Una macchinetta rossa, un paio di occhiali da sole, delle fotografie scolorite, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, un anello, una bussola, un accendino, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura, una pagella, un telefono: sono alcuni degli oggetti appartenuti alle 368 persone morte nel naufragio del 3 ottobre 2013 e che hanno permesso ai familiari lontani di identificarli e di dare un nome ai corpi senza vita arrivati sulle spiagge di Lampedusa.

Gli oggetti sono sopravvissuti alle persone e ne raccontano la storia, tramandano la memoria che spesso si vorrebbe cancellare dei lunghi viaggi fatti per raggiungere l’Europa e delle famiglie che non possono archiviare quei lutti.

Nel decennale di quel naufragio, la mostra La memoria degli oggetti al Memoriale della shoah di Milano presenta le immagini di questi oggetti scattate dal fotografo Karim El Maktafi. L’esposizione è visitabile dal 26 settembre al 31 ottobre.

“La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del dna, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari”, raccontano gli organizzatori. “Alcuni familiari hanno dovuto aspettare anche fino a dodici mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte”, continuano.

“La forza di quegli oggetti è che ci costringono a guardarci in tasca”, spiegano nei testi che accompagnano le immagini Valerio Cataldi e Imma Carpiniello di Carta di Roma e Associazione museo migrante. “A cercare quegli occhiali da sole, quell’orologio, quella boccetta di profumo ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo”.

“In un’epoca in cui l’indifferenza e la disinformazione possono rapidamente diluire l’impatto emotivo di una tragedia”, evidenzia nel suo scritto Giulia Tornari di Zona, “questa esposizione può servire come potente richiamo alla nostra responsabilità collettiva. E nel farlo, offre la possibilità di usare la memoria non solo come un atto di ricordo, ma come uno strumento per l’azione e il cambiamento”.

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