Il paesaggio del volto umano mi ipnotizza. C’è un mistero, il ricordo di un’innocenza perduta, una paura di ferire toccando che lavora come calamita dell’anima. Eppure questo mistero è sempre più opaco e difficile da ritrovare. Credo che sia legato al conoscersi: prima solo i politici e gli attori avevano la possibilità di conoscere così bene il proprio volto per le tante restituzioni che ne avevano, anzi era arduo scardinare la maschera. Ma ora i nostri volti, abusati dai continui autoscatti, sono diventati per tutti noi dei territori troppo noti. Spesso lavoro con attori alla prima esperienza che già sono esperti del loro profilo migliore, che sanno dosare le espressioni senza viverle, attraverso il controllo del volto. E ancora più spesso su quel territorio senza più segreti vengono cancellati i segni del tempo. Il filosofo Emmanuel Lévinas ha scritto: “Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. (…) La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”. Il volto di chi ci passa accanto è la parte esposta della nostra civiltà, è la domanda su cui si gioca una battaglia che potrebbe diventare una riconciliazione. Proviamo a girarci, a guardare il volto di un passante e cercare quella domanda, come fosse la prima volta.

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati