Al campus trovo una consulente. Ascolta, aiuta, mi dice che se voglio voltare pagina avrò bisogno di una diagnosi – è così che funziona il sistema – ma non può essere lei a farmela, dovrò vedere qualcun altro e c’è una lista d’attesa. Mentre me ne sto seduto nel suo ufficio giallino mi fa una domanda. Mi chiede: può essere sincera con me per un momento? Secondo lei io non ho una malattia: non serve una diagnosi, è solo che alcune persone sono fatte così. Questo pensa lei, e anch’io. O almeno pensavo.

Ora le cose vanno molto peggio.

Angelo Monne

C’è davvero qualcosa che non va in me.

Vado in un ambulatorio di salute mentale per una valutazione. Per novanta minuti me ne sto seduto in una stanza con una psicologa e rispondo a domande sulla mia infanzia e sul mio corpo. Fa male dirlo a parole ma voglio che mi credano perciò cerco di essere credibile. Costringo la mia voce ad abbassarsi finché non mi fa male la gola. Il rapporto dice che il mio è un reale caso. Mandano una lettera al servizio specialistico di Dublino e nel giro di una settimana il servizio mi risponde con un’altra lettera. Il mio numero sulla lista d’attesa è scritto nella lettera. 232. Non so cosa significhi o quanto ci vorrà prima che mi vedano, ma ora sono sulla lista, sto facendo passi avanti, non dovrebbe volerci molto. Mi chiameranno, mi manderanno un’altra lettera quando sarà il momento? Non posso muovermi né cambiare numero di telefono, cosa succederebbe se dovessi perderla?

È un martedì. Ci troviamo tutti in piedi nella loro cucina, e glielo dico. Mi abbracciano e mi dicono che sono amato e che mi vogliono bene. Che andrà tutto bene. Solo che non ci credo

Per tutto questo tempo non ho detto nulla ai miei genitori. Volevo cavarmela da solo perché così nessuno si sarebbe dovuto preoccupare, e nessuno deve più preoccuparsi. Sono sulla lista, il mio turno sta arrivando. Posso cominciare a dirlo.

È un martedì. Stiamo tutti in piedi nella loro cucina, e glielo dico. Le parole non escono come avrei voluto e loro potrebbero reagire in molti modi diversi, ma subito scelgono il migliore. Mi abbracciano e mi dicono che sono amato e che mi vogliono bene. Che andrà tutto bene. Solo che non ci credo.

Per tutta la vita mio padre ha sempre avuto la risposta a tutte le domande che gli ho fatto, ma ora mi sta dicendo che non sa cosa dovremmo fare. È come il mio primo giorno di scuola, quando mia madre sapeva che avrei pianto e mi accarezzava la schiena per rassicurarmi, ma stavolta si tratta di lei, ora è lei che sta piangendo e cerca di non farmelo vedere, e io detesto vederla piangere. Detesto il fatto di essere io la causa. Voglio che le cose vadano meglio. Posso farlo, lo farò, farò andare meglio le cose, posso accelerare l’intero processo. Possiamo saltare direttamente alla fine. Questa parte è quella difficile, ma non durerà molto. Presto, quando mi vedranno e non sarò più su una lista d’attesa, sembrerò reale, come gli altri uomini, nemmeno ve ne accorgerete. Io stesso non lo dirò a nessuno. Lo prometto. Sarò forte, non mi lamenterò.

Scelgo un nome. Lo scelgo velocemente. Non m’importa molto in realtà, non ci penso su più di tanto, anche se per mesi di notte ho passato in rassegna infinite opzioni, ne scelgo uno e basta, uno da poter usare e offrire alle persone.

Vedete com’è tutto veloce e facile? Vedete com’è semplice? E loro ci provano a usarlo, mia mamma e mio papà, ci provano davvero. Il giorno del mio compleanno, il primo dopo che gliel’ho detto, vado a trovarli e lei, mia mamma, ha comprato una torta, una torta al cioccolato, come faceva quando ero piccolo, e ci ha scritto su il mio nome, il nome che gli ho detto io, le lettere tracciate con glassa bianca sulla superficie e loro la cantano, la canzone di buon compleanno, e fanno tutto questo per me, per cercare di farmi stare un po’ meglio, e io li amo, e gli sono grato, ma odio il fatto di poter vedere con chiarezza quanto si stiano sforzando, come esitino le loro voci quando il mio nuovo nome spezza goffamente il ritmo e posso vederla, se guardo da vicino, la glassa sulla torta malferma e frammentata, come se abbia scritto il nome con la mano tremante, e probabilmente lo ha fatto, deve averlo fatto, lo so, lo so che lo odiano, il nome che ho scelto, lo odio anche io, non ha cambiato niente, non è cambiato niente, niente va più in fretta, tutti continuano a scivolare, è il mio aspetto, lo so, non sembro abbastanza virile, è la mia voce, la mia stupida voce, e io sono ancora in attesa – devo solo attendere ancora un po’ – ma il mio nuovo nome non sta sistemando un bel niente. Niente di tutto questo sta funzionando.

Lo so, lo so che lo odiano, il nome che ho scelto, lo odio anche io, non ha cambiato niente, non è cambiato niente, niente va più in fretta, tutti continuano a scivolare, è il mio aspetto, lo so, non sembro abbastanza virile

Poi mio padre mi chiede se posso cambiarlo, se posso cambiare nome ancora una volta. Ci stanno provando, ma per loro è molto difficile abituarsi, in realtà per loro è tutto molto difficile, non è facile, è un adattamento enorme, e io lo capisco, insomma, certo che è difficile per loro, ma sono io quello che ci sta in mezzo, sono io quello che sta affrontando questa merda e che lo ha fatto per tanto tempo, da solo. Ora non è il momento.

Non m’importa quello che provano. Non m’importa dei miei genitori. Li odio. Li odio per avermi dato il nome che mi hanno dato. Sono stati loro a farmi questo. Come hanno potuto? Come hanno potuto darmi questo nome speciale e pensare che la loro bambina sarebbe stata diversa? Io ero diverso. Avrebbero potuto accennare qualcosa prima, quando ero più piccolo, ma nessuno me lo ha detto, nessuno mi ha detto niente. Perché nessuno me l’ha detto? Lo sapevano, devono averlo saputo, che un giorno avrei dovuto disimparare il mio modo di essere eppure hanno lasciato fare – hanno lasciato che fossi una piccola maschiaccia – sapevano che sarebbe successo e me l’hanno lasciato fare lo stesso. E ora eccomi qui, non sono pronto. Non hanno fatto in modo che fossi pronto. Si sono limitati a lasciarmi essere me stesso e a volermi bene. Come potevano volermi bene? Se sono così? Come può volermi bene qualcuno?

Mi odio, odio il mio corpo, chi sono, la mia voce, il mio aspetto, il mio petto, soprattutto il mio petto, non voglio vederlo, ma quando mi vesto non posso evitarlo. Ogni giorno devo affrontarlo, non posso cambiare le cose, in questo paese non ci sono chirurghi disposti a farlo, perciò me ne dovrò andare, dovrò trovare un altro posto e vorrei proprio tagliarmi da solo la pelle, voglio tagliarmi, inizio a farlo e lo sento ma non lo sento affatto, non sento niente, sto cadendo e non c’è niente a cui aggrapparmi. Non ho nemmeno un nome. ◆

William Keohane è nato a Limerick, scrive prosa e poesie. I suoi lavori sono usciti su The Stinging Fly, GQ, Banshee e The Tangerine. È il fondatore della Trans Limerick community. Questo racconto è un estratto dal suo libro Son, pubblicato dall’editore indipendente The Lifeboat Press. La traduzione è di Giusy Muzzopappa.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati