Jason Fulford ha curato un libro in cui ha chiesto a fotografi e fotografe di tutto il mondo quali sono i loro soggetti tabù. Cose e argomenti che cercano di evitare, ma da cui sono attratti
Duane Michals, A Gursky gherkin is just a very large pickle, 2001. “Non farei mai una foto a un cetriolino. E se la facessi non la stamperei mai in grande formato né la esporrei in un museo. Ma alla fine l’ho fatto, sperando di essere provocatorio. Non mi fido delle foto di grande formato. Una stampa da venti centimetri di Robert Frank è molto più interessante di una stampa da due metri di Jeff Wall, Crewdson o Gursky”.
Jason Fulford ha curato un libro in cui ha chiesto a fotografi e fotografe di tutto il mondo quali sono i loro soggetti tabù. Cose e argomenti che cercano di evitare, ma da cui sono attratti
“Le scale vuote sono da evitare, secondo me. Ho scattato centinaia di foto di scale che andavano verso il nulla e nessuna è buona come la prima che ho fatto. Una fotografa mi ha raccontato di aver fatto foto di pick-up per anni, fino a quando non è riuscita a farlo alla perfezione e ha smesso. Per alcuni non bisogna fotografare la politica; per altri, ogni immagine è politica”. Con queste parole il fotografo Jason Fulford introduce il volume Photo no-nos: meditations on what not to photograph (Aperture 2021), in cui ha raccolto idee, storie e aneddoti di fotografi e fotografe di tutto il mondo – tra cui Duane Michals, Alec Soth, Justine Kurland e Rinko Kawauchi – a cui ha chiesto quali sono i soggetti che considerano abusati e perché. Alcuni hanno inviato liste di oggetti in ordine alfabetico, che Fulford ha riprodotto nel libro insieme alle loro motivazioni. Il risultato è una serie di riflessioni su oggetti e situazioni che li attirano e di cui svelano le insidie: dalla A di astrazione alla Z di Zoom screenshot (la foto della schermata di una videochiamata su Zoom), passando per i tramonti e le rose o temi più complessi come il colonialismo e gli stereotipi di genere.
C’è chi non usa il cavalletto e chi preferisce evitare le istantanee. Chi non fotografa le persone senza avere prima il loro consenso e chi non chiede mai l’autorizzazione. Ci sono quelli che non amano raccontare culture diverse dalla propria, mentre altri non fotografano mai la propria città.
“Le regole possono essere utili, finché non lo sono. E ogni cosa è soggettiva”, scrive Fulford. “Non esistono foto da non fare. In realtà il messaggio finale del libro vuole essere positivo, perché sottolinea i motivi per cui molti fotografi vorrebbero prima di tutto scattare quelle immagini. Si potrebbe pensare a questo libro come a una serie di sfide, per mettersi alla prova con temi considerati difficili o troppo facili da raccontare”. ◆
Jeff Mermelstein, New York, 1993. “Creature di New York per eccellenza, resilienti e sporche. Non riesco a smettere di fotografare i piccioni, davvero. Evito, lo rifaccio, m’interrogo, mi fermo, basta, ne faccio un’altra, perché no, e quando davvero non lo so, alla fine lo so. Nella peggiore delle ipotesi metterò quelle foto in una scatola. Non penso che i fotografi possano smettere di fotografare qualcosa. Forse potremmo non mostrare alcune foto. Ma poi, venticinque anni dopo, potremmo cambiare idea”.
Jason Fulford Photo no-nos: meditations on what not to photograph è stato pubblicato da Aperture (aperture.org) a giugno del 2021.
Cristina de Middel (Magnum Photos), Senza titolo, 2018, dalla serie The body as a battlefield. “Non voglio sembrare romantica nel mio lavoro e quindi non fotografo le rose. Sono fiori carichi di simboli e di cliché, legati anche alla femminilità. L’unica foto di una rosa che ho fatto è quella all’ingresso di un ospedale nella Repubblica Democratica del Congo, dove Denis Mukwege, il ginecologo vincitore del premio Nobel per la pace nel 2018, si occupa delle donne vittime di stupro, usato come arma di guerra. La rosa, in questa doppia esposizione, era una sorta di scorciatoia visiva per aggiungere altri livelli di lettura alla storia”.
◆ Jason Fulford è nato ad Atlanta, negli Stati Uniti, nel 1973. È fotografo e cofondatore della casa editrice non profit J&L Books. Il libro Photo no-nos: meditations on what not to photograph è stato pubblicato da Aperture (aperture.org) a giugno del 2021.
Alex Webb, Sancti Spiritus, Cuba, 1993. “Da quando ho cominciato a scattare foto a colori negli anni settanta provo una profonda ambivalenza verso i tramonti. Da un lato sono molto seducenti, dall’altro vorrei resistere alla loro bellezza stereotipata. Mi ricordo che una volta feci vedere a Josef Koudelka una delle mie prime foto. Era un gruppo di ragazzi durante un concerto di Bob Marley, in Giamaica. Li avevo ritratti in silhouette contro un cielo color arancione. Koudelka mi disse: ‘Troppo zucchero’. Aveva ragione, non era solo troppo dolce, era anche troppo facile. Ogni tanto però trovo qualcosa che distingue quel sole al tramonto dagli altri. E allora metto da parte la mia ansia, e mi concedo di fargli una foto”.
Alec Soth, Ed Panar, Pittsburgh, 2019. “Ho scattato molte delle mie prime foto nei cimiteri. Poi si sono aggiunte le ferrovie, gli edifici abbandonati e altri cliché. Il mio amico Ed Panar invece non ha mai smesso. Così gli ho chiesto se un giorno poteva portarmi con lui. Era l’ora del tramonto, non avrei mai pensato di scattare in quel posto. Ma una volta posizionata la macchina fotografica e guardato nell’obiettivo, ho capito perché Ed era così soddisfatto”.
Manal Abu-Shaheen, Take my picture, Beirut, Libano, 2016. “Faccio tante foto per strada. Spesso chi passa in auto mi fischia. A volte però torna indietro per vedere cosa faccio e poi mi chiede di scattargli una foto. Vorrei rispondere di no, ma non voglio perdere un’occasione. Ricordo per esempio quella di un ragazzo che guardava dolcemente il suo amico”
Qui accanto: William Wegman, Mondo bizarro, 2015. “Quando ho cominciato a fotografare il mio cane Man Ray, nei primi anni settanta, evitavo qualsiasi aspetto tenero o antropomorfo. Avevo un’avversione per i cani vestiti come se fossero persone. Ho travestito Man Ray da elefante, da rana e da altri tipi di cani. E questo per me andava bene. Poi però, quando ho cominciato a lavorare con il mio secondo cane, Fay Ray, ho abbandonato quelle certezze. Comunque non fotograferei mai un cane con un cappello e gli occhiali da sole. Ok, forse una o due volte è capitato”.
A destra: Adama Delphine Fawundu, Chabaa thai cuisine bathroom, San Francisco, California, 2018. “Se ho la macchina fotografica a portata di mano in un bagno pubblico non riesco a non usarla. Mi incuriosisce il modo in cui sono fatti, le scritte sui muri e sulle porte, i rifiuti lasciati accanto al cestino. Ho una collezione di foto di bagni scattate in tutto il mondo, ma non le guardo mai, le tengo nel mio archivio”.
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