“Sei la mia città / Ti sento dentro / E quando tornerò /Qualcosa cambierà”: è un po’ strano ripensare a questi versi di Cosmo e rendersi conto della loro mutazione, adesso che i musicisti provano a tornare nelle città per fare concerti, ma spesso non ci riescono. A leggere vari articoli apparsi nei mesi scorsi era plausibile pensare che la musica sarebbe tornata a capienza piena anche in Italia. Interventi come quello di Larissa dedicato al ritorno del clubbing a New York hanno fatto vivere nell’aspettativa: “Adesso sono tornata alla festa. Sono a Ridgewood, a Bushwick, a Bed-Stuy. Incontro amici che non vedo da un anno, vestiti di latex nero e tessuti a rete. Ci tocchiamo tutti. Sappiamo cosa abbiamo perso quest’anno. Solo il suono pare contenere questa immensità. Balliamo e celebriamo il fatto di essere sopravvissuti”.
Forse c’è un po’ troppa enfasi, e non tutte e tutti hanno la stessa idea di sopravvivenza, ma è innegabile che ci sia bisogno di tornare alla dimensione fisica dei concerti, non solo come rituale collettivo e sociale, ma anche per sostenere il lavoro di chi organizza questo tipo di eventi dietro le quinte. Cosmo ha rinviato tre date previste a Bologna all’inizio di ottobre, che avrebbero dovuto fare da apripista a concerti “normali”, sfruttando le proprietà ormai quasi magiche del green pass, che spalanca molte porte e tornelli in alcuni contesti, ma in altri non riesce a sfondare la parete del suono. Su questa dissonanza di uno strumento nato in teoria per rendere tutto uguale ci sono ancora molte domande da fare, soprattutto nel campo della musica. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati