Il presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmud Abbas, conosciuto con il soprannome di Abu Mazen, avrebbe potuto chiudere la sua vita politica con un bilancio mediocre, ma non del tutto vergognoso. Se avesse ceduto il testimone come previsto, sarebbe passato alla storia come un leader senza spessore, che però era riuscito a tenere duro di fronte alle spinte annessioniste di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Ma l’ottantenne Abbas, in carica dal 2005, non merita più quest’epitaffio. Ad aprile ha annullato le elezioni in programma per la primavera e l’estate, le prime da quindici anni, e a maggio, sulla scia della guerra di Gaza, ha scatenato una violenta ondata di repressione, perdendo quel poco di onore che gli restava.

La macchia che sporca l’eredità di Abu Mazen ha un nome: Nizar Banat. Il 24 giugno questo padre di cinque figli, che denunciava su Face­book il suo crescente autoritarismo, è stato picchiato a morte dai poliziotti palestinesi che dovevano arrestarlo. Le successive proteste sono state brutalmente represse da agenti in borghese per far credere che si trattasse di violenze comuni, una tattica simile a quelle del regime siriano. Le intimidazioni a carattere sessuale di cui sono state vittime le manifestanti e le giornaliste ricordano invece le aggressioni contro le donne durante le proteste del Cairo nel 2011.Abu Mazen, un dirigente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) diventato celebre nel 1991 grazie agli accordi di pace di Oslo, di cui è stato ideatore e firmatario, si è trasformato in un despota aggrappato a un potere illusorio, perché l’Ap è un apparato statale senza stato. Certo, non è stato fortunato: il suo mandato ha coinciso con l’era di Netanyahu, spodestato a giugno dai suoi rivali dopo dodici anni al potere. Ostile a ogni serio negoziato di pace, l’ex primo ministro israeliano ha sempre trattato il suo vicino palestinese con disprezzo, intensificando la colonizzazione della Cisgiordania. Abu Mazen ha reagito appellandosi alla Corte penale internazionale, ma avrebbe potuto fare molto di più, in particolare riassorbendo la frattura tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, conquistata dagli islamisti di Hamas nel 2007. Invece non ha più messo piede nell’enclave.

Chiuso nel suo palazzo di Ramallah, Abu Mazen si comporta come se Gaza non facesse più parte della Palestina. Sospendendo le elezioni ha sabotato la riconciliazione e la rinascita delle istituzioni palestinesi. Il suo disastroso finale di carriera ha spianato la strada all’occupazione israeliana. L’uomo di Oslo, che avrebbe dovuto guidare la liberazione del popolo palestinese, è diventato un ostacolo che la impedisce. Signor Abu Mazen, è ora di andare. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati