M’immaginavo la casa in cui Tom si era trasferito: un lungo bungalow bianco, cespugli verdi, una fontana. Immaginavo il tipo di donna che avrebbe prestato a Tom la sua casa per aiutarlo a scrivere. Tom aveva sempre delle donne che lo incoraggiavano. Me la immaginavo brillante, gambe magre, scarpe eleganti, gioielli minimal, e prima di dormire mi chiedevo se ci scopava o faceva solo finta di volerlo fare.

La sorella di Tom, Sarah, era rimasta in contatto con me dopo che io e lui ci eravamo lasciati. Mi aveva telefonato durante l’estate per dirmi che lui stava venendo a ovest, e qualcosa a proposito del fatto che voleva scrivere un libro su un ragazzo, il leader di un gruppo di escursionisti estremi. Mi sembrava quasi una violazione – il fatto che lui venisse qui – perché si era sempre rifiutato di venire con me a trovare i miei, perfino dopo la morte di mia madre si era rifiutato di accompagnarmi. L’ultima volta, l’avevo implorato. Era Natale. Aveva scosso la testa. Non ho tempo, aveva detto. Ora entrambi i miei genitori erano morti e non doveva più fare conoscenza con nessuno. Sarah mi aveva detto che molto probabilmente il trasferimento di Tom da Londra all’Irlanda occidentale non aveva nulla a che fare con me. Mi aveva avvertito per mettermi in guardia ed ero stata contenta che lo avesse fatto: vedermelo qui in giro sarebbe stato uno shock terribile.

Siccome non avevo voglia di bussare mi sono fermata sul portico e ho aspettato, ma sarebbe stato meglio, l’ho capito in quel momento, voltarmi e andarmene

Poco dopo il suo arrivo, mi ha inviato un messaggio. Non l’ho letto per qualche giorno e poi ho cominciato a fare quello che faccio sempre, immaginare situazioni: entravo in un negozio e me lo trovavo davanti, gli passavo accanto in bicicletta per strada. Indossavo una maglietta a righe, magari una gonna pantalone o i jeans e una giacca cerata. Per qualche giorno ci eravamo scambiati messaggi contenuti e poi nulla per settimane, fino a quando all’improvviso un codice postale, un giorno, un’ora, una cosa che avremmo potuto fare insieme e, infine, un’emoji con una faccia che si scioglie.

La strada era familiare, tortuosa e fangosa. Il navigatore satellitare ha suonato dopo una curva a gomito, e poi mi è apparsa la casa, senza un sufficiente preavviso. Ho pensato di tirare dritto ma, a causa del bagliore del sole invernale, ho rallentato e poi mi sono fermata accanto a una costruzione grigia a due piani, per niente simile a quella che avevo immaginato. Ho spento il motore e mi sono seduta lì ad aspettare come una madre dopo una giornata di lavoro che guarda la sua famiglia attraverso la finestra. Non c’erano segni di vita nel cottage accanto, a parte uno stendibiancheria vuoto e un mucchio di torba. La bici di Tom era vicino alla facciata della casa e mi ha colto di sorpresa: la sottile struttura argentata e il casco rosso appeso al manubrio. Pezzi di un braciere rotto erano sparsi sulla ghiaia e vasi di terracotta ospitavano piante annerite annegate nell’acqua piovana. Ho controllato il telefono e poi i miei denti nello specchietto retrovisore.

Agli inizi, quando ci frequentavamo, sarei entrata e sarei rimasta in cucina, forse mi sarei versata da bere o avrei messo un po’ di musica e preso qualcosa da mangiare dal frigorifero. Allora ero certa che Tom fosse mio e che tutto sarebbe andato come in genere vanno le cose, non nei film o nei libri ma tra le persone con cui ero cresciuta. I miei genitori, altre persone che conosco e stanno insieme. Dopo un paio di settimane di appuntamenti, mi aveva aperto al citofono: Faccio una doccia al volo, mi aveva detto, tu intanto entra, ci metto cinque minuti, al massimo. Ricordo di essermi sentita a mio agio mentre salivo verso il suo appartamento, e poi, non so cosa mi aveva preso, avevo cominciato a togliermi il maglione rosso, poi mi ero spogliata tutta ed ero rimasta nuda vicino al lavandino.

Gli ho mandato un messaggio: Sei a casa?

E dai, entra.

Era stato a guardarmi seduta in macchina e volevo che venisse da me. Che mi convincesse a entrare. Ho chiuso l’auto con il telecomando per avere qualcosa da fare mentre camminavo verso la porta d’ingresso lungo un sentiero ordinato tracciato in mezzo a un giardino incolto. Era degli anni trenta? Qualcuno forse aveva piantato fiori su entrambi i lati dello stretto sentiero: narcisi a primavera, margherite in estate. Non c’era campanello e siccome non avevo voglia di bussare mi sono fermata sul portico e ho aspettato, ma sarebbe stato meglio, l’ho capito in quel momento, voltarmi e andarmene.

Stai bene, ha detto Tom, sorridendo mentre apriva la porta. Mi ero fatta le trecce, da entrambi i lati.

Ciao, ho detto, con le mani nelle tasche posteriori.

Ciao, ha risposto fissandomi, e io ho detto in fretta: Come stai, quanto tempo eccetera, Tom… e dopo aver pronunciato il suo nome ho avuto un vuoto.

Alla fine ho detto: Tu… sei sempre tu. Sembrava più magro: le mani, i capelli, la vita.

Forse stavo per abbracciarlo ma si è girato ed è entrato in cucina. L’ho seguito e lungo la strada, parlando un po’ della zona, mi sono guardata allo specchio vicino a un appendiabiti e ho parlato del contadino della porta accanto: il suo stendibiancheria, il suo mucchio di torba. Ho accennato ai cavalli, ai cacciatori e poi ai cavalli da corsa, che portavano a pascolare qui fuori stagione per farli svernare. L’erba è buona, ho detto, piccoli appezzamenti, anche se non sapevo perché, era solo una cosa che avevo sentito dire da piccola. L’ovest dell’Irlanda è famoso per la sua terra povera, quindi è raro che una zona come questa abbia una valle di erba buona. Aveva fatto arricchire la cittadina. Immagino che abbia qualcosa a che fare con le rocce, ho detto, ma poi non sono stata all’altezza di proseguire. Ho commentato le piastrelle monocrome del pavimento mentre lui guardava nel frigorifero, ha parlato di un tè ma io ho detto di no, e poi, terrorizzata dal silenzio, da quello che sarebbe potuto succedere se avessimo smesso di parlare, ho detto che il pavimento decorato era insolito per l’ovest. In soggiorno mi aspettavo il parquet. La tua amica ha davvero buon gusto, ho detto.

Grazie, ha detto. Sei ancora all’università?

Ancora lì, sì, ho detto, tossicchiando.

Pensavo volessi scrivere.

Sono passati… quanti anni, Tom? I piani cambiano, ho detto. E poi, non tutti abbiamo amici ricchi.

Non hai mai voluto amici, ha detto lui secco, poi ha chiuso la porta del frigorifero e mi ha stretto il braccio, dalla parte posteriore grassoccia.

Nessuno di noi due avrebbe dovuto fare lo scrittore. Primi laureati in famiglia. Tutta quella responsabilità, che pretesa. Io qui in questo paesaggio, figlia di un contadino (morto). Entrambi partecipavamo a eventi letterari. Ero felice d’insegnare perché mi sembrava la scelta meno manipolativa ed era meglio che passare il tempo in una casa piena di ricordi che mi tenevano a letto per giorni. Andando a insegnare ero riuscita a rimuoverli. La scrittura invece amplificava tutto.

Pizzicandomi il braccio, Tom mi ha ricordato di suo padre, Billy, un venditore di auto, e spesso in Tom rivedevo Billy, il modo in cui toccava le persone o come poteva stare bene e rilassato, per poi diventare una palla di rabbia. Una volta, in un ristorante di Londra, forse un minuto dopo aver ordinato – il cameriere non aveva avuto neanche il tempo di portare l’ordine in cucina – Tom si era alzato un po’ dalla sedia e aveva fatto un gran chiasso con il tavolo e le posate, ma non abbastanza da essere imbarazzato se fosse passato inosservato, cosa che però non era successa. Quella sera era stato servito in fretta e prima di qualsiasi altro cliente, molto probabilmente il piatto di qualcun altro. Forse non aveva mai voluto incontrare i miei genitori, perché vedere una versione più vecchia di me poteva rovinargli tutto.

Quanti anni ha? Ho detto, guardando il soffitto puntinato. La casa.

Non ne ho idea.

Sì, davvero. Perché, è importante?

Non è rischioso? ho detto. Di solito non ti piace conoscere i… dettagli?

Tom mi ha guardato un attimo e ha detto: Da’ un’occhiata a questa, si è chinato e ha sollevato un enorme vaso vicino alla stufa. Dentro il vaso c’era una pianta verde con tre grandi foglie. Ricordava benissimo il nome della pianta. Era un nome lungo e strano. Ho pensato alla facilità con cui ricordava i nomi delle cose: vini e poeti e alberi, e mi ha detto di nuovo: È una pianta questo e quello. E poi ha aggiunto: Non è semplicemente deliziosa? È proprio una cosa da Joanna. Vero? Proprio una pianta da Joanna, ha detto, di nuovo.

Come facevo a saperlo?

Ah già, ha detto. Ovviamente, non conosci Joanna. Sa quasi tutto quello che c’è da sapere sulle piante d’appartamento.

Ho detto: Come cazzo faccio a sapere quello che Joanna sa sulle piante?

Retorica.

Va bene, va bene, ha detto, facendo un gesto su e giù con la mano.

Penso che sarebbe più interessante conoscere l’età della casa che il nome di qualche oscura pianta d’appartamento, ho detto.

Ma è una pianta così bella, ha detto, e non sembrava affatto infastidito dal mio commento mentre si girava e cominciava a rovistare nei cassetti.

Pierluigi Longo

Cosa stai cercando?

Occhiali da sole, ha detto, strizzando gli occhi davanti al sole basso fuori dalla finestra.

Non si vede il mare, ho detto ridendo e lui mi ha sorriso ed è rimasto lì a guardarmi con la mano dentro un cassetto, continuando a cercare. Sono arrossita perché non riuscivo a ricordare il nome della pianta per continuare a parlarne ed ero arrabbiata con me stessa perché non avevo alcuna inclinazione per la specificità delle cose. Per coprire un altro silenzio ho parlato dell’università e lui ha detto che sembravo irritabile e probabilmente era perché non stavo scrivendo. Ho detto che non ero irritabile, che niente mi rendeva più maledettamente irritabile dello scrivere e quindi non avevo scritto una parola dopo quella storia della coppia in viaggio in Australia che era stata rifiutata praticamente da tutti. Era l’ultimo mio racconto che aveva letto. I rifiuti erano stati colpa mia. Lo sapevamo tutti e due. In quel periodo avevo perso qualcosa, preoccupandomi di loro: delle storie. Entrambi ci siamo messi a parlar male delle università, mentre lui tornava ad aprire i cassetti, per cercare. Abbiamo parlato del rapporto tra accademici e creativi e abbiamo convenuto che non bisognerebbe mai rinchiudere in un’università un gruppo di persone con punti di vista così diversi su quello che le parole dovrebbero fare.

Potevamo andare al mare. O pranzare. Poteva andare a fare la spesa al mercato. Voleva una trota. Gli avrei consigliato il posto migliore per comprare una trota fresca. Più tardi sarebbe venuto un amico per il tè, un amico di Joanna.

Bene ha detto Tom, prendendo lo zaino e mettendoselo in spalla. La borsa era della stessa marca delle sue scarpe, che si era allacciato dopo aver indossato lo zaino, il che era una cosa sciocca da fare, ma non gliel’ho detto. È raro che chi fa una cosa stupida non ne sia consapevole. Mi chiedevo se fosse una buona marca. Abbiamo girato per la casa nonostante il fatto che dovevamo uscire e lui ora indossava i Ray-Ban blu sul naso. Sono entrata in soggiorno e sì, c’era il parquet come avevo previsto. Altre piante. Un giradischi. Libri. Plaid all’uncinetto, un po’ di whisky, ma nessun single malt. Il sole invernale inondava tutto. Ho notato che le finestre erano a ghigliottina, sostituite alla fine degli anni novanta, immagino.

Chi ha vissuto qui prima della tua amica? ho chiesto.

Non ne ho idea, ha detto, toccandomi il naso con il dito. Perché tutte queste domande?

Non ho mai abitato in una casa dove prima di me vivevano degli estranei, tutto qui, ho detto, seguendolo. Sono affascinata. Nemmeno a Londra, ti ricordi quando cercavo assolutamente un appartamento nuovo di zecca e ci è voluto tanto tempo che tutti gli agenti immobiliari hanno perso la pazienza?

Poi l’hai trovato?

Sì. L’ho trovato. Ti ricordi?

Ha scosso la testa. No, scusa, ma sì, affascinante o forse un po’ strano, no?

Energie, vibrazioni, ho detto. E mi ha intristito il fatto che avevo dovuto spiegargli di nuovo che il dolore lasciato da altre persone in una casa mi soffoca.

Non è doloroso, allora, tornare nella casa della tua infanzia? Tutte le vibrazioni.

Quello va bene, ho detto. A volte può anche essere rassicurante, casa mia. Ho tossito di nuovo.

Sì, anche se a volte è doloroso.

In che senso?

Sono tornata dentro e mi sono lavata le mani al lavandino sotto l’acqua calda, strofinando con il sapone alla citronella. Tom era accanto a me e parlava di una nuova libreria che sarebbe arrivata di lì a poco da un costoso negozio di mobili di Cork, mentre le mosche scendevano nello scarico di rame

Posso trovare un paio di collant di mia madre in fondo a un cassetto o un biglietto del treno in un libro di mio padre, e questo… mi disturba.

Cazzo, ha detto. Era difficile leggere il suo sguardo con gli occhiali da sole. Ecco, vieni, ha detto, indicando le finestre che ronzavano. Ho un problema con le mosche. È pazzesco. Sono dappertutto, ha detto, e l’estate è finita. Ha cominciato a schiacciarle, mosche con occhi azzurri riflettenti come i suoi. L’ho visto ucciderne alcune.

Gesù, ho detto, sono dappertutto. Quando è cominciato il problema?

Cazzo, sono davvero dappertutto, ha detto, come se la cosa lo sorprendesse. Ho notato come rispecchiava le mie frasi. Avevo cercato su Google mirroring qualche giorno prima, quando stavo analizzando i nostri messaggi.

Forse sono le piante ad attirarle?

Non essere assurda, ha detto Tom. Pensava che le mosche avessero qualcosa a che fare con una crepa nel muro o con un isolamento insufficiente, ha detto. Gli ho detto che anche casa mia era piena di mosche e che le odiavo perché mio padre le odiava. Una volta ammiravo molto le paure di mio padre, perché mi aveva convinto che ci avrebbero protetti. Dopo la morte di mia madre, ho avuto sempre meno fiducia in lui, fino alla fine, quando non ho provato più nulla. Ho detto a Tom che io appendo dei pigliamosche gialli ricoperti di veleno appiccicoso su cui si posano, e li brucio una volta che sono completamente ricoperti dalle piccole creature.

Sì, è un’idea, disse Tom.

Sono una seccatura quando stai cercando di dormire, ho detto.

Non me lo dire, ha detto. Aspetta di sentire il frastuono. E mi ha fatto cenno di uscire dalla porta principale (cosa che non mi è piaciuta, perché ero entrata dal retro e mi stava portando fortuna). Altre mosche brulicavano sul davanzale della finestra. M’impediscono di dormire, ha detto. L’idea che non riuscisse a dormire mi ha fatto arrabbiare e ho sollevato la mano, l’ho chiusa e ho battuto forte su un mucchio di mosche, e poi ancora e poi di nuovo, finché quelle morte non mi si attaccavano al pugno.

Sono tornata dentro e mi sono lavata le mani al lavandino sotto l’acqua calda, strofinando con il sapone alla citronella. Tom era accanto a me e parlava di una nuova libreria che sarebbe arrivata di lì a poco da un costoso negozio di mobili di Cork, mentre le mosche scendevano nello scarico di rame. La casa era piena di libri, ma non quanto la mia. Erano disposti per colore e sistemati ordinatamente. Tokarczuk, e Berlin, Plath, Woolf, e anche Austen, o Austen me lo sono immaginato?

In macchina armeggiava con i finestrini mentre io mi mettevo gli occhiali da sole. In città c’era molto traffico. Ho lasciato uscire un camion da una strada laterale vicino al mercato del pesce, e Tom si è spazientito e ha dato un pugno sul vano portaoggetti.

Quando siamo arrivati al mare, il sole era tra­montato.

Ladies Beach è la migliore, ha detto.

Ero d’accordo. Mi piace, perché a Blackrock nuotare vicino al trampolino da dove le persone si tuffano in acqua mi fa paura. Non posso più tuffarmi da quando ho fatto il trapianto osseo sul viso, perché se m’immergo l’osso potrebbe frantumarsi con la pressione. Ho detto che ci saremmo cambiati nello spogliatoio, che è vecchio e nello stile delle città balneari inglesi.

Tom indossava una muta e due cuffie blu. Abbiamo deciso di non usare le scarpette da bagno. Ho detto che mi piaceva entrare in mare di corsa, cosa che abbiamo fatto, e l’acqua era gelida. Ho nuotato un po’ a rana con la testa fuori dall’acqua mentre Tom parlava di Sarah. Nel mare freddo era tutto Sarah questo e Sarah quello, e come Sarah era così buona con lui quando era via per un po’, gestiva anche il suo telefono perché non gli era permesso usarlo nelle prime settimane del programma, il che ha cominciato a farmi infuriare, perché non potevo sopportare di pensare che qualcun altro si prendesse cura di lui durante la convalescenza, anche se era sua sorella. Mi sono allontanata a nuoto e lui mi ha seguito. Era veloce quanto me e continuava a parlare. Ho immerso la testa nell’acqua e la pressione mi ha fatto male alle ossa del viso, le sentivo pulsare. Sott’acqua era molto torbido, perché la marea stava salendo e sotto di me c’erano tantissime alghe. Ha nuotato velocemente verso le rocce: la bruciatura di una medusa non poteva essere peggio che ascoltarlo parlare di sua madre, di come si era riappacificato con tutto e di quanto Sarah lo avesse aiutato a capire che sua madre in fondo era stata una vittima. Mi stavo innervosendo e il mio viso arrossiva nonostante il freddo. Forse l’ha capito, perché si è mosso in un’altra direzione. Avrei dovuto essere io la persona a cui affidava il suo telefono. La sua guarigione. Gli avrei detto che sua madre non era una vittima, era volgare e arrogante e manipolatrice. Mi sono stretta le cosce con le mani, poi ho fatto qualche respiro profondo prima di tuffarmi sott’acqua, dove avrei voluto evaporare, e forse avrei potuto lasciarlo lì al freddo: ora aveva abbastanza gente intorno, poteva fare a meno di me.

Non c’era campanello e siccome non avevo voglia di bussare mi sono fermata sul portico e ho aspettato, ma sarebbe stato meglio, l’ho capito in quel momento, voltarmi e andarmene

Ci siamo asciugati in silenzio. Sono rimasta sorpresa di quanto fosse attento a coprirsi con il suo piccolo asciugamano da campeggio. Io non ho remore sul mio corpo e mi sono asciugata rapidamente. Ma era come se non avessi mai visto il suo corpo, il modo in cui lo nascondeva, come se non mi ricordassi che effetto mi faceva.

Avevamo deciso di andare a pranzo, ma ho cambiato idea. Stava piegando le sue cose, ha scosso il piccolo asciugamano, lo ha arrotolato ordinatamente e lo ha messo nello zaino.

Beviamo qualcosa? ha detto.

No, no, non dovevamo comprare le trote?

Ah, giusto, ha detto, sì, il pesce. Mi ero dimenticato che Joanna veniva a cena.

E all’improvviso ha parlato solo della cena e di Joanna. Non era un’amica.

Ci sarebbero stati i piselli, ho pensato, e probabilmente quel cavolo di Chablis.

Ho rovistato nello zaino alla ricerca di qualcosa che mi attenuasse il rossore e ho trovato un rossetto nella tasca del mio giubbetto imbottito. Avevo le labbra salate e ruvide e la gola secca. Sembravo una prugna. Ho sollevato il telefono per controllare il mio viso e ho svitato il rossetto, applicandolo prima sul labbro inferiore. Ho passato la lingua sulle labbra un certo numero di volte. Ero tutta lentiggini marroni, rughe secche intorno agli occhi e labbra rosso vivo e squamose.

Che fai? ha detto guardandomi.

Gli ho lanciato un’occhiata e mi sono leccata l’indice per lisciarmi le sopracciglia, lentamente. Le mie trecce erano ancora al loro posto, ho chiuso la cerniera della felpa con il cappuccio fino al piccolo fiore al centro del reggiseno, e ho detto: Ok, beviamo.

Ho scelto io il pub.

Questo è meglio della nuotata, ha detto.

È stata una tua idea, ho detto io, infilando il rossetto e le chiavi nelle coppe del reggiseno. Mi sono seduta accanto al fuoco. Alcuni uomini al bar si lamentavano: i social network, il traffico.

Cosa prendi? mi ha chiesto.

Ho incrociato le gambe e ho piegato la testa di lato. Scegli tu.

Sei sicura che vuoi bere, visto che devi guidare?

Ho preso in mano l’olio e mi sono seduta sul bordo della vasca, i piedi sullo sgabello, ho aperto la bottiglia, ci ho immerso il dito e me lo sono portato alle labbra: sapeva di acqua di rose. Mi sono calmata. Alla fine, sono uscita e dal corridoio ho visto Tom in piedi in camera da letto, senza maglietta, in jeans, senza scarpe

Certo, ho detto. Solo un bicchiere.

Tornando con una pinta di birra e un bicchiere di vino, ha detto: Non sono sicuro che ti piacerà il vino del pub.

Il vino era amaro e l’ho bevuto in fretta.

Dovremmo farlo regolarmente, ha detto.

Regolarmente?

Sì, tipo una volta al mese o giù di lì. Resterò qui per un po’. Ho bisogno di più tempo per…, ha detto Tom incrociando le braccia.

Lo so, ho detto io.

Sarah ancora… mi chiama.

Sul serio?

Sì, ho risposto.

Aveva preso un pezzetto di pelle dal pollice e lo stava mordicchiando. Ahia, cazzo, ha detto, il sale.

Il mercato chiude verso le tre.

Sì, meglio andare.

Giusto, ha detto, e si è chinato verso di me. Guarda, cazzo… vorrei cercare di spiegarti… non ero completamente me stesso quando tu…

No, ho detto, in fretta. Non torniamoci sopra. È stato tanto tempo fa.

Pierluigi Longo

Tom, non posso… non ora, non quando siamo appena usciti dal mare. Non… io non discuto dopo l’acqua.

Giusto, ha detto. Ma ho la sensazione, soprattutto a proposito di quella volta in cui hai cercato di parlarmi, che forse…

Smettila, ho detto, per favore. Ora ero certa che non volevo più parlarne. Avevo cercato di ricostruirmi ed era troppo facile immaginarlo in piedi davanti al mio frigorifero o sdraiato sul mio letto.

Sento che tu…

Cazzo, ho detto sottovoce, e poi ho gridato, ho detto no, no.

Gli uomini al bar hanno smesso di parlare e si sono voltati a guardare. Non avevo mai urlato con Tom.

Lui ha continuato. Ma io… volevo solo dire che sono felice per te. Ci vuole coraggio per ricominciare.

Che ne sai tu del coraggio? ho detto. Chiuso in casa di Joanna con solo una pianta a cui badare…

E poi mi sono fermata.

Durante il viaggio da Salthill a Galway siamo rimasti in silenzio, poi al mercato del pesce gli ho presentato il mio amico pescivendolo. Non c’erano più trote, ma c’era una rana pescatrice intera, e Tom avrebbe dovuto sventrarla. Il mio amico l’ha pesata e ha messo quel corpo grasso in un sacchetto di plastica mentre chiacchierava con noi, poi l’ha messa in una doppia busta e Tom e io siamo tornati alla macchina con la rana pescatrice che gli dondolava sul braccio. Hai bisogno di vino? gli ho chiesto.

Ma lui ha detto: Ti piace tanto il mare?

Sì, ho detto, non posso starne lontana.

Pensi che fosse anche questo che non andava?

Che vuoi dire? ho chiesto.

A Londra, eri così…

Così come?

Gli avrei detto che sua madre non era una vittima, era volgare e arrogante e manipolatrice. Mi sono stretta le cosce con le mani, poi ho fatto qualche respiro profondo prima di tuffarmi sott’acqua, dove avrei voluto evaporare, e forse avrei potuto lasciarlo lì al freddo: ora aveva abbastanza gente intorno, poteva fare a meno di me

Non è vero… non ero triste, Tom.

Ma piangevi tutto il tempo, cazzo.

Avrei voluto dirgli che era lui che mi faceva piangere, Tom il disimpegnato, stava fuori tutta la notte, una volta era stato via un’intera settimana. Tutte le notti da sola, non si fermava quasi mai, e io che mi incazzavo per non sentirmi sola… almeno penso che mi sentissi sola. Ma credo di essere sempre stata sola. Avrei voluto piangere anche in quel momento, in macchina, invece mi sono messa a ridere. E ho riso così forte che non ho visto il segnale di stop all’angolo vicino a Blake’s, e ho attraversato l’incrocio senza fermarmi. Stava cominciando a piovere e ho messo in funzione i tergicristalli. Si sono accese le luci di una stazione di servizio.

Vino? ho detto ancora ridendo.

Dietro una vetrina c’era una ragazza alla cassa che leggeva un libro. I fanali posteriori dell’auto davanti a noi hanno lampeggiato. Tom ha puntato i piedi sul sacchetto del pesce.

Ho sempre pensato, sai, quando ero giovane, ho detto, che volevo una persona.

Una persona?

Non era una questione… di romanticismo, ho detto, accelerando. O di filosofia di vita. Volevo solo una persona. Ci ho pensato di recente. Volevo solo te, Tom. Non una famiglia, o un mucchio di amici, sai?

Poi siamo rimasti in silenzio. Sono uscita dalla città e ho preso le strade di campagna in direzione est, stava calando il crepuscolo. Tom ha strusciato i piedi un paio di volte, sopra il pesce, e ha emesso qualche leggero sospiro. Mi faceva male il petto.

Devo girare qui?, ho detto.

Siamo passati sotto la ferrovia?, mi ha chiesto guardando fuori dal finestrino.

Sì, allora è qui.

Lungo la strada fangosa ho rallentato. Mi ricordavo di quell’angolo. C’eravamo quasi. Presto avrebbe acceso le candele e apparecchiato la tavola. La mattina si sarebbe svegliato e Joanna gli avrebbe portato il caffè, il giornale, se stessa. Ma lui avrebbe avuto la solita nevrosi mattutina. Lo stesso sforzo per ritrovare se stesso, ogni giorno. Le stesse doppie cuffie come quando andava a nuotare. Uguale uguale.

Mi manchi, ha detto mentre mi fermavo davanti alla casa.

Smettila, ho detto, con decisione, mentre spegnevo il motore.

È per questo che sono qui.

Non è vero.

Ti sbagli, ha detto. Mi sei mancata, mi manchi.

No, ho detto, ti manca avere qualcuno intorno. Che accetta, accetta tutto, e io non posso… sai, tutte le altre, era troppo difficile, cazzo. Volevo dire che era troppo difficile condividerlo, ma sapevo che mi avrebbe accusato della stessa cosa. Mi fissava e a me girava la testa pensando al pesce morto sotto il suo piede.

Ho bisogno di… posso andare in bagno? ho chiesto.

Ha riso e mi ha baciato sulla guancia, dicendo: Vedi, ti sono mancato.

Una volta dentro, sono salita al piano di sopra, dove c’erano altre file di libri e una bottiglia di costoso olio da bagno su uno sgabello vicino alla vasca. Due accappatoi bianchi erano appesi dietro la porta come due figure, in attesa. Cazzo. Il mio petto. Ho preso in mano l’olio e mi sono seduta sul bordo della vasca, i piedi sullo sgabello, ho aperto la bottiglia, ci ho immerso il dito e me lo sono portato alle labbra: sapeva di acqua di rose. Mi sono calmata. Alla fine, sono uscita e dal corridoio ho visto Tom in piedi in camera da letto, senza maglietta, in jeans, senza scarpe. Stava chiudendo le tende scure. Forse c’era una candela accesa. La stanza era buia e invitante e ho aspettato un minuto, ma lui non si è voltato, sono sgattaiolata giù per le scale e sono tornata in cucina per cercare le mie chiavi, lo sentivo sopra di me, le molle del letto mentre si sdraiava e mi chiamava. Era la prima volta che gli sentivo pronunciare il mio nome da anni. Mi sono leccata l’acqua di rose sulle labbra e ho fatto un respiro profondo. Dovevo andarmene, e me ne sono andata di soppiatto, incerta, dopo aver trovato le chiavi, da quale porta uscire. E lei era lì, a fissarmi, la grande pianta, mi ci sono inginocchiata accanto sulle piastrelle fredde. Ho allungato la mano e l’ho toccata, ho tenuto una delle sue foglie spesse nel palmo della mano, seguendo con il dito le venature. Quanto tempo ci sarà voluto per far crescere una foglia così magnifica? Ho afferrato la pianta e ho strappato la foglia dal fusto. Poi un’altra, la più lucida e la più maestosa. Mi sono alzata e ho infilato le enormi foglie nelle coppe del reggiseno, le sentivo fresche e lucide contro il mio seno. Ora la pianta sembrava calva.

Tom mi ha chiamato di nuovo mentre attraversavo il corridoio, le foglie fredde mi indurivano i capezzoli

Tom stava gridando il mio nome mentre scivolavo fuori.

Fuori, c’erano due federe bianche sullo stendibiancheria del contadino e le mosche ronzavano ancora. Ho fatto marcia indietro sulla strada mentre Tom correva verso l’auto, senza scarpe in jeans. Sembrava minuscolo e fuori posto nello specchietto retrovisore. Oppure no, non è vero, forse ho solo pensato che stesse correndo. Volevo tanto che lo facesse. Nello specchietto ora c’erano solo le federe del contadino nel crepuscolo, due palle bianche impazzite gonfiate dal vento. ◆

Elaine Feeney è una scrittrice e poeta cresciuta nella contea di Galway. Tra i suoi libri è stato pubblicato in italiano Come costruire una barca (Einaudi 2024). Questo racconto è uscito sulla Paris Review con il titolo Same, same . Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati