Non ho mai guidato un’automobile, tranne durante le quaranta lezioni di scuola guida in cui si è capito che non sarei mai stata padrona della strada. Né ho mai sofferto particolarmente per questa incapacità, dato che mi piace affidarmi alla guida sicura dell’altro, confondendo un mio limite pratico con una dimensione quasi spirituale. Eppure mi è capitato di avere una strana invidia per chi instaura un rapporto personale con una macchina durante un set di Paolo Angeli alla Casa del jazz di Roma. Non lo avevo mai sentito dal vivo, e oltre ad avere l’istinto di ridere forte per la gioia d’incamerare suoni così puri e intelligenti, ho osservato da vicino la sua chitarra sarda preparata, qualcosa che evoca allo stesso tempo Archimede, gli zampognari, Marc Ribot e William Burroughs se solo fosse nato in un paese mediterraneo (ma sono sicura che il suo strumento evoca altre presenze per chi si è formato a latitudini diverse dalla mia). Per descrivere l’intimità dei musicisti con i propri marchingegni si ricorre spesso a un lessico fusionale e simbiotico, ma durante la suite di Paolo Angeli (in linea con l’album Níjar del 2023) ho avvertito invece la capacità di controllo e risposta, di sentire le proprietà della macchina al di là di se stessi. E, anche se non è proprio improvvisazione, la chitarra corregge certi comandi che le arrivano, deviandoli verso qualcosa di più alto e solo parzialmente computabile. Come se nello strumento di Paolo Angeli ci fosse un cuore che si presta a tutto, che mette da parte le sue regole affinché qualcuno possa inventarne delle altre. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati