le donne sono nei tanti cartelloni pubblicitari che tappezzano la città promuovendo schede telefoniche e tariffe economiche per le chiamate internazionali, le donne sono aloni dentro gli uffici postali, quando arrivano i transfer, le buste, i pacchi, le lettere.
Le donne ci sono sempre, e dall’altra parte mai.
“Quando quassù qualcuna di loro decide di partire per lavorare all’estero”, ci racconta l’anziana proprietaria di una bancarella di spezie al mercato, “il matrimonio finisce”. Alza le mani, nel suo inglese a gesti, in un italiano forzato, poi schiocca le dita: “Finito”, dice. Il matrimonio non esiste più, la donna, dal momento della partenza, diventa la più cospicua fonte di finanziamento per il nucleo familiare che resta a casa. Gli uomini, che hanno lavorato quasi tutta la vita alla fabbrica, in età matura si ritirano a coltivare la terra, fanno la legna, si ritrovano al bar nel primo pomeriggio, invecchiano soli.
Gli uomini, la domenica mattina al mercato di Nehoiu, trainano i carrelli a due ruote riempiti di formaggi di pecora e carne arrostita.
Le donne sono ormai lontane: alcune di loro hanno eliminato il passato, cercando in una vita faticosa ma indipendente almeno un parziale riscatto. Altre tornano a casa di quando in quando. Altre ancora si ammalano letteralmente di nostalgia, la famosa “sindrome italiana”, una forma di depressione che colpisce molte lavoratrici romene in Italia, donne che fanno le badanti o le colf, che vivono tra due paesi e due famiglie, senza appartenere a nessuno.
Tutte alla fine mettono al centro solo e soltanto il figlio, come se la maternità diventasse l’unico segno di riconoscibilità, l’unica traccia identificativa.
Il femminile a Nehoiu sta dentro le cornici di legno dorato nel salotto buono delle case in via di ristrutturazione, in fotografie in bianco e nero di donne che sorridono e sono ancora bambine, sta nelle telefonate affettuose di Bogdan che saluta la sua mama e le chiede in viva voce che tempo fa a Firenze e come sta oggi il signor Adelmo, che ha ottantotto anni e non ci vede più.
Bogdan ride e la donna si commuove, salutandoci ci chiede scusa se la casa che abbiamo visitato era in disordine, ci manda abbracci e ci ringrazia. Multumesc.
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