Il lavoro consisteva nel raccogliere ricordi. Ero tornato da poco in città e non smaniavo dalla voglia di lavorare, ma non volevo nemmeno fare la fame. Era un incarico solo temporaneo, e credo che non abbia mai avuto neanche un nome ufficiale. “Sei bravo ad ascoltare?” fu l’unica cosa che mi chiesero, e in un certo senso sembrava una domanda a trabocchetto.

Il lavoro richiedeva un ricercatore, per così dire, per un progetto tipo un grande censimento di massa, raccolto in giro per le case, i pub e i luoghi di lavoro. Il mio compito era solo incoraggiare le persone a lasciarsi andare ai ricordi. Ogni volta dovevo premettere che molto probabilmente la loro testimonianza non sarebbe stata usata, o sarebbe stata ridotta a un breve aneddoto su un volantino. Ma alle persone andava comunque di condividere le loro storie, con meticolosa e disordinata ricchezza di dettagli. Così, pagato a ore, io li lasciavo parlare.

Ai partecipanti andava comunque di condividere le loro storie, con meticolosa e disordinata ricchezza di dettagli. Così, pagato a ore, io li lasciavo parlare

I nastri registrati si accumulavano, da ore diventavano giorni, pieni di cose perdute e di prime volte: l’infanzia dei veicoli a motore, l’elettricità, i telefoni; la musica quotidiana delle sirene a vapore nella darsena di un porto ormai scomparso, le sirene degli allarmi antiaereo e quelle della fabbrica di camicie; i cacciatori di conigli e i coltivatori di lino; l’arrivo dei soldati americani; la scomparsa dei mulini a vento e dei saponifici e la distilleria chiusa dal titolare che aveva distrutto la sua stessa impresa pur di non trattare con un sindacato; l’oscuramento, gli straccivendoli, i bambini morti. Molti di quelli con cui parlavo si ricordavano i tempi in cui la città era un porto, in cui aveva un dialogo con il resto del mondo attraverso il mare, non solo grazie ai racconti di emigrazione a Liverpool, Boston, Londra e Melbourne, ma ancora più lontano. Incontri di boxe a Montevideo; esplorazioni dell’Artide; missionari in Polinesia. Ormai di tutto ciò non resta nulla. Tranne nei ricordi.

Un esempio: bobina 14, William Campbell detto Billy, marinaio.

“Successe a Christmas island. Sai dov’è?”.

“A sud di Giava, nell’oceano Indiano. È lì che ho visto sganciare tre bombe atomiche. Ti davano anche una foto, ce l’ho ancora da qualche parte…”. Agitò le mani verso il soffitto. “Eravamo in mare aperto. La bomba scoppiò parecchio lontano, forse a quaranta chilometri da noi. E a ottomila metri d’altezza. Esplosione in aria, air­burst, la chiamavano. La sganciò un bombardiere Vulcan che poi tornò direttamente nel Regno Unito a consegnare i risultati dei test. Un lampo. Dio mio, che lampo. E poi, dopo qualche minuto, ci investì l’onda d’urto.

“C’era tutta una procedura a cui prima del lancio avevano tentato di addestrarci, ma non la seguì quasi nessuno. Qualcuno si era messo gli occhialoni protettivi e la crema solare. Ma molti se n’erano fregati. L’esplosione iniziale non si poteva guardare. Bisognava girarsi, inginocchiarsi e rannicchiarsi, chiudere gli occhi e coprirseli con le mani. Ma anche così, il lampo fu fortissimo. Fu come i raggi X. Ti vedevi le ossa dentro la mano. Hai presente quando da bambino ti premevi una torcia elettrica contro la pelle? Hai presente quel chiarore, l’ombra dello scheletro? Era così. Si sentiva il calore sulla pelle, un formicolio. Ci beccammo tutti quanti una scottatura, anche a quaranta chilometri di distanza. Dopo l’esplosione arrivò l’ondata di maremoto e la nave si sollevò… Cristo santo, di una decina di metri, direi”.

La moglie di Billy, Jacqueline, entrò dopo aver velocemente bussato alla porta e ci offrì dell’altro tè. Era scattante, gentile, ma dal primo momento che la vidi mi sembrò frenata da qualcosa che non riuscivo a collocare. Non era un peso fisico. Era qualcosa d’impalpabile e silenzioso, ma comunque un peso. Le chiedi se volesse parlarmi del suo passato, ma liquidò l’invito con una risatina imbarazzata, facendomi sentire di essere stato in qualche modo inopportuno. L’unica cosa che mi rivelò, con una strana punta di orgoglio, come una bambina che consegnava un regalo, fu il suo cognome da nubile: Wood­bridge. Si muoveva attorno al tavolo canticchiando a bocca chiusa un motivetto che, di nuovo, mi sfuggiva.

All’esterno il ronzio di un tosaerba era interrotto dal rumore dei camion che sfrecciavano lungo la strada. Il tempo parve rallentare. Ci fu una lunga pausa durante la quale sentii Billy emanare un’irritazione silenziosa. Quasi non la guardava. Io ringraziai Jacqueline per la gentilezza. Billy continuò solo dopo che se ne fu andata, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato.

“Non ci fu la nuvola a fungo come quella dei film. No, fu più strano di così. L’esplosione avvenne in alto nel cielo, e fu di tutti i colori possibili e immaginabili. Era una palla incandescente che si arrampicava in aria, con dei filamenti che pendevano sotto, come serpenti che strisciavano gli uni sugli altri, cambiando continuamente colore. Scintillante come le scaglie dei pesci”.

Scosse la testa incredulo al suo stesso ricordo.

“Il cielo rimase bruciato per tre giorni. Gli abitanti del posto li avevamo avvertiti prima, perché non si spaventassero o si ferissero con la vampata, ma tutti gli uccelli dell’isola restarono ciechi. Per sempre. A quelli nessuno ci aveva pensato. Fu solo quando si schiusero le covate che tornò a esserci qualche uccello che ci vedeva”.

Luca D’Urbino

“La storia delle radiazioni l’ho sentita anni dopo. All’epoca non ce ne avevano parlato. Eh, probabilmente fummo esposti tutti quanti. Conoscevo dei marinai – miei cari amici, giovani in forma – a cui venne il tumore alle ossa, al sangue, al cervello. Per un po’ ho pensato che fosse questo il motivo per cui mi hanno dovuto operare al bacino”. Batté una mano sul bordo della sedia a rotelle. “Forse non lo sape­vano”.

“Forse”.

Uscito da casa loro mi avviai lungo le stradine secondarie, passando davanti al campo dei travellers, un asino legato a un albero, un centro comunitario distrutto da un incendio. Messa tra noi una distanza sufficiente, mi fermai e mi sedetti a una decrepita fermata dell’autobus, riascoltando il nastro per accertarmi di aver registrato tutto, provando imbarazzo per il suono della mia voce, la goffaggine delle domande, le piccole opportunità che avrei dovuto cogliere, la temperatura della conversazione che non avevo saputo valutare. Quando Billy aveva accennato al fatto di aver visitato delle stazioni baleniere vicino all’Antartide, mi ero lasciato prendere dal romanticismo e avevo commentato che luoghi così remoti dovevano essere impressionanti, sublimi. Lui mi aveva immediatamente zittito. Erano posti tremendi “dove gli uomini si comportavano senza ritegno”. I marinai norvegesi, “tosti come vecchi scarponi”, a volte arpionavano una balena dalla parte sbagliata, conficcandole la fiocina nella testa, e la bestia poteva trascinarsi dietro la nave per miglia e miglia. Nonostante il disgusto, nella voce di Billy c’era qualche piccola traccia di meraviglia, come se tuttora non riuscisse a credere a ciò che aveva visto.

“Ho messo i piedi, anzi, gli scarponi, dentro la capanna di Shackleton, ci credi? In un posto chiamato Cape Royds. Avevano passato l’inverno lì, quelli della spedizione Nimrod. I letti. La stufa. Ancora si sentiva l’odore di carbone e di whisky. Vecchie bottiglie e barattoli sulla mensola. Giacconi ancora appesi. Uno dei nostri – è morto giovane, poveretto – ci rubò qualcosa. Non volle neanche farci vedere cosa. Allora gli spiegammo che portava sfortuna, era una maledizione, e glielo ripetevamo di continuo, gli rompevamo le palle giorno e notte, finché lui non lo buttò in mare, qualunque cosa fosse, e a quel punto gli dicemmo che così gli avrebbe portato ancora più iella”.

Billy scoppiò a ridere appoggiandosi all’indietro sulla sedia a rotelle, una risata profonda e calorosa che si trasformò in un attacco di tosse, e che lui disperse agitando una mano come fosse fumo.

Scosse la testa incredulo del suo stesso ricordo. “Il cielo rimase bruciato per tre giorni. Gli abitanti del posto li avevamo avvertiti prima, perché non si spaventassero o si ferissero con la vampata, ma tutti gli uccelli dell’isola restarono ciechi. Per sempre”

“Figliolo, faccio fatica a dirti che anno è o quanti ne ho io senza contare, eppure mi vedo ancora davanti agli occhi Lourenço Marques. La gente che viveva dentro i crateri di Tristan da Cunha. Stone Town. Cape Coast. Rivedo tutto perfettamente. Vedo la gente che passa, come fosse adesso. Poi però altre volte… altri particolari… non lo so… la mente non riesce a fermarsi. Non mette a fuoco. A volte… Freetown… Durban… Non sono sicuro… Una volta ci passai delle ore, lì, a guardar passare corpi che galleggiavano sul fiume fino al mare, venivano dall’interno, dove chissà cosa facevano”.

Capii, mentre ero seduto alla fermata, ad ascoltare le nostre voci già al passato, che i racconti di Billy non sarebbero stati usati. Sarebbero stati giudicati troppo estremi, o fuori tema. Non adatti allo scopo.

Sapevano già cosa volevano per il progetto: storie prevedibili. Che utilità o interesse potevano trovare nella storia di un gruppo di marinai che mezzo secolo fa dall’altra parte del mondo avevano estratto a sorte chi doveva andare col manico del piccone a finire gli uccelli impazziti, con gli occhi bruciati, che svolazzavano furiosamente sul terreno? Che importanza poteva avere un’isola resa inabitabile rispetto al presente? Eravamo andati completamente oltre. Ne ero consapevole, ma inviai l’intervista comunque, insieme alle altre, e in effetti la storia di Billy fu considerata materiale superfluo ai fini della ricerca e non fu mai usata o citata.

Mi ero dimenticato della nostra chiacchierata finché non l’ho ritrovata anni dopo in mezzo alla manciata di dati che ero riuscito a recuperare da un vecchio hard disk rotto. Non ricordavo neanche di aver conservato o digitalizzato qualcuna delle interviste. Billy ormai è morto da tempo, è finito nello stesso posto degli uccelli ciechi. Nella registrazione le nostre voci suonano strane: troppo acute, troppo esitanti, come se fossero quelle di tutt’altre persone. Ascoltarle mette a disagio.

Sembra quasi la regressione a una vita precedente. “Non ti è mai venuto in mente”, scriveva Tennessee Williams in Il treno del latte non ferma più qui, “che la vita è tutta memoria, tranne l’unico momento presente che passa così in fretta che quasi non te ne accorgi?”.

Ci sono molte digressioni, nella conversazione, che avevo scordato finché non le ho risentite nella registrazione digitalizzata. O meglio, mi ero dimenticato di ricordarle, come se fossero state archiviate male in una biblioteca. Prima di rendersi conto che la registrazione era partita, Billy mi aveva regalato, con un ridicolo tono smargiasso alla John Wayne, vari resoconti della sua popolarità presso le signore di Hong Kong, dell’Indocina, di Ceylon, ai tempi d’oro, e della sua destrezza nell’usare i pugni affrontando canadesi, yankee, australiani e neozelandesi durante le licenze a terra. Ora ricordo come mi fissava, con attenzione, quasi con tenerezza, nell’attesa di una reazione.

Eppure anche il passato finisce per erodersi, proprio come il mare consuma la terra, finché tutto ciò che si è sopportato, tutte le esperienze e i traumi, gli sforzi e le peculiarità sono portati via dalla corrente e dimenticati. Ma del resto, cosa importa? Che importanza ha un’isola piena di uccelli ciechi nel quadro generale delle cose?

Riascoltando quella traccia audio prima di archiviarla, mi sono ricordato di quando Billy si era arrotolato le maniche, mostrandomi i tatuaggi della bandiera britannica e del bulldog, anche se per quasi tutta la vita aveva abitato in una zona di repubblicani. Mi sono ricordato che non era riuscito ad alzarsi dal “trono”, così lo definiva, per accompagnarmi alla porta, e mentre me ne andavo era rimasto lì sulla sedia a rotelle, con lo sguardo perso nel nulla. E poi mi sono ricordato della moglie, forse ancora viva, che aveva ascoltato tutta la nostra conversazione fuori della porta del salotto, sentendo quelle storie per la prima e ultima volta. ◆

Darran Anderson è nato e cresciuto nel nord dell’Irlanda e vive a Londra. In italiano è uscito il suo Città immaginarie: gli uomini dal Milione di bugie (Wordbridge Edizioni 2020). Il titolo originale di questo racconto è Surplus. È stato pubblicato su Tolka, un giornale letterario irlandese di saggistica creativa. La traduzione è di Martina Testa.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati