Dopo i Luxleaks nel 2014, i Panama papers nel 2016 e i Paradise papers nel 2017, le rivelazioni contenute nell’inchiesta sui Pandora papers – dodici milioni di documenti sui patrimoni finanziari nei paradisi fiscali – mostrano fino a che punto i ricchi continuano a sfuggire alle tasse.
Anche se spesso si dice il contrario, negli ultimi dieci anni la situazione è molto peggiorata. Prima dell’estate il sito ProPublica aveva rivelato che i miliardari statunitensi non pagano praticamente alcuna tassa in confronto alla loro ricchezza e rispetto a quello che versa il resto della popolazione. Secondo la rivista Challenges, dal 2010 al 2020 i cinquecento principali patrimoni francesi sono passati da 210 miliardi di euro a più di 730 miliardi, e tutto lascia credere che i proprietari abbiano pagato poche tasse. Dobbiamo accontentarci di aspettare le prossime inchieste sui paradisi fiscali? O forse è arrivato il momento che i mezzi d’informazione e i cittadini facciano pressione sui governi per risolvere davvero la questione?
L’inchiesta sui Pandora papers, che ha rivelato nuovi patrimoni finanziari nascosti nei paradisi fiscali, mostra fino a che punto i ricchi continuino a sfuggire alle tasse
Il problema di fondo è che oggi continuiamo a tassare i patrimoni solo in base alle proprietà immobiliari, ricorrendo a metodi e a catasti creati all’inizio del novecento. Se non cambiamo strategia, gli scandali continueranno, con il rischio di un lento sgretolarsi del nostro patto sociale e l’ascesa inesorabile della logica “ognuno per sé”. Il punto è che la registrazione e la tassazione dei patrimoni sono sempre state legate. Innanzitutto perché il fatto di registrare una proprietà dà un vantaggio a chi la possiede (la protezione del sistema legale), e poi perché solo un’imposta minima permette di rendere questa registrazione obbligatoria e sistematica. Inoltre il possesso di un patrimonio indica quante tasse può pagare una persona, il che spiega perché la tassazione del patrimonio ha sempre svolto un ruolo centrale nei sistemi fiscali moderni.
Istituendo un catasto centralizzato per tutti i beni immobiliari – sia per le abitazioni sia per terreni agricoli, negozi, fabbriche e altri beni legati ad attività lavorative – la rivoluzione francese aveva creato un sistema d’imposte fondato sulle transazioni (le imposte di registro ancora oggi in vigore) e soprattutto sulla proprietà (l’imposta patrimoniale). In Francia, come negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi ricchi, l’imposta patrimoniale, o il suo equivalente anglosassone, la property tax, rappresenta la principale tassa sul patrimonio (in Francia vale circa il 2 per cento del pil, all’incirca quaranta miliardi di euro di gettito all’anno). Al contrario l’assenza di un sistema di registrazione e tassazione spiega la crescita del settore informale in molti paesi del sud del mondo. Il problema è che questo sistema non è mai cambiato in due secoli, nonostante le rendite finanziarie siano cresciute a dismisura.
Il risultato è un sistema molto ingiusto e disuguale. Una persona che possiede un’abitazione o un bene del valore di trecentomila euro, e che sia anche indebitata per 290mila euro, pagherà la stessa imposta patrimoniale di una che ha ereditato un bene dello stesso valore ma possiede un portafoglio finanziario di tre milioni di euro. Nessun principio economico può giustificare un sistema fiscale così regressivo (cioè in cui, in proporzione, sui piccoli patrimoni si pagano tasse più alte rispetto a quelle versate sui grandi patrimoni). Per non parlare del fatto che si parte dal principio che sarebbe impossibile registrare i patrimoni finanziari.
In realtà non si tratta di una difficoltà tecnica, ma di una scelta politica: si è deciso di privatizzare la registrazione dei titoli finanziari e di permettere la libera circolazione dei capitali garantita dagli stati, senza alcun coordinamento fiscale preliminare. I Pandora papers ci ricordano che i più fortunati riescono a evitare le tasse sui loro beni immobiliari trasformandoli in titoli finanziari offshore, come dimostra il caso di Tony Blair e sua moglie e della loro casa da sette milioni di euro a Londra (su cui hanno evitato 400mila euro di tasse sul passaggio di proprietà) o quello delle ville in Costa Azzura possedute tramite una società di copertura dal primo ministro ceco Andrej Babiš.
Che fare? La priorità dovrebbe essere istituire un catasto finanziario pubblico e un’imposta minima su tutti i patrimoni, anche solo per ottenere informazioni obiettive su di loro. Ogni paese può farlo da subito, esigendo da tutte le aziende che possiedono o sfruttano dei beni sul suo territorio di rivelare l’identità di chi li possiede e tassarli di conseguenza, in piena trasparenza e come succede ai contribuenti ordinari, né più né meno.
Rinunciando a ogni ambizione di sovranità fiscale e giustizia sociale, non si fa altro che incoraggiare il separatismo dei più ricchi. È arrivato il momento di agire. ◆ ff
Thomas Piketty è un economista francese. È professore all’École des hautes études en sciences sociales e all’École d’économie de Paris. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Capitale e ideologia (La nave di Teseo 2020). Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1431 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati