“Ti immagini se mettessero in scena la storia delle donne?”, si chiede un personaggio di nome Cheyenne nel secondo romanzo di Vanessa Veselka. La storia, o quel che ne resta, è ovunque in questa narrazione. Da un lato c’è l’eredità difficile del nordest americano; dall’altro le linee aggrovigliate della famiglia, che hanno spinto le sorelle Cheyenne e Livy a partire da Seattle per cercare una persona che secondo il loro padre semiestraneo potrebbe essere la loro madre. Quando si scopre che non lo è, il tenue filo del loro legame viene reciso. L’intero viaggio verso est è un pretesto elaborato, non tanto sulla ricerca di una madre naturale quanto sul rapporto complicato tra sorelle. Sulla via del ritorno a casa, Livy lascia Cheyenne sul ciglio della strada. Oltre a loro, incontriamo Kirsten – la madre hippy che le ha cresciute – e il fratello Essex, che non è il loro fratello biologico ma un ragazzo di strada accolto dalla famiglia. Tutti vorrebbero trovare una direzione, ma tutti corrono sul posto. Il risultato è un romanzo picaresco profondamente commovente. Mettendo i suoi personaggi alla mercé degli eventi, Veselka evoca la sensazione di un mondo fluttuante, respingendo il movimento in avanti del romanzo in favore di qualcosa di più circolare. La tensione che questo crea è provocatoria ma familiare. Non ci sono epifanie qui, solo i piccoli (e a volte non così piccoli) sconvolgimenti che i personaggi di Veselka devono attraversare. “Non ci sarà un nuovo inizio”, si lamenta Cheyenne, “nemmeno uno piccolo”. Eppure, anche se la speranza cede pezzo per pezzo alla delusione, non evapora mai completamente. Cheyenne e Livy cercano una chiusura, ma chiusura è una parola che non appartiene a questo libro. Come la madre e il fratello, o anche (in un certo senso) il padre, sono alla deriva in un mondo che non è stato fatto per loro, e lo affrontano con capacità pratiche o emotive limitate. Veselka traccia questi archi narrativi con empatia e senso dell’umorismo, ma anche con un occhio spietato. È una scrittrice capace di rompere le superfici della sua narrazione per rivelare il caos animale che c’è sotto. A suo modo, questa spietata verità dell’universo rappresenta una sorta di misericordia, e rende Le grandi terre del largo una saga di accettazione, cioè un libro di vita.
David L. Ulin, Los Angeles Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati