La richiesta di mandati d’arresto in relazione alla situazione in Palestina fatta il 20 maggio dal procuratore della Corte penale internazionale è un passo epocale. Il merito, però, non è del procuratore, Karim Khan. È evidente che Khan ha temporeggiato per anni, sperando semplicemente che il caso sparisse dalla sua vista. Ma due fattori l’hanno costretto ad agire.

Innanzitutto la sua decisione d’incriminare due alti ufficiali russi per la guerra in Ucraina, nonostante si fosse impegnato a perseguire solo casi presentati al suo ufficio dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, trascurando il resto, in particolare i dossier sull’Afghanistan e sulla Palestina. Dopo aver infranto questo proposito, era impossibile continuare a ignorare i palestinesi.

In secondo luogo non poteva più fare finta di nulla davanti allo sdegno globale contro la sua inerzia. Anche se avrebbe sicuramente preferito assecondare le politiche di Stati Uniti, Regno Unito e Israele – i principali sostenitori della sua nomina a procuratore della Cpi – questa posizione era ormai insostenibile.

Visione ristretta

Secondo Khan, il suo ufficio ha indagato sulla situazione in Palestina dall’inizio del 2021, prendendo in considerazione tutte le violazioni dello statuto di Roma dal 2014. Ma nel suo dossier la storia comincia il 7 ottobre 2023. Le sue richieste ignorano completamente le questioni che non sono direttamente collegate all’attuale guerra a Gaza. Niente sull’apartheid (un crimine contro l’umanità), sugli insediamenti illegali (un crimine di guerra), sui precedenti massacri d’Israele nella Striscia o sugli attacchi sistematici contro i manifestanti in occasione della grande marcia del ritorno del 2018.

Continuando a muoversi come un politico, sempre attento a chi l’ha fatto eleggere, Khan ha incriminato tre leader di Hamas e due d’Israele. Anche questa scelta solleva delle domande: perché ha chiesto un mandato d’arresto per il capo dell’ufficio politico di Hamas che, secondo le informazioni disponibili, non era stato coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione degli attacchi del 7 ottobre, e non per il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha esplicitamente definito i civili palestinesi degli obiettivi militari legittimi?

Perché non ha proposto di arrestare il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano e gli alti ufficiali direttamente responsabili dei crimini prima elencati? Perché ha ignorato il crimine di genocidio, indicato esplicitamente nello statuto di Roma?

Sembra incontestabile che Khan stia facendo ancora una volta politica. Il problema è che il suo tentativo d’ingraziarsi Washington non gli servirà. Il procuratore ha violato il principio sacrosanto dell’impunità d’Israele e per questo subisce già gli attacchi di tutte le forze politiche statunitensi. Washington farà di tutto per assicurarsi che solo Khan e Hamas siano chiamati a rispondere del loro operato.

Nonostante i difetti nella condotta del procuratore, i mandati d’arresto sono comunque un evento dal significato enorme. Dopo l’accusa di genocidio di fronte alla Corte internazionale di giustizia (Cig), ora Israele non può più rivendicare il suo eccezionalismo, ma sarà giudicato sul piano giuridico e su quello politico alla luce delle sue azioni, e non attraverso il prisma della storia europea del novecento. ◆ gim

Mouin Rabbani è un esperto di Medio Oriente d’origine palestinese, nato nei Paesi Bassi. È il condirettore del sito Jadaliyya.

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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati