Kriss Munsya, artista belga di origine congolese, è nato negli anni ottanta a Kinshasa ed è arrivato da bambino a Bruxelles, città dove è cresciuto.
Si definisce un attivista: “Mi considero un attivista non perché faccio cose sul razzismo, ma perché è la sola cosa che voglio fare. Mi sono reso conto che per me era impossibile fare arte senza parlarne. In Belgio e in Francia i comici bianchi salgono sul palcoscenico e parlano di mele, di ritardi dei treni o di cose del genere. I neri, invece, quando salgono sul palcoscenico, parlano della loro esperienza, perché per una volta hanno la possibilità di essere al centro dell’attenzione e non devono sprecare questa opportunità. I bianchi possono parlare di qualunque cosa, io non ho questo privilegio”.
Appassionato di disegno (voleva creare cartoni animati), dal 2019 Munsya vive a Vancouver, in Canada, dove è diventato grafico. Inizialmente, dopo essere stato rifiutato da una scuola di moda secondo cui non sarebbe mai diventato un artista, si è iscritto alla facoltà di legge, di cui serba un buon ricordo: “Credo che siano stati i due anni più interessanti della mia vita. Si parlava di tutto, si studiava filosofia, sociologia, psicologia, ed era davvero interessante. Facevo parte del consiglio studentesco e organizzavamo feste, conferenze, viaggi. È stato così che ho imparato il mestiere di grafico, perché volevano qualcuno per disegnare i manifesti e curare la comunicazione visiva. Usavo Photoshop e Illustrator, ma mi limitavo a cose piuttosto semplici. Dopo due anni i miei amici hanno cominciato a dirmi: ‘Kriss, la facoltà di legge non fa per te, tu sei un artista’”.

Per formarsi è andato a Madrid, dove però ha vissuto una fase di grande solitudine sfociata in una forte depressione, che ha deciso di curare viaggiando: “Mi serviva una fuga che mi aiutasse a guarire. Così ho trascorso un anno spostandomi da New York a Rio de Janeiro”.
L’esperienza l’ha arricchito, ma l’ha anche costretto a confrontarsi con un terribile razzismo. Questo gli ha permesso di capire meglio quale sarebbe stata la sua produzione artistica.

Il primo lavoro, nel 2015, è stato un lungometraggio, Us and them, che riproduce un momento di questa esperienza di viaggio negli Stati Uniti, molto prima del movimento Black lives matter.

“Ho scritto il film tra la South Carolina e il Montana, e durante l’ultimo mese l’ho girato sulla costa occidentale tra Seattle, Portland, San Francisco e Los Angeles”. Al suo ritorno in Belgio il film è stato acquistato da un produttore e ha vinto due premi. L’esperienza americana on the road da uomo nero, i problemi con la polizia, la consapevolezza dello sguardo dell’altro hanno cambiato profondamente la sua visione del mondo e il suo approccio all’arte.
Munsya ha deciso di usare la fotografia per parlare del razzismo e degli abusi di cui è stato a lungo vittima. Lo ha fatto costruendo delle serie con uno stile molto contemporaneo, aperto, che lascia spazio all’interpretazione.

Le sue immagini non pretendono di dare alcuna lezione, ma di stimolare una riflessione sull’identità nera nelle nostre società, una messa in discussione del razzismo, una forma di rabbia e di affermazione.
In The eraser, del 2020, i personaggi, tutti neri, vedono i loro volti scomparire dietro sontuosi mazzi di fiori, nascosti come per magia dalle tende o ricoperti di paillettes argentate. Questa perdita di identità è però armoniosa, la gamma di colori è piuttosto allegra e, come in tutti i suoi lavori, si sente la sua padronanza della grafica.

Nel 2022 Genetic bomb pone domande simili: “È una riflessione sull’essere nero, sulla diaspora e sull’identità, tutti elementi che sviluppo concettualmente da molti anni. Questo ragionamento si è tradotto in una serie di fotografie che ho realizzato tra novembre e dicembre 2022 nella Repubblica Democratica del Congo. La mia storia mi ha spinto a realizzare il progetto, passando dalla semplice idea alla creazione artistica. Come molte persone che hanno vissuto esperienze di emigrazione simili alla mia, mi porto dentro un senso di colpa, di confusione e di disillusione generazionale: la colpa di essere un privilegiato, una persona che ha avuto l’opportunità di scappare dalla povertà, dall’insicurezza e dalla guerra che il colonialismo ha creato”.

Questa serie, nella quale Kriss Munsya si dimostra un brillante colorista e un regista molto preciso, ha portato a un progetto più grande, Killing da Vinci, a cui sta attualmente lavorando.
Per sottolineare i problemi ambientali che colpiscono soprattutto i più svantaggiati, Munsya ha deciso di fotografare altri attivisti – per lo più neri e appartenenti a popoli indigeni – e di farli posare sospesi a mezz’aria con le braccia e le gambe divaricate, come l’uomo vitruviano disegnato da Leonardo da Vinci intorno al 1490. Questa figura ideale che si inserisce sia in un cerchio sia in un quadrato rappresenta la nozione stessa di perfezione umana.
Ed è proprio questa idea di perfezione (incarnata dall’uomo bianco) che Kriss Munsya intende demolire, agganciando delle bombe che lui stesso ha concepito e disegnato alle mani e ai piedi dei modelli, trovati grazie ad alcune associazioni militanti. Per ora ha lavorato sia in Nordamerica sia in Sudamerica, e sta cercando di continuare il progetto in tutto il mondo.
◆ La Gallery Jones di Vancouver ospiterà una personale di Kriss Munsya dal 3 al 26 aprile 2025. E dal 27 febbraio al 2 marzo espone alcune sue opere all’Outsider art fair di New York.
“Per me l’idea di perfezione è ciò che allontana gli esseri umani da loro stessi e le società dal loro ambiente. Ci insegna in modo perverso che non saremo mai abbastanza perfetti. In quanto uomini e donne, madri e padri, fratelli e sorelle, tendiamo a pensare che il nostro scopo nella vita sia di essere sempre migliori, di fare meglio, di cercare di migliorarci. Questo crea uno sfasamento tra ciò che siamo e il modo in cui ci vediamo. Come società, l’idea di perfezione ci spinge a creare tecnologie sempre più potenti e precise, e tendiamo a pensare collettivamente che vada seguita quella migliore, più rapida e più forte. Però la ricerca continua della tecnologia perfetta ci nasconde un fatto importante: non disponiamo di risorse infinite per sostenere questa produzione”. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati