Il corpo femminile è un horror che sta sempre per cominciare. Dalle mestruazioni alla gravidanza e al parto, negli ultimi cinquant’anni le donne hanno fornito una ricca fonte d’ispirazione ai registi di genere. Guardando un po’ più da vicino, emergono due tendenze: la grande maggioranza degli horror basati sul corpo femminile affronta in qualche modo l’apparato riproduttivo ed è realizzata da maschi. Anche solo per questo l’horror viscerale e sconvolgente di Coralie Fargeat sembra così nuovo. Offre una prospettiva femminile sui corpi delle donne e sostiene anche che le cose cominciano a incasinarsi quando l’età riproduttiva è un vago ricordo. Inoltre in The substance il punto non è tanto il corpo femminile quanto la reazione all’idea di questo. La storia è innescata dalla violenta reazione di una donna che ha appena compiuto cinquant’anni e ha quindi raggiunto quello che la società ritiene essere la sua obsolescenza programmata. Roba gioiosamente eccessiva, immagini oltraggiose e mostruose che, per non sbagliare, sono annegate nel sangue. Ma in mezzo a fluidi spinali che trasudano ed escrescenze purulente c’è un barlume di credibilità. The substance ci immerge nella folle e disorientante carneficina emotiva della menopausa come pochi film hanno fatto prima. Nel ruolo centrale di Elisabeth Sparkle, la star di Hollywood diventata istruttrice di fitness in tv, Demi Moore si espone nell’interpretazione più coraggiosa della sua carriera. Elisabeth sa bene che a una diva come lei l’industria può perdonare tutto, tranne il fatto d’invecchiare. Depressa, decide di usare un misterioso farmaco che le promette una nuova sé: una versione fresca e senza rughe, Sue (Margaret Qualley), “partorita” in modo raccapricciante. In un film che non rispetta più di tanto logica e realismo, Elisabeth e Sue devono mantenere un delicato equilibrio simbiotico, ma inevitabilmente tra di loro scoppia una guerra per accaparrarsi le risorse condivise in calo. In definitiva, non è questa la maledizione di ogni donna sotto gli occhi del pubblico? L’unica competizione che è sempre destinata a perdere è con la sua sé più giovane.
Wendy Ide, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati