La sua vittoria era prevista; il tasso di astensione – frutto dell’apatia o di un boicottaggio calcolato – anche. Il 18 giugno l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, vicino alla guida suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha vinto con il 62 per cento dei voti un’elezione presidenziale amputata del suo carattere competitivo. Un successo a metà, emerso da uno scrutinio segnato dall’affluenza più bassa dalla proclamazione della Repubblica islamica nel 1979: appena il 48,8 per cento.
Prendendo il posto di Hassan Rohani, Raisi contribuisce a consolidare il dominio dell’ala intransigente del regime su tutti i centri di potere. I conservatori, che già controllano le istituzioni non elette, oggi sono in posizione di forza anche negli organismi che hanno una certa legittimità elettorale. Avevano già vinto le elezioni del febbraio 2020 per il rinnovo del parlamento e dell’assemblea degli esperti, e ora anche la presidenza è nelle loro mani. Dal punto di vista della guida suprema, che ha 82 anni ed è il vero detentore dell’autorità decisionale, sembra tutto pronto per preparare la sua successione senza intoppi. In questo paesaggio politico e istituzionale monocromatico, i campi cosiddetti “moderato” e “riformista”, ricchi di correnti diverse, sono assenti o quasi, come se fossero crollati sotto il peso di una doppia sfida, che dipende in parte da fattori esterni, in parte dai loro errori.
La politica di massima pressione contro Teheran avviata in seguito al ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare nel 2018 ha screditato la gestione del centrista Hassan Rohani. Dopo essere riuscito a mobilitare le masse nel 2013 e nel 2017, promettendo la fine dell’isolamento economico e diplomatico dell’Iran e maggiori libertà individuali, Rohani si è ritrovato sotto il fuoco delle critiche dei conservatori e degli oltranzisti che gli rimproveravano il fallimento della sua politica di apertura all’occidente.
Il ripristino e l’inasprimento delle sanzioni statunitensi, che hanno devastato un’economia già in pessime condizioni, e la marginalizzazione delle figure politiche moderate o riformiste da parte del Consiglio dei guardiani hanno dissuaso molti iraniani dal recarsi alle urne. A questo si è aggiunta la paura del contagio, nel paese del Medio Oriente più colpito dal covid-19. Ma la sfiducia degli elettori è anche il risultato dell’incapacità dei moderati di dare vita ad azioni concrete e mostrarsi come agenti di cambiamento.
Divario crescente
Il secondo mandato di Hassan Rohani è stato caratterizzato da due grandi rivolte popolari, una nel 2017-2018 e l’altra alla fine del 2019, represse brutalmente dalle autorità al riparo da sguardi indiscreti, dato che Teheran aveva bloccato internet. “Rohani non è mai stato un riformista, è un moderato. In assenza di una figura rappresentativa del loro campo, i riformisti hanno comunque deciso di sostenerlo dal 2013. Ma lui non ha mantenuto le promesse di riforme interne”, osserva Reza H. Akbari, dottorando in storia moderna del Medio Oriente all’American university di Washington. “I riformisti non hanno reagito in modo compatto agli errori di Rohani e si sono allontanati ancora di più dalla politica che si organizza nelle piazze”.
Per questo nella mente di gran parte degli iraniani si è formata l’idea che tra intransigenti e riformisti non ci siano differenze. Tanto più che i riformisti sembrano in crisi, incapaci di definire la loro identità politica e dilaniati dalle divisioni tra chi vuole un riavvicinamento con i conservatori meno radicali e chi si aggrappa ai vecchi ideali. Il risultato è che non sono riusciti a far emergere una nuova generazione di leader politici.
I tempi del movimento riformista trionfante, simboleggiati dalla spettacolare vittoria di Mohammad Khatami nel 1997, sembrano lontani. Prendendo forza da una solida base popolare, Khatami era riuscito a produrre un rinnovamento nel discorso pubblico anche grazie a una stampa che dava spazio a nuovi concetti, come quelli di “società civile”, “dialogo” e “cittadinanza”. Di questo entusiasmo oggi non resta granché. Secondo Akbari bisogna distinguere tra l’idea di riforma e i riformisti: “L’idea di riforma risale addirittura alla rivoluzione costituzionale del 1906. I riformisti in quanto campo politico sono essenzialmente un mezzo attraverso il quale i cittadini comunicano le loro rivendicazioni agli organismi dello stato. Se gli iraniani non hanno più fiducia in loro, troveranno altri modi per fare pressione sulle autorità”. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati