Nel 2016 l’esperto di relazioni internazionali Alex de
Waal, direttore della World peace foundation della Tufts university, negli Stati Uniti, aveva pubblicato un articolo sul New York Times in cui sosteneva che i tempi delle carestie di massa erano finiti, grazie soprattutto alla democratizzazione di molti paesi e alla fine di sanguinosi conflitti.
“Mi sbagliavo”, ha ammesso De
Waal in un articolo pubblicato il 9 marzo dal quotidiano newyorchese. “Avevo sottovalutato la crudele volontà di alcuni leader di usare la fame come arma di guerra. E avevo sopravvalutato la disponibilità dei donatori a occuparsi delle vittime dei conflitti e a fornire gli aiuti necessari”. I progressi nella lotta alla fame nel mondo si sono bloccati. Nel 2016 le Nazioni Unite stimavano che le persone bisognose di aiuti urgenti fossero 130 milioni. Alla fine del 2023 la cifra era salita a 363 milioni, con un aumento del 180 per cento. La carestia, che era quasi scomparsa dalla faccia della Terra, è tornata a minacciare una decina di paesi, tra cui Afghanistan, Siria e Mali. Alcuni osservatori temono che anche la Corea del Nord possa trovarsi in questa situazione, senza contare quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza.
Ma il vero epicentro della crisi alimentare è il Corno d’Africa. Circa 90 milioni di persone soffrono la fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Sudan e, dall’altro lato del mar Rosso, in Yemen. “Questi paesi hanno alle spalle una lunga storia di gravi carenze alimentari, ma non li abbiamo mai visti sprofondare nella carestia tutti nello stesso momento”, scrive De Waal. Il quotidiano francese Le Monde sottolinea la gravità della situazione nel nord dell’Etiopia, colpito negli anni 2020-2022 da una guerra che ha causato seicentomila morti. Nel Tigrai “le autorità locali hanno decretato lo stato di carestia, mentre il governo etiope, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed, non riconosce l’emergenza”, fa notare Le Monde. “Fattorie e coltivazioni abbandonate, animali morti: la siccità e le successive piogge, troppo intense, hanno condannato alla malnutrizione più del 90 per cento dei sei milioni di tigrini. Ma se Addis Abeba riconoscesse la carestia questo potrebbe risvegliare vecchi fantasmi e contraddire i discorsi che presentano l’Etiopia come il futuro granaio del continente africano”.
“Molti fattori concorrono a creare le condizioni di una crisi alimentare: raccolti perduti, prezzi alti dei generi alimentari, disoccupazione”, spiega De Waal. “Ma è soprattutto la guerra a generare le carestie di oggi. In tutto il mondo circa due terzi delle persone che soffrono la fame vivono in zone di conflitto come il Sudan e Gaza o stanno cercando di fuggire da lì. I soldi stanziati per gli aiuti non bastano. Fino a cinque anni fa gli appelli annuali dell’Onu per le emergenze riuscivano a essere finanziati al 60 per cento. Nel 2023 questa percentuale è scesa al 35 per cento e si prevede che quest’anno sarà ancora più bassa”. Le ragioni per cui gli stati donano di meno sono varie: dal costo più alto dei prodotti alimentari agli scandali di corruzione in cui sono state coinvolte alcune organizzazioni umanitarie (come l’agenzia Usaid in Etiopia) e che minano la fiducia nei loro interventi. Ma, ricorda De Waal, “la fame nel mondo non è solo una macchia sulle coscienze. È una minaccia per la sicurezza. Le carestie possono portare le società al collasso. Spingere milioni di persone a migrare. Alimentare la disperazione e le proteste. E, in ultimo, far cadere i governi”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati