Nel 2017 l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca fu segnato dall’uscita dall’accordo di Parigi sul clima e dal travel ban, il “divieto d’ingresso sul territorio statunitense” per le persone provenienti da una serie di paesi a maggioranza musulmana. Nel gennaio 2025, in occasione del suo ritorno alla presidenza, sono attese altre due misure: i dazi supplementari sulle importazioni e l’espulsione immediata dei migranti senza regolare permesso di soggiorno. Come nel 2017, l’obiettivo è fare scalpore, tirare colpi e agire nel quadro delle prerogative concesse al presidente. Se i tribunali si opporranno, peggio per loro. Trump ha proposto di mettere una tassa di almeno il 10 per cento su tutte le importazioni, arrivando al 60 per cento per quelle dalla Cina. Nessuno sa se la misura riguarderà anche il Canada e il Messico, con cui gli Stati Uniti hanno un accordo di libero scambio. Secondo uno studio condotto da Mary Lovely e Kimberly Clausing, ricercatrici del Peterson institute for international economics (Piie), i dazi colpirebbero l’equivalente dell’11 per cento del pil statunitense. Misure di questa portata manderebbero in tilt le catene di produzione, innescando un trasferimento di capitali dai poveri verso i ricchi, perché sono i primi a comprare di più i beni importati. Il potere d’acquisto del 20 per cento degli statunitensi più poveri si ridurrebbe del 4,2 per cento. Trump potrebbe inoltre indebolire le leggi antitrust e contrastare le ripetute multe inflitte dall’Unione europea alle grandi aziende tecnologiche.

Il secondo tema è l’espulsione dei migranti irregolari. Al di là della questione umanitaria, la vicenda rischia di privare gli Stati Uniti di buona parte della manodopera di cui hanno bisogno. Il provvedimento, abbinato all’aumento dei dazi, accentuerebbe la pressione inflazionista della politica di Trump, causando un forte aumento dei salari.

I problemi di bilancio verranno dopo. Trump ha promesso di ridurre l’imposta sui redditi societari dal 21 al 15 per cento, ma questa prerogativa spetta al congresso. Un accordo è comunque previsto prima del 2026, quando scadrà la riduzione decisa con la riforma fiscale del 2017. Con queste misure è probabile un aumento del deficit di bilancio. A questo punto la questione si sposterà sulla politica monetaria: la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) sarebbe costretta ad aumentare i tassi per contrastare il triplo effetto inflazionista dei provvedimenti (dazi, carenza di manodopera, deficit aggravato). Questo scenario rischia di scatenare un conflitto con la Fed.

I programmi di transizione energetica voluti dall’Inflation reduction act sono in bilico. Trump ha promesso di annullarne buona parte, ma si scontra con i suoi alleati. Elon Musk (che potrebbe diventare segretario per i tagli alla spesa) vuole favorire la transizione energetica, mentre le grandi aziende petrolifere non intendono rinunciare a sovvenzioni come quelle destinate alla cattura del carbonio.

Alcune promesse di Trump sono irrealistiche. Vorrebbe cancellare l’imposta sul reddito compensandola con i dazi. È un’illusione, perché i dazi rappresentano il 2 per cento delle entrate federali contro il 49 per cento dell’imposta sul reddito e il 36 per cento dei contributi per le pensioni. Qui entra in scena Musk, che ha promesso tagli alle spese federali. Henry Brands, professore dell’università del Texas di Austin, dubita che Musk possa riformare lo stato: “Non è un problema tecnico, ma politico. Ci sono innumerevoli gruppi d’interesse. Possiamo stare certi che non resteranno a guardare”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati