Il soprannome che si era dato da solo era Utopia Frank. E Pascaline, da spettatrice innocente, si era fatta istigatrice: era stata lei che si era sentita costretta a ficcare tutte le loro aspettative in un borsone sportivo e caricarlo sul sedile posteriore di una vecchia Datsun Bluebird.

Per tutto il tempo che l’amabile Frank aveva passato a costruire una città splendente sull’oceano a San Diego e poi un’autentica età dell’oro nella parte sbagliata di New York e poi ancora qualcosa di molto simile ai Campi Elisi sul monte Pelio, lei era rimasta a guardare. Adesso erano a Dublino e l’adorabile Frank si apprestava a tirare fuori un cazzo di nuovo mondo da tutto quel che incontravano. Pascaline non aveva accettato di andare a vivere con lui a Parigi e non lo avrebbe fatto mai. Non voleva che costruisse un bel niente.

Provavano e riprovavano, oppure smettevano di provarci, e di tanto in tanto lui suggeriva di adottare un pasciuto genio della lampada o magari il figlio di un pirata somalo

Avevano due modi diversi di fare i conti con il problema figli.

Frank, da parte sua, era assolutamente ottimista, allegro come un fringuello. Provavano e riprovavano, oppure smettevano di provarci, e di tanto in tanto lui suggeriva di adottare un pasciuto genio della lampada o magari il figlio di un pirata somalo. Al che lei cambiava discorso con la stessa disinvoltura con cui ci si ripara sotto una tettoia per sfuggire a un acquazzone improvviso.

Pascaline poteva rivoltarsi come un guanto. La sua pelle era spessa, più di quanto sembrasse, e ci metteva molto a tornare a posto. Per questo aveva sempre le viscere fuori, sotto gli occhi di tutti.

Io sono perfetta. Tesoro, il colpevole sei tu.

Bel tipetto, lei.

Se ne dicevano continuamente, di cose. Ma nel 1989 i neonati non si potevano comprare, proprio come non si poteva comprare il mare, e Frank neanche se la ricordava più, la prima volta che aveva suggerito di prenderne uno. E le gote gli si erano fatte tutte rosse, scure come ribes neri, quando lei gli aveva risposto che non era cambiato niente e non sarebbe cambiato niente, ma la vita non poteva più essere confrontata con i loro sogni. Sì, lei un bambino lo voleva e se dopo tutti quei tentativi lui non era in grado di dargliene uno, allora loro due avrebbero preso la faccenda in mano, la mano di lei.

Immagina una casa in una strada fiera di sé, di tutte quelle case identiche. E, per aggiungere un pizzico di pathos, immagina la silhouette della luna e il guaiolare di una coppia di volpi che si promette fedeltà. Se aspetti l’alba, vedrai attivarsi esitante l’impianto d’irrigazione del prato. Poi guarda attentamente i proprietari della casa, osserva il loro modo di occupare il tempo, il loro atteggiamento verso quella casa che si sono sbrigati a comprare soffiandola a un’altra coppia tale e quale a loro. Fai caso alla paura che hanno di quel bambino che hanno appena messo al mondo. Stanno passando un periodaccio, ma può darsi che tu non scopra mai il loro segreto tanto ben custodito. Nota bene: una cosa che hai dimenticato non è un segreto. È un vero segreto solo se non ti dà tregua, se ti viene a bussare ogni giorno.

Una voce – di sua moglie, di sua madre, di sua sorella – ha fatto allontanare Patrick dalla finestra.

Che fai lì? Vieni qui e dai un’occhiata a questo figlio tuo.

Sei mai rimasto solo con un bambino? No, vero? Ne hai mai guardato uno negli occhi? Sono quello che sono. E tu sei quello che sei: suo padre.

Sul suo certificato di nascita c’era scritto Patrick Aloysius Mary Heaney. Suo figlio, il bimbo che stava per essere rapito, si chiamava Leonard, come il nonno. La mamma del bimbo invece si chiamava Triona, Triona e basta.

Per il momento, quel bimbetto rosa che somigliava un po’ ad Anthony Hopkins aveva passato la maggior parte della sua vita a dormire. Patrick lo teneva in braccio e lo faceva male. Sapeva come si aspettavano che si comportasse, con la solennità richiesta dalla situazione, ma non ne era capace. Cercava d’intercettare lo sguardo del figlio, pur sapendo che lui al massimo vedeva delle macchie sfocate. Ma Patrick Aloysius Mary Heaney cercava un modo suo di comunicare.

Sei suo padre, ma potresti benissimo essere una parete.

Qualcuno me lo tolga, disse Patrick. Chissà che danni potrei fare. Non ho idea di quello che potrei fare. Ecco, prendilo.

Nei giorni precedenti, Pascaline era di un buonumore sospetto. Frank aveva notato che lei reagiva con l’aplomb di una ballerina sia di fronte a un toast bruciato sia di fronte all’idea di fuggire con il figlio dei vicini. E poi si tornava al piano di battaglia. Il buio di dicembre poteva tornare utile, ma l’estate li stava aspettando a braccia aperte.

Maggio. Ma non c’era mai un mese davvero buono per darsi alla fuga.

Avevano preso i biglietti per Madrid – Pascaline si era assicurata che lo venissero a sapere tutti – ma in realtà sarebbero andati al porto di Cork in macchina, una Bluebird che lei aveva comprato in contanti da un traveller che gliel’aveva portata sul posto di lavoro. La cosa fondamentale di quella macchina era il sedile posteriore spazioso.

Lo verranno a sapere che non siamo mai saliti a bordo di quell’aereo, disse lui.

Basta che saliamo sul traghetto, in un modo o nell’altro. Che portiamo il bambino in Francia. Poi possiamo farcela tutta in macchina, fino in Iran.

Lascerò che sia tu a occuparti di tutto quanto, disse Frank.

Lascia fare a me, rispose Pascaline, che aveva scelto proprio il giorno del compleanno di Frank per scomparire. E lui, che era fissato con le ricorrenze, non aveva obiettato.

Pascaline, che Frank riteneva capace di qualsiasi cosa, a stento era riuscita a prendere il bambino dalla culla senza rovinare tutta l’operazione. Aveva fatto le prove. L’idea era che Patrick fosse sempre con la testa da un’altra parte rispetto a quello che gli succedeva intorno e Triona fosse sempre fatta di medicine. Però in realtà non erano più quelli di un tempo.

E allora andiamo, disse Frank.

Christian Dellavedova

Pascaline se ne rimase in silenzio ben oltre Wexford Town. Almeno non c’era un traffico degno di nota. Ben presto Frank si rese conto che non era prevista nessuna torta di compleanno, nemmeno un po’ del panpepato che avevano in garage.

Non avremmo fatto un soldo di danno a portarcene un pezzo per il viaggio, commentò Frank. Sarebbe bastata anche solo una fetta di torta. Vedo che la fiaschetta non te la sei dimenticata. Le torte alla frutta saziano, ci avremmo pranzato e fatto pure cola­zione.

Non ci ho pensato.

Be’, questo compleanno perso non me lo restituisce nessuno.

A lui non importava tanto della torta quanto delle candeline, di quel momento in cui gonfi le guance. È sempre commovente. E lo sapevano tutti che un bel coro stonato di buon compleanno lo faceva piangere, Frank non ne aveva mai fatto mistero.

Lasciare che fosse Pascaline a occuparsi di tutto significava anche che si ritrovarono senza seggiolino per la macchina: secondo lei avrebbe attirato l’attenzione. Perciò era stata costretta a stendersi sui sedili posteriori con il bambino, che dopo un po’ aveva avvolto in un borsone sportivo vuoto.

Dobbiamo pensare a un nome.

Si chiama Leo, disse Frank.

Sarà nato in Francia e quindi avrà un nome francese.

Lo shock impediva a Triona di andare in pezzi, proprio come fa il pilone d’acciaio di un ponte, ma Patrick aveva dato completamente di matto, sfogando la rabbia sui mobili della cucina. Con uno schiocco orrendo della sua testa aveva scavato la parete del corridoio lasciandoci un piccolo avvallamento.

Non capisco cosa pensi di ottenere così.

Te lo dico io cosa penso di ottenere, disse lui. Adesso vado e torno con il bambino.

Christian Dellavedova

E dov’è che vai esattamente, Patrick?

Dappertutto, disse Patrick Aloysius Mary Heaney.

E se fosse morto, abbandonato in un fosso al di là del muro sul retro? Sei andato lì a controllare?

Non ancora, disse lui.

Lei si sentì pervasa da un gran senso di compassione. Cresci, bello, disse.

Pascaline aspettava sottocoperta con il bambino avvolto nel suo borsone-cuccia e intanto Frank faceva la fila per mangiare. Non ne aveva troppa voglia, ma almeno avrebbe perso del tempo, mai abbastanza. Si fiondò distrattamente sulle uova che si stavano raffreddando, come farebbe uno che ha appena ucciso un cervo o compiuto qualche altra impresa eccezionale. Stava affrontando una massa indistinta di crema e pan di Spagna quando comparve lei, sola.

È la cosa più simile a una torta di compleanno che hanno qui, disse lui. Ma uno di noi due non dovrebbe stare con il bambino?

Sottocoperta: il luogo appropriato per un evento importante. E un minuto dopo Frank si ritrovò a desiderare che fossero entrambi inghiottiti da quel mare contaminato. Lei si era seduta davanti, lontana dal bambino, e Frank l’aveva già capito, ancora prima che aprisse la bocca.

O lo senti o non lo senti, disse lei. Lui è senza la sua maman. È inconcepibile. Deve respirare la sua aria e – lo senti anche tu?

Sento il mare, sì, disse Frank.

Oh Frank. Non fare lo stupido. È ora che torniamo a casa.

Quel bimbetto rosa che somigliava un po’ ad Anthony Hopkins aveva passato la maggior parte della sua vita a dormire. Patrick lo teneva in braccio e lo faceva male

Ti renderai conto che non è più possibile, no?

Il bambino ha bisogno di sua madre, della donna che lo ha partorito, della sua genitrice.

Leo si svegliò e loro, come dei cretini, cercarono di fargli bere il latte direttamente dal cartone, mandandolo a finire ovunque tranne che nella sua bocca. Non era certo così che Frank aveva pensato di trascorrere il suo compleanno.

Pascaline se n’era andata, ma era rimasta una pervasiva sensazione di disorientamento. Cos’era stato Frank per lei se non, a intermittenza, un guardiano notturno, un uomo delle pulizie, un autista, un operaio? Poco più di una comparsa, un accessorio, un aiutante, una spalla. Uno che ti porta le valigie, ti spinge il carrello, ti legge il manuale d’istruzioni e ti pianta i picchetti della tenda. Frank tornava a casa esausto da questo o da quel progetto, a volte alle tre del mattino, a volte alle tre del pomeriggio, e questa incompatibilità li aveva portati fin qui, e qui era finita.

Frank avrebbe trascurato completamente Parigi. La madre di Pascaline viveva a metà strada per la Svizzera, era lì che erano diretti. Pascaline aveva promesso al bambino che ci sarebbero state le mucche muu e quindi è lì che Frank sarebbe andato. Aveva fatto scorte di latte artificiale e poi aveva proseguito per Rennes, dove aveva dormito un’oretta in una piazzola, con il cambio della macchina conficcato nelle palle. Poi era partito alla volta di Orléans, dove era riuscito a dar da mangiare al bambino e a parlargli.

Aveva presentato Leo a se stesso.

Sì, queste sono le tue mani, gli aveva detto. Un giorno le userai per schiacciare l’uva, per dirigere un’orchestra o per prendere a pugni tuo padre. E non dimenticarti mai che sono stato io a dirtelo. Frank non le aveva mai viste, delle zampette piccole così. Il pugno di Leo nella sua bocca sapeva di buono, come una torta.

Il sole era una presenza spaventosa. Erano nel bel mezzo della campagna. Alla guida, Frank stava attraversando un posto dove facevano l’olio o coltivavano i semi da cui estrarre l’olio o qualche altra cazzo di roba. Frank era stanco ed ecco una donna che attraversava un campo, giallo come una matita colorata, con accanto un ragazzino che procedeva ondeggiando.

Il ragazzino stava srotolando qualcosa, forse un lungo nastro. No. Una bandiera?

Slacciandosi la cintura di sicurezza, Frank li guardava allontanarsi dallo specchietto retrovisore e intanto Leo, dal borsone, guardava Frank. Lui diede un’altra occhiata dal finestrino. Non era una bandiera, ma un aquilone, anche se sembrava che il ragazzino si stesse trascinando dietro una catena di petali strappati. Non doveva esserci troppo vento e si era messo comodo mentre la madre preparava l’aquilone a volare. Frank si figurava la speranza sul volto del bambino che vedeva l’aquilone librarsi per vari metri al di sopra della distesa di fiori, prima di scomparire alla vista. Madre e bambino se ne andavano saltellando in direzione del punto dove era caduto l’aquilone.

Tocca dormire un po’, disse Frank. E poi possiamo farcela tutta fino in Iran.

Era tanto stanco da desiderare di aprire la portiera e rotolare con destrezza sull’asfalto, fino a quel campo giallo, per farsi un gran bel sonnellino. E anche se stava andando a tavoletta, centoventi chilometri all’ora, Frank era convinto che sarebbe sopravvissuto all’impatto di quella caduta. Che gusto c’era a venirsene in campagna se poi si viaggiava a quelle velocità e non ci si godeva niente?

Frank si mise a raccogliere e impastare le ortiche ascoltando Leo parlare da solo. Sentilo un po’! Si era lanciato, inondando Frank con il linguaggio delle stagioni, e poi entrambi avevano intonato la stessa melodia lenta, bella, come se la musica gli appartenesse

Nel vecchio villaggio color marrone c’era più vita al mattino che di sera. La macchina di Frank seguiva due uomini con gli stivali di gomma che avanzavano a passo sostenuto trasportando dei secchi neri. Quando riuscì a superarli, quelli gli offrirono un luccio, facendo spallucce quando lui rispose che non gli piaceva il pesce d’acqua dolce.

La madre di Pascaline, Corinne, aveva creduto che fosse uno venuto a occuparsi delle sue mucche Montbéliarde malate. In ansia com’era per i suoi animali, l’arrivo di Frank non le fece molto piacere. Sì, la polizia locale era venuta a parlarle e presto sarebbe tornata in compagnia di colleghi venuti da fuori.

C’erano molte cose da chiarire. Il rapimento era stato un’idea di Pascaline e Patrick, in combutta tra loro, e Corinne poteva solo tirare a indovinare come fosse andata. È molto difficile spiegare, disse, l’ascendente che sua figlia riusciva ad avere sulla gente. Come una specie di cane pastore sexy.

Perché Frank ci fosse cascato non era certo un mistero.

Anche da piccola Pascaline cercava di controllare le mosche che sciamavano sul letame e quelle, ovviamente, le obbedivano. Il cane di casa aveva tentato il suicidio a causa delle sue angherie. Lo hai mai visto un pastore tedesco ipnotizzato? Se lo hai visto, sai di cosa parlo.

La casa era impregnata dell’odore aspro di fumo di legna e il pavimento di pietra della cucina era tanto logoro da risultare argentato.

Corinne prese Leo in una delle sue mani, grandi come quei ditoni di gommapiuma che si vedono alle partite di football americano, per fargli il bagno tenendo un orecchio teso alla strada. A Frank diede da mangiare la trippa che spandeva il suo odore dalla pentola dove bolliva. Leo si addormentò sotto una coperta già appallottolata nella vecchia culla di Pascaline.

È colpa, mia disse Corinne. Sono io che l’ho cresciuta come una grandissima egoista.

L’ho cresciuta come una grandissima egoista, e quindi chiaramente si comporterà come tale. E questo è quanto.

Frank arrivò a dire che si sentiva stupido. Ispezionò la cupa vallata dove sua moglie giocava da bambina. Tutto quel parlare di mucche e poi non se ne vedeva neanche l’ombra.

Corinne era sveglia quando Frank partì e in quell’alba verde gli riempì la Bluebird con il comté fatto con l’ultimo latte dell’ultima delle sue mucche. Formaggio per un mese, disse Frank. Non ti dispiace, vero?

La Bluebird saliva sempre più in alto. Il primo giorno in montagna trascorse senza sorprese. Il giorno seguente Frank scovò un rifugio segreto e al mattino in quel paradiso sembrava regnare la calma: in tutta la valle neanche l’ombra di un uccello.

Il rapimento era stato un’idea di Pascaline e Patrick, in combutta tra loro, e Corinne poteva solo tirare a indovinare come fosse andata. È molto difficile spiegare, disse, l’ascendente che sua figlia riusciva ad avere sulla gente. Come una specie di cane pastore sexy

Nei prossimi mesi avremo bisogno di uno spazzaneve, disse Frank, allargando le braccia come uno spaventapasseri. Il fatto di essere salito lassù e di aver ucciso una lucertola gli sembrò di buon au­spicio.

Dal giorno dopo Frank si mise a raccogliere e impastare le ortiche ascoltando Leo parlare da solo. Sentilo un po’! Si era lanciato, inondando Frank con il linguaggio delle stagioni, e poi entrambi avevano intonato la stessa melodia lenta, bella, come se la musica gli appartenesse. Il giorno dopo Frank brandì un’ascia nel torrente, per scoprire nuove rocce da battezzare in una lingua segreta, inventata per il piacere del bimbo. Le parole che erano avanzate dicevano così: quei fiori estivi saranno un gran bel vedere, no? E poco importava che Leo dormisse e non potesse sentire la domanda. Vivere altrove sembrava già tanto inverosimile quanto l’idea che il bambino potesse sollevare sulle sue spalle tutta la collina.

Nei suoi sogni di neonato, nei colpetti che dava alle mosche, Leo cominciò a esprimere il suo entusiasmo per il mondo.

Lì su si stava più tranquilli che nell’angolo più sperduto di Mercurio. Frank s’imponeva di alzarsi in tempo per vedere l’alba: a quell’ora la montagna era tutta sua. Attraversava il bosco per sentieri inusitati che di solito lo conducevano a laghi viola, e sapeva bene cosa si dice degli uomini che se ne stanno soli sulle rive di un qualche specchio d’acqua. In teoria, in quei momenti avrebbe dovuto pensare a quello che sarebbe successo quando lo avessero preso: che fossero sulle sue tracce, infatti, era più che certo. Con tutta probabilità le farfalle che lo accompagnavano nelle sue passeggiate erano tutte provviste di microchip.

C’era sempre qualcosa d’interessante da fare con le bacche di ginepro. E Frank era pieno d’idee su quel che ci avrebbe fatto. Per tutta la prima settimana monitorò i corvacci che si posavano sui davanzali del vecchio dormitorio, segnando date e orari su un vecchio quaderno. Ma quando lo perse durante una delle sue passeggiate preferì concentrarsi sui lavori da fare nel vecchio ostello. Certe mattine gli piaceva portare Leo al lago per dar prova del modo elegante che aveva di pescare con la lenza, manovrando la canna perché abbracciasse gli scogli fino a infilare l’amo in un punto torbido e affollato: dopo una brevissima attesa, all’improvviso la lenza si tendeva e Frank faceva saltellare la trota per tutta l’impressionante distanza che lo separava dall’acqua.

Ancora, diceva. Riproviamoci un’altra volta.

Gesù mio, gattonando lungo la riva Leo si faceva a ogni secondo più delizioso. Aveva un viso ben disegnato, ma Frank non poteva attribuirsene il merito.

Un bel giorno arrivò l’autunno. E pure la polizia. Due giovanotti impacciati apparsi in un sottile raggio di sole.

Frank se ne stava sulla porta dell’ostello, seduto su un secchio capovolto, e studiava le labbra di Leo, turgide e lucide, come il naso bagnato di un cane, e arricciate in uno sforzo di concentrazione rivolto ai suoi stessi piedi danzanti. Avvicinandosi, uno degli agenti alzò le braccia – doveva invitarli a entrare? – e a Frank parve che lo stessero salutando. Nei suoi ricordi, quei due sarebbero diventati maghi gentili, apparsi come in un sogno.

E arriviamo a oggi.

S’impegna tanto per rivelare molto poco. Ostenta serietà, non solo con gli estranei ma anche con Triona, che è sempre stata convinta che le cose sarebbero cambiate, anche se non c’era motivo di crederlo. Ma piuttosto che parlare di Utopia Frank, Leo preferirebbe perdere le gambe. Basta che sua madre faccia un minimo accenno perché lui se ne vada, canticchiando la-la-la con le dita nelle orecchie.

Sì, le cose stanno così: Leo si rifiuta di subire pensieri negativi o eccessivamente positivi. Indubbiamente è quel tipo di ragazzo che se ne sta in disparte in una stanza piena di gente allegra, ma non è riservato per niente quando si tratta dei suoi studi o dell’importanza dei fiori. E anche se non sa spiegare come mai, non ha problemi ad ammettere che alla sua età è proprio un bel traguardo essere una tale autorità in materia di flora alpina. Gli piace dire che alcune piante si comportano come animali.

Leo non ha idea di come se la cavino Patrick e Pascaline. Non vivono troppo lontano da sua madre e lui ha l’impressione che non abbiano vita facile, anche se è stato Utopia Frank a farsi carico di tutto.

Nessuno sapeva dove fosse finito quello scriteriato di Frank prima che Leo ricevesse un suo messaggio, una cartolina scritta in Romania ma imbucata solo qualche tempo dopo, in Grecia:

“È vero. Solo i colpevoli trovano sollievo nella giustizia. Ogni notte quando vado a dormire e ogni mattina quando mi alzo diventi più prezioso per me. Non escludere Bucarest come meta della tua prossima vacanza”.

Leo ci ha pensato un po’ su. Voleva rispondere, la Romania, la montagna, e raccontare tutto a Frank della sua ultima escursione. Non è che si aspettasse d’incontrare qualche faccia nota, lì su, ma una mattina, lungo il sentiero di Wicklow way, si è piegato in due dalle risate quando un escursionista svizzero di nome Florian gli ha fatto vedere le bacche di ginepro che aveva appena raccolto a valle.

Devi guardare con attenzione se vuoi trovarle, gli ha detto.

Conoscevo uno che lo faceva, ha detto Leo.

E allora sono tue, ha replicato l’escursionista, aprendo il palmo screpolato e rivelando le bacche. Ogni cosa invisibile è tua. ◆

Andrew Meehan è nato a Dublino. È autore di alcuni romanzi, tra cui One star awake, The mystery of love, Instant fires e Best friends. Il titolo originale di questo racconto è Summer in the mountains. È uscito sul giornale letterario Banshee. La traduzione è di Susanna Karasz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati