“Quando una persona muore, entra nella storia. Quando una statua muore, entra nell’arte. Questa botanica della morte è ciò che chiamiamo cultura”. La frase d’apertura di Les statues meurent aussi (Anche le statue muoiono) – il film sperimentale del 1953 di Chris Marker, Alain Resnais e Ghislain Cloquet sulle opere d’arte africane nei musei europei – mi è tornata in mente l’anno scorso, quando la statua dello schiavista Edward Colston è stata abbattuta a Bristol, nel Regno Unito. E mi è sembrata un avvertimento.
Poco meno di 125 anni, 6.500 settimane. A prescindere da come vogliate misurare il tempo trascorso da quel pomeriggio di novembre del 1895 in cui fu eretta la statua, una cosa è certa: il 7 giugno 2020, il giorno in cui l’opera è stata abbattuta, abbiamo scoperto che Colston non era stato reso immortale. O forse sì? Colston ha vissuto per 84 anni come uomo, per 174 anni come fantasma e per 124 anni come monumento.
Azione e reazione
Eppure quattro giorni dopo il 7 giugno è stato ripescato dalle acque del fiume Avon e piazzato (in prestito) negli spazi del museo M-Shed di Bristol. “Al momento l’idea è quella di stabilizzarlo”, ha detto il curatore del museo. Quando la “botanica della morte” ha raggiunto Colston, l’M-Shed si è messo in mezzo. Ma la domanda è: cosa, esattamente, dev’essere “stabilizzato”?
Il fallism – l’azione di smantellare fisicamente le infrastrutture culturali che promuovono il suprematismo bianco – fa parte della lotta anticoloniale e antirazzista almeno dagli anni sessanta, quando in Algeria, al momento dell’indipendenza, scoppiò una “guerra delle statue”.
Anche l’impulso verso la conservazione fa parte della questione. Gli algerini cominciarono a vandalizzare e distruggere targhe e statue che commemoravano la dominazione coloniale. I soldati francesi risposero con una grande operazione di salvataggio.
Più di cento monumenti furono prelevati, trasportati attraverso il Mediterraneo e infine, come documentato da Alain Amato nel suo libro del 1979 Monuments en exil (Monumenti in esilio), reinstallati in giro per la Francia.

Ma torniamo alla “caduta” di Colston, bendato, legato, fatto rotolare per la strada, annegato nel fiume sotto gli occhi del mondo intero. Come tutte le immagini, come la statua stessa e come il ruolo di Colston nella riduzione in schiavitù di decine di migliaia di africani, quello non è un momento congelato nel tempo. È ancora qui, nel presente. Torniamo al 1961, quando Frantz Fanon descrisse il colonialismo come “un mondo di statue”. In I dannati della terra, Fanon spiegava che ogni statua non smette mai di veicolare lo stesso messaggio: “Siamo qui grazie alla forza delle baionette”. Da Fanon impariamo che tutti i monumenti alla violenza contro i neri ripristinano quella violenza, ogni giorno in cui restano in mostra. Quindi la caduta di Colston continua o il museo l’ha fermata?
Tempo fa sono passato davanti al piedistallo vuoto nel centro di Bristol. Da lì sono andato al museo M-Shed, ripercorrendo il breve viaggio compiuto da Colston l’anno scorso. In un angolo del museo c’è una finestra affacciata sulla città e sul fiume, da dove entra un fascio di luce. La statua giace supina, e la sua altezza (oggi lunghezza) è sorprendente: due metri e cinquantasei. I visitatori fanno la fila per ammirare le fibbie delle sue scarpe, il cappotto sbottonato, le calze al ginocchio, le mani coperte di vernice rossa. Il bastone manca ancora all’appello. Si dice che un manifestante se lo sia portato a casa per ricordo. Mancano anche alcune parti del cappotto, e forse adesso sono solo pezzi di bronzo in fondo al fiume dove è stato spinto.
Non è una patina. Non è soltanto un altro strato nella storia della vita di una statua vittoriana. Il _fallism _è rimozione. Il _fallism _è il lavoro incompiuto dell’abolizione. È il contrario della conservazione. Eppure – dal Museo di cultura afroamericana del Texas di Houston al Museo della guerra anglo-boera di Bloemfontein in Sudafrica fino al Barbados museum and historical society di Bridgetown – nel 2020 molti monumenti al suprematismo bianco sono stati esposti in spazi d’arte dopo essere stati prelevati dalle strade. La mostra del M-Shed è presentata come “l’inizio di una conversazione”. Ma una mostra può essere davvero una conversazione? O invece il recupero, la conservazione, l’ideologia preferita dal governo di “mantenere e spiegare” e il gesto di ri-contestualizzare e riscrivere l’etichetta sovrasteranno o cancelleranno le voci di chi ha buttato giù il monumento?
Andare oltre
La statua, per il momento, non è stata acquistata dal museo. La sua esposizione ci ricorda che a Bristol (ma non solo) l’opera di abolizione non è terminata. La riparazione e la compensazione non sono ancora complete. Il fatto che per trent’anni la statua non sia stata rimossa ha sancito il fallimento dei nostri modelli di competenza curatoriale, dell’“impegno” pubblico dell’autorità.
La conservazione provvisoria di Colston sia ripete la nostalgica contro-ribellione dell’esercito francese in Algeria? O potrebbe invece catalizzare una nuova forma di co-allestimento che destabilizzi la statua e immortalare la caduta piuttosto che l’uomo?
Per questo il progetto del museo dovrebbe essere ridisegnato da zero, ma la ricostruzione sarebbe fattibile nel M-Shed soltanto riconoscendo che l’abbattimento del monumento a Colston è un nuovo modello di gestione dell’opera. Questa esposizione temporanea potrebbe essere un primo passo incoraggiante nella giusta direzione. Da persona che ha vissuto a Bristol per dodici anni – prima negli anni settanta e poi tra gli anni novanta e duemila – e come molte persone che conoscono la statua, la visita al museo mi ha commosso. Chiunque s’interessi di razzismo, impero e schiavitù dovrebbe vedere la mostra. Ma non è questo il punto.
Quella del M-Shed è il genere di mostra da cui esci pensando “non vedo l’ora che sia chiusa”. È il genere di mostra che vorresti non fosse mai stato necessario organizzare. Ora Colston potrebbe essere relegato per sempre negli spazi carcerari del magazzino del museo. Personalmente però preferirei vederlo affondare di nuovo nel fiume, coperto per sempre dal fango dell’Avon e dimenticato dal mondo. Ma a prescindere dal destino della statua, l’importante è che Colston continui a cadere. ◆ as
Dan Hicks insegna archeologia contemporanea a Oxford. È l’autore del saggio _The Brutish museums _ (Pluto press).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati