Il reportage che segue è un estratto da I fantasmi non esistono (Mondadori 2021). Il libro racconta storie di senzatetto, detenuti, nuovi poveri. L’autore lo presenterà il 23 novembre a Spazio Scena a Roma (via degli Orti d’Alibert 1), con Francesca Mannocchi e Goffredo Fofi.

Per la prima volta in quasi quarant’anni Giuseppe Zocchetti ha sopra la testa un tetto che non è quello di un carcere o di un dormitorio per senza dimora. Nato nel 1954, dal 1978 al 1998 è stato in galera, mentre dal 2000 al 2019 ha vissuto per strada. Da due anni convive con altri due ex senzatetto in un appartamento luminoso nel quartiere Savena, quattro chilometri a sudest del centro di Bologna. I coinquilini gli hanno scritto sulla porta della stanza: Pippo morde? Lui sorride, dice che ogni tanto gli capita di dare quest’impressione.

Massimiliano Palladino ha quarantasette anni e la casa l’ha persa nel 2005, costretto a venderla perché non aveva più soldi. Ci sono voluti dodici anni di deragliamenti, terapie psichiatriche, diverse “cazzate fatte con la droga” e un mese alla stazione di Bologna per trovarne un’altra che riuscisse di nuovo a definire sua: un appartamento al terzo piano con due stanze da letto, un bagno e un salotto con balcone dove ogni tanto si posano dei piccioni. È un po’ fuori dal centro, in una stradina piccola e tranquilla di Borgo Panigale, nella periferia nordovest della città, ma a lui non importa: “Sono felicissimo. Finalmente non devo più condividere niente con nessuno, sono di nuovo a casa mia. Quando l’ho vista per la prima volta, nel 2017, ho avuto la sensazione che fosse come entrare nel mio ultimo appartamento, quello che avevo scelto e che stavo pagando con i miei soldi prima di mandare tutto all’aria”.

Zocchetti e Palladino hanno regolari contratti d’affitto, contribuiscono alle spese e si sono lasciati alle spalle le notti al gelo nel capoluogo emiliano grazie a un progetto che mette in discussione in modo radicale l’approccio tradizionale al problema di chi vive per strada.

I limiti del sistema

Come succede in molti altri paesi, anche in Italia il sistema per aiutare i senza dimora si basa su un modello a scala. Una persona fa tappa nei centri diurni, passa notti nei dormitori e se intanto si sarà rimessa almeno un po’ in carreggiata, se nel frattempo non sarà tornata al punto di partenza a causa di dipendenze, malattie o crisi economiche rispetto alle quali è disarmata, allora potrà sperare di trovare un appartamento. In questa logica, la casa costituisce la ricompensa suprema.

La fatica di chi tiene tutto in piedi è spesso quella di Sisifo: centinaia di operatrici, operatori, psicologi e volontari ogni anno accolgono migliaia di persone che però nella stragrande maggioranza dei casi rimangono per strada.

Il problema è che ogni sforzo si consuma all’interno dello spazio dell’emergenza: ma in un paese in cui l’Istat ha censito almeno 50mila senza dimora, dove 5,6 milioni di persone vivono in povertà assoluta e dove dal 2017 sono stati emessi in media più di 50mila provvedimenti di sfratto all’anno, l’emergenza è ormai strutturale. E la rete dei centri diurni e notturni, sebbene sia ancora necessaria, mostra molti limiti. È per rovesciare il presupposto che la casa sia un traguardo da raggiungere che è nato il progetto a cui partecipano anche Zocchetti e Palladino. Si chiama Housing first (“la casa prima di tutto”) e ha una storia interessante.

Un approccio diverso

L’intuizione l’ha avuta per primo lo psicologo Sam Tsemberis. Nato nel 1949 a Skoura, in Grecia, e cresciuto a Montréal, in Canada, Tsemberis è stato definito dal quotidiano statunitense Washington Post “l’outsider che per caso ha quasi risolto il problema dei senzatetto cronici”. Nei primi anni novanta fu assunto dal comune di New York per occuparsi di persone che soffrivano di malattie psichiatriche. Il lavoro lo portò a stretto contatto con alcuni senzatetto. Più il tempo passava, più li conosceva, più si rendeva conto che il modo in cui si provava ad aiutarli era fallimentare. “Tutto si basava su un sistema di ricompense”, scrive il Washington Post, “scaccia una dipendenza, ricevi una casa; prendi qualche medicina, avrai un terapeuta che si occupa di te”.

Tsemberis elaborò un progetto tanto semplice quanto controintuitivo. Intanto, decise che bisognava aiutare per primi i senzatetto di vecchia data e che avevano problemi psichiatrici o disabilità fisiche. Tra tutti, quelli apparentemente più complicati da aiutare e che rappresentavano “i costi più significativi dal punto di vista dei ricoveri in ospedale, della permanenza in galera o nei rifugi”. Bisognava dargli una casa senza fare troppe domande e costruirgli intorno una rete di specialisti per affrontare dipendenze e malattie. Il tutto, dandogli sempre l’ultima parola.

Grazie a un finanziamento federale di 500mila dollari Tsemberis poté cominciare il suo esperimento, fornendo case e sostegno terapeutico a 139 senzatetto cronici. I risultati non tardarono ad arrivare: nell’85 per cento dei casi le persone trovavano un loro equilibrio e non tornavano per strada. “Anni dopo, il governo federale estese la prova a 734 senzatetto in undici città, scoprendo che il modello riduceva drasticamente le dipendenze delle persone coinvolte e dimezzava i costi per il sistema sanitario”, ha scritto Terrence McCoy, sempre sul Washington Post.

Con il passare del tempo Housing first è stato adottato in molti altri paesi. In Europa tra i primi a farlo c’è stata la Danimarca, che dal 2009 al 2013 ha dato una casa a circa mille senzatetto. La Finlandia è l’unico stato in cui il numero delle persone che dormono per strada sta diminuendo proprio grazie all’Housing first e a una serie di politiche per la casa che frenano le speculazioni del mercato e sono orientate a proteggere chi ne ha più bisogno. In Italia il programma è arrivato nel 2014, ma a Bologna qualcuno stava sperimentando in questo campo già dall’anno prima.

A Bologna

“Nel 2013, all’interno di Piazza Grande discutevamo parecchio su quello che ci sembrava un cortocircuito”, dice Antonella Meola, coordinatrice del progetto Housing first nel capoluogo emiliano. “Piazza Grande si occupa di emarginazione sociale da più di venticinque anni, gestisce centri di accoglienza, unità di strada, progetti di inserimento lavorativo. Questa esperienza ci ha permesso di guardare in faccia la realtà: molte persone entrano nei dormitori perché non hanno alternative, ed è un bene che trovino un posto letto quando sono in emergenza, ma il sistema non produce soluzioni per uscirne”.

Per spezzare questo circolo vizioso, la cooperativa stringe accordi con alcuni privati, prende in gestione alcune case e ci porta chi ne ha bisogno. Quando nel 2014 l’associazione per senzadimora fio.PSD fonda la rete Housing first Italia, Bologna è una realtà concreta a cui guardare. Oggi, grazie alla coprogettazione con il comune, il programma Housing first Co.Bo può contare su 35 appartamenti per 73 persone. Quasi tutti prevedono coabitazioni con due o tre posti letto, ma ci sono anche un monolocale e soluzioni per le coppie (che nei dormitori sono costrette a dividersi). È possibile immaginarli tutti come nodi di una rete. “La casa da sola non basta, è fondamentale il lavoro di squadra con i vari servizi sul territorio”, spiega Meola. “Per esempio, può capitare che ci arrivino segnalazioni di persone da prendere in carico dai centri di salute mentale o da chi si occupa di dipendenze, dai servizi che seguono le persone con disabilità o dai centri diurni e notturni. In Italia, il bacino a cui Housing first si rivolge è molto più ampio rispetto al progetto statunitense”.

Quando Piazza Grande si attiva, lo fa con una squadra multidisciplinare: “Si va dagli psicologi agli educatori, e questo perché i bisogni di una persona possono essere i più diversi e bisogna capirli se si vuole che il suo trasferimento in una casa vada in porto, così come che la convivenza vada bene. Dedichiamo diverso tempo a questa fase di ingaggio’. Parliamo molto con chi ci troviamo di fronte, cerchiamo di incontrarlo nei luoghi che frequenta, o comunque in posti informali, indaghiamo aspettative e desideri, ma anche la voglia di mettersi in gioco e di responsabilizzarsi. I tempi dell’ingresso in casa li valutiamo insieme, perché variano da persona a persona: c’è chi non vede l’ora di trasferirsi e chi ha bisogno di settimane o mesi per fare i conti con la prospettiva di cambiare vita”.

Chi viene direttamente dalla strada ha bisogno di un po’ di tempo per abituarsi

L’idea è che si esce dalla strada per entrare, o rientrare, in una comunità. “Con tutti i diritti che spettano a una persona, da quello allo studio a quello alla salute”, spiega Meola, “e con le possibilità che la strada o la vita in un dormitorio rendono complicate, come trovare un lavoro o ristabilire relazioni familiari”.

Tra il 2017 e il 2019, grazie a progetti come quello di Bologna, la rete Housing first Italia ha accolto 420 persone in nove regioni. La metà viveva per strada da anni. Nel 60 per cento dei casi si trattava di uomini, mentre gli italiani erano il 70 per cento e il 30 per cento aveva un’età compresa tra i 45 e i 55 anni. La percentuale di occupati è passata dal 27 al 40 per cento, e alla fine del monitoraggio uno su cinque aveva raggiunto l’autonomia e si manteneva da solo. Il costo medio che l’associazione fio.PSD ha calcolato è di 26 euro al giorno a persona. In un dormitorio la cifra si aggira intorno ai 19 euro, in un centro dove si può stare ventiquattr’ore su ventiquattro è di 32, in carcere (dove chi vive per strada spesso finisce per reati di poco conto) è di 137, mentre in una comunità psichiatrica è di 140-160. I costi dell’affitto sono a carico degli enti che gestiscono i progetti (fino al 70 per cento) e degli stessi inquilini (fino al 30 per cento del loro reddito, se ne hanno uno), a meno che non si tratti di appartamenti in comodato d’uso, o che non ci sia una compartecipazione alle spese da parte delle amministrazioni locali.

Nelle case gestite da Piazza Grande vivono 72 persone: 48 italiane e 24 straniere; 23 sono donne. Il più giovane ha 28 anni, il più anziano 73. Chi viene direttamente dalla strada, dice Meola, ha bisogno di un po’ di tempo per abituarsi. Giuseppe Zocchetti, per esempio, dopo alcuni mesi che si era trasferito nell’appartamento aveva preso le sue cose e se n’era andato.

Aggiustarsi da soli

“Ci diceva che la strada era casa sua, che stava bene, ma la verità era che stava attraversando un periodo difficile, e in casi del genere lui tende a sfuggire”, racconta Ekin Bayurgil, l’operatrice di Piazza Grande che lo segue da cinque anni. Origini turche, trentasette anni, Bayurgil aggiunge che “però si rendeva conto che era un gesto autodistruttivo, che quella vita peggiorava i suoi problemi alle gambe, e così dopo un mese è tornato. Anche ora sta male, ma gestire la situazione mentre è a casa è tutta un’altra cosa”.

Zocchetti soffre di un’occlusione alle vene femorali che gli toglie la forza per tenersi in piedi. “Non è doloroso, ma mi butta giù, anche dal punto di vista del morale”, dice appoggiandosi a una stampella. Folte sopracciglia nere, barba e capelli lunghi e bianchi, saluta Bayurgil con calore e nella cucina dell’appartamento di Savena le indica una caffettiera rosa sui fornelli: “È già pronta, ci pensi tu?”. Bayurgil sorride e accende il fuoco. “È un grande aiuto per me”, spiega Zocchetti, sedendosi. “Per via delle gambe non esco di casa da due mesi e mezzo, e lei qualche volta è anche andata a farmi la spesa”. Bayurgil dice che non deve preoccuparsi, ma lui scuote la testa: “A me dispiace, io non ho mai chiesto niente in vita mia. Nemmeno quando vivevo in strada”.

Nel ricordare come ci è finito gli capita spesso di abbassare gli occhi e stringere i pugni, nascondendo le punte delle dita ingiallite dal fumo. “Nel 1978 ho ucciso un uomo durante una lite. A Pasquetta, dopo aver pranzato con i parenti, avevo fatto un salto in un bar di Curino, in provincia di Biella, dove andavo spesso. Un tizio ubriaco mi prese subito di mira. Aveva voglia di discutere e alla fine mi spinse verso una vetrinetta, facendomela rompere. Capii che non era aria e me ne tornai alla macchina, ma lui mi seguì e cominciò a tirarmi delle pietre. Allora non ci vidi più dalla rabbia, presi il crick e gli spaccai la testa”. Sulle prime non si accorge di quello che ha fatto, torna a casa e si comporta come se non fosse successo niente. “Ma il tizio morì tre giorni dopo e i carabinieri mi arrestarono subito. Al processo mi condannarono a vent’anni”.

In carcere Zocchetti resta per quasi tutta la durata della pena, gira le celle da nord a sud, lavora sei anni come “spesino” a Fossano – si occupa cioè della spesa dei compagni –, ma in generale si lascia governare dalla corrente inerte della galera, fatta di giornate tutte uguali, a volte disperate, più spesso deserte. “Il carcere è il carcere, non c’è molto da dire”, taglia corto. Poco prima di uscire gli arriva una lettera anonima che lo avvisa che la moglie lo tradisce. Si erano sposati nel 1974 e prima che lo rinchiudessero avevano avuto tre figli. “Durante tutti quegli anni, ovunque mi trovassi, appena mi davano un permesso andavo da loro. Nel frattempo avevamo avuto anche una quarta bambina. Non potevo immaginare. Nel 1998, una volta libero, sono tornato nella mia casa di Sostegno, in provincia di Biella, e ho provato a rimettere insieme le cose, ma non ce l’ho fatta. Filomena era l’unica donna che avevo amato in vita mia, ci eravamo conosciuti nella fabbrica di filati dove lavoravamo da ragazzi e ci eravamo sposati subito. Il pensiero che mentre stavo in galera mi aveva tradito non mi lasciava in pace. La testa non c’era più. Così nel 2000 ho mollato tutto, sono salito su un treno e sono andato prima a Milano, poi a Padova e infine a Bologna, lasciandomi tutto alle spalle”.

Quando a Giuseppe dicono che c’è la possibilità di trasferirsi in una casa comincia a pensarci seriamente

A Bologna prova a cercare un lavoro, ma non è semplice. A quarantasei anni e senza alcuna esperienza oltre a quella di operaio, nessuno gli offre niente. Non può contare neanche su dei risparmi. Figlio unico di genitori contadini, ha lavorato fin da ragazzo, ma tutto quello che ha è la casa dove vivono la moglie e i figli, che lui non vuole rivedere o sentire. “Un giorno, dopo tre anni che vivevo per strada, dei carabinieri che conoscevo mi fermarono e mi portarono in questura. Mi dissero che l’ultima delle mie figlie mi aveva cercato, e mi chiesero da quant’è che non chiamavo casa. Risposi che ogni tanto chiamavo, ma non era vero. Mi invitarono a provarci dal loro telefono e gli dissi che andava bene, a patto che il numero lo facessero loro e che se rispondeva mia moglie io non ci avrei parlato. Così fecero, e chi rispose? Mia moglie. Presi la cornetta solo quando all’altro capo ci fu mia figlia. È l’unica con cui abbia mantenuto un rapporto in tutti questi anni”.

Nel raccontarli, questi anni, ci tiene a dire che fino a poco tempo fa non era mai stato né in un dormitorio né in una mensa. Usa spesso un’espressione che dice molto del suo carattere, di una certa sua testardaggine, così come della solitudine e della riservatezza che ha coltivato in tutto questo tempo: “Mi sono sempre aggiustato da solo”. Tre volte a settimana faceva la doccia nel centro per senza dimora di via del Lazzaretto, mentre i vestiti se li lavava in una lavanderia in piazza Maggiore. “Da vivere me lo guadagnavo aiutando a caricare e scaricare le merci nel negozio di certi pakistani, oppure davo una mano in qualche bar. La strada non ti dà assolutamente niente, ma c’è una libertà che non si trova da nessun’altra parte”.

L’unica cosa che lo spinge ad abbandonarla sono i problemi alle gambe. “A un certo punto, cinque anni fa, non riuscivo più ad alzarmi, e così sono finito prima al dormitorio di via Beltrame e poi al Rostom, che è gestito da Piazza Grande”. Per rimettersi in piedi gli ci vogliono sei-sette mesi di fisioterapia. Per un altro anno resta al dormitorio, ma appena può torna per strada. “Sono proprio scappato”, sorride, “però le gambe non reggevano e così sono tornato al Rostom”. Le operatrici e i servizi sociali lo aiutano a ottenere una piccola pensione e quando gli dicono della possibilità di trasferirsi in una casa comincia a pensarci seriamente, visto che ci sarebbero da pagare solo 150 euro al mese come contributo alle spese. “Dopo un po’ sono venuto a vedere questo appartamento, e nel giro di tre giorni eccomi qui”.

Zocchetti abbraccia con lo sguardo la cucina, le mattonelle bianche e azzurre degli anni settanta alle pareti, i pensili in legno chiaro un po’ scheggiati, poi si alza e attraversa il corridoio per mostrare la sua stanza: è enorme, arredata con mobili vecchiotti ma piena di luce. Davanti al letto singolo, in uno degli angoli, c’è una tv accesa. “Non passiamo molto tempo insieme con gli altri coinquilini, io sono un tipo solitario, e per ora che non esco la guardo molto. Ma spero che appena passata la pandemia mi operino, mi hanno detto che è una cosa da niente. Appena mi aggiusto andrò a trovare mia figlia a Ventimiglia, dove una volta sono già stato. Non le ho detto che sto male, non voglio che si preoccupi. Quando posso la raggiungo e le spiego”.

Contro la voce del padrone

Tornare a trovare la famiglia è il desiderio anche di Massimiliano Palladino. Quarantasette anni, romano, prima di raccontare come sia finito nell’appartamento di Borgo Panigale che divide con un’altra persona ha bisogno di fare una premessa. Seduto in salotto prende il tabacco, si gira una sigaretta e dice: “Se la racconto così com’è andata, si penserà che sono pazzo”. Dopodiché accende la sigaretta, tira una boccata di fumo e aggiunge: “Ma non c’è altro modo di farlo”. Dunque comincia: “Era la notte dell’Epifania del 2005 ed ero a letto nella mia casa di Varcaturo, vicino a Pozzuoli. A un certo punto ho sentito un caldo tremendo, ho cominciato a sudare e a sentire un odore fortissimo di cioccolato. Mi sono alzato per andare allo specchio e i miei occhi hanno fatto così”. Palladino si porta le dita ai lati della fronte e tira la pelle fino a dargli un taglio orientale. “Ma quello che vedevo io era… era come se fossi un angelo, ero un angelo”. L’immagine lo sconvolge, comincia a sentirsi sempre più irrequieto, non riesce a stare fermo: “Una voce dentro di me mi diceva di buttarmi dalla finestra e di volare come un angelo”.

Palladino fissa la finestra, percepisce il vuoto oltre i vetri, sente crescere la paura: “Me la sono fatta sotto e non mi sono buttato, è così che mi sono salvato. Però l’agitazione non se ne andava. Era come se dentro avessi un’immensa gioia, un amore senza limiti che dovevo buttare fuori a tutti i costi. Così sono uscito di casa e ho cominciato a girare senza meta. È stato l’inizio del mio sfacelo”.

“Sfacelo” è una delle tre parole che usa per descrivere quello che gli è successo. La seconda è “crisi”, o meglio: “crisi mistica”. “Non saprei come altro chiamarla. Da quella notte diventai una specie di san Francesco che si aggirava per le strade di Napoli. Cercavo i poveri, parlavo con i senzatetto, gli regalavo i miei soldi. Andavo nei quartieri più disperati, da Rione Traiano a Secondigliano, e davo via quello che avevo”.

La terza parola è “bipolarismo”. “È la diagnosi dei medici. Quello che mi è successo, secondo loro è un episodio dovuto alla malattia, così come la voce che sento”. Quando Palladino parla di questa voce capita che la sua si incrini. Non succede spesso: ha un timbro forte, sicuro, specchio di un fisico robusto. La voce è il virus che lo attraversa. “La sento fin da bambino. Mi ha cresciuto, mi ha amato e mi ha adorato, ma mi ha anche abbandonato, deriso e umiliato. Io ci ho sentito dio, ma allo stesso tempo è stata come la voce del padrone di Battiato, mi ha detto di buttarmi dal ponte da cui sventola la bandiera bianca. Oggi so che in realtà quella voce sono io, ma mi ci è voluto molto tempo per capirlo… anni di sofferenze, di terapia e di medicine. Anni in cui ho perso tutto”.

La prima cosa a sfuggirgli di mano è il lavoro. Nel 1995 si trasferisce a Napoli per fare l’autista di produzione in una fiction, poi diventa responsabile del set esterno e infine cassiere. “Guadagnavo 4.500 euro al mese. Facevo la bella vita. Avevo storie con attrici e colleghe, ma poi tutto è andato in fumo. Nessuno voleva avere a che fare con un matto. Al lavoro mi fecero firmare una lettera di dimissioni e mi fecero perdere la disoccupazione. La casa dovetti venderla dopo sei mesi perché, a forza di andarmene in giro a regalare soldi, non mi era rimasto quasi più niente”.

Dopo dieci anni a Napoli è costretto a tornare a vivere con la madre, a Roma. Ex insegnante delle elementari rimasta vedova da giovane, la donna abita in affitto nel quartiere San Giovanni. “Ce l’ha messa tutta per aiutarmi, ma era davvero complicato, povera. Le cose peggiorarono una mattina. Mi svegliai dopo aver sognato un cielo pieno di fulmini e lampi, e la voce mi disse: “Ecco, ora sei rinato”. L’immensa gioia che avevo provato fino ad allora era scomparsa e al suo posto c’era una forza malefica che mi faceva andare tutto storto”.

Tra le cose che vanno storte c’è anche il ritorno a Napoli, dove spera di ritrovare la fortuna degli inizi. “Soffrivo, la voce mi diceva di farla finita perché le cose non mi sarebbero mai più andate bene come prima e per attutire un po’ il dolore mi sono fatto di ogni cosa”. La droga riempie anche il vuoto di affetto e di amore che ciclicamente si affaccia nella sua vita, e lui se ne accorge perché dimagrisce tantissimo: “Il cibo è il metro di misura della mia depressione. Io sono molto esigente dal punto di vista affettivo, do tanto e pretendo tantissimo. Soprattutto dalla mia famiglia. Quando mi sento solo divento bulimico, mi attacco al frigo, ingrasso. In quel periodo il vuoto lo riempiva la droga, per questo ero secchissimo. Tra l’altro io mi piaccio magro, ma quando dimagrisco succede un’altra cosa, si risveglia il demone, la voce diventa più insistente, perché chiaramente non vuole che io stia bene con me stesso. Insomma, è un casino”.

Il fatto è che la strada non ha niente di romantico

Riesce a restare a galla grazie al Servizio per le dipendenze e al Centro di salute mentale di Napoli, ma anche lasciandosi alle spalle la città. “Mia madre aveva capito che non mi faceva bene rimanere lì, allora nel 2013 mi ha accompagnato a Bologna, dove vivevano una mia zia e suo figlio. Lei aveva l’Alzheimer, mentre lui soffriva di sclerosi multipla. L’idea era che mi trasferissi da loro per occuparmene, guadagnando anche qualcosa per rimettermi in sesto”.

Palladino accetta e sulle prime le cose sembrano andare bene, ma con il passare del tempo la convivenza con i parenti si complica: prendersi cura di due persone molto malate diventa per lui un peso insostenibile. “Dopo due anni di quella vita sono sbottato. Ho deciso che me ne dovevo andare. A Roma non volevo tornare per non dare altri problemi a mia madre. Così, che ho fatto? Ho preso il mio zainetto, la mia coperta colorata e me ne sono andato alla stazione. Ho pensato, anche un po’ romanticamente, che avrei potuto vivere di poco, alla giornata. La prima notte passata nella sala d’aspetto non ho neanche avuto paura. Ma il fatto è che la strada non ha niente di romantico, e io nel giro di qualche giorno sono tornato a farmi e a girare con tizi che era meglio non conoscere”.

In quelle settimane tutto precipita. La dipendenza e il dolore che per un po’ era riuscito a controllare riesplodono, il bisogno di farsi ritorna assillante e l’assillo ha bisogno di soldi per placarsi. “Mi sono lasciato coinvolgere in alcune rapine nei supermercati”, dice. Va avanti così per un mese, finché non sente in giro che c’è un servizio che dà una mano a chi dorme per strada. “Era l’Help Center alla stazione. Siccome era dicembre e c’era l’emergenza freddo, mi hanno proposto un posto al dormitorio in via del Lazzaretto. Ho accettato e nel giro di ventiquattr’ore ero lì”.

Ci resta dal dicembre 2015 al marzo 2016, ma in quei mesi continua a rapinare supermercati, a farsi e a collezionare denunce per furto. Dopo l’emergenza freddo passa da altri due dormitori, prima al Rostom e poi al Beltrame. “Nel primo ci sono stato pochi mesi, mentre al Beltrame ci sono rimasto due anni, condividendo la stanza con un’altra persona. È lì che mi sono allontanato dalla vita di strada. Ho mollato le persone con cui rapinavo i supermercati e ho trovato un lavoretto come lavapiatti in un self-service. Ho fatto anche un corso per diventare pizzaiolo e ho lavorato in diversi ristoranti. Ma, certo, una casa mi mancava. Vivere in un dormitorio significa rinunciare alla privacy, fare a meno di una parte di vita sociale per via degli orari, ci sono regole da rispettare, non si può invitare nessuno… è difficile anche costruire delle relazioni”.

L’occasione per lasciare il Beltrame arriva nel 2017, quando un responsabile di Piazza Grande gli spiega che si è liberato un posto in uno degli appartamenti del progetto Housing first e gli chiede se può interessargli. “Mi dice che bisogna contribuire alle spese, ma è una somma piccola, sui 150 euro al mese, e mi accompagna a vedere l’appartamento. Mi piace subito, e dopo poche settimane eccomi qui. Ormai sono quattro anni che ci vivo, la vita di strada non mi ha più chiamato”.

Una parte del percorso l’ha fatta insieme ad Andrea Molinari, l’educatore di Piazza Grande che lo segue dal 2018. “Passo con lui sei ore a settimana”, dice Molinari, “lo aiuto a cercare lavoro quando non ce l’ha, a gestire le relazioni con i colleghi quando lo trova, ad attutire le depressioni e le ansie quando lo perde”. Ogni licenziamento o mancato rinnovo può essere vissuto come un fallimento e far nascere pensieri neri: “E allora bisogna ascoltare, parlare e ricordare a Max che ha delle risorse”, aggiunge Molinari. Nel settembre 2019 sono andati insieme per la prima volta al Servizio dipendenze patologiche, dove da allora seguono Palladino, aiutandolo nelle ricadute. “Max ha intorno una rete molto grande. C’è un assistente sociale di riferimento nel quartiere, ci sono lo psichiatra e lo psicologo al Centro di salute mentale, c’è il tutor che lo segue per i tirocini”. Molinari fa da collegamento tra tutte queste figure e allo stesso tempo è la sentinella che le allerta se vede che le cose non girano bene. Inoltre, insieme a un altro collega di Piazza Grande si occupa dei problemi che possono nascere durante la convivenza. “Non sempre le cose funzionano: si litiga per i motivi più stupidi, dalle pulizie al rumore, come del resto succede in ogni casa”, sorride. Palladino e il coinquilino non si parlano da tempo: “Non si trovano caratterialmente, sono molto diversi”, spiega Molinari. Anche per questo, a breve Palladino si trasferirà in un altro degli appartamenti di Housing first, in un quartiere più centrale di Bologna.

Intanto, grazie alla rete che ha intorno tiene a bada la dipendenza, si confronta con quello che gli si agita dentro e da tre mesi lavora come falegname in una cooperativa. Sa che le cose non saranno facili, ma dice che in tutti questi anni ha imparato a maneggiarle un po’ meglio, e a fare i conti con la voce: “Mi piacerebbe tornare a fare il pizzaiolo, anche se può essere una vita dura, stressante. L’ho fatto diverse volte, una delle ultime ho perso il posto perché la voce mi diceva che il principale mi voleva menare!”. Si mette a ridere, poi aggiunge, parlando della voce: “’St’infamona”.

I fantasmi non esistono sarà presentato il 23 novembre a Spazio Scena a Roma (via degli Orti d’Alibert 1), con Francesca Mannocchi e Goffredo Fofi.

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