Afghanistan
Ho trascorso altri inverni in Afghanistan in passato. Sono notoriamente rigidi. Ma quello in corso è particolarmente brutale: il più freddo degli ultimi dieci anni. Alcune notti nella capitale Kabul la temperatura scende venti gradi sottozero. L’elettricità è spesso intermittente se non del tutto assente. Più di 160 persone sono morte di ipotermia, altre per aver inalato le esalazioni tossiche delle stufe a gas. Questo numero potrebbe tuttavia essere molto più alto. A dirlo sono le autorità taliban, che dichiarano di non poter fornire un quadro completo perché molte comunità vivono in aree montuose e remote.
Per quaranta milioni di afgani è il secondo inverno sotto il regime dei taliban e stanno facendo i conti con cosa significa vivere in uno stato isolato dal resto del mondo.
Negli ultimi mesi alle donne sono state imposte nuove restrizioni. Tra queste, il divieto di lavorare per le organizzazioni umanitarie internazionali. Secondo le Nazioni Unite, con 28 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti, di cui sei rischiano di morire di fame, un simile provvedimento mette in pericolo l’efficacia delle operazioni umanitarie nel paese. La comunità internazionale si trova davanti a un dilemma: come difendere i diritti delle donne continuando a lavorare in Afghanistan?
Il professore virale
In una fredda mattina di Kabul sono andata a trovare Ismail Mashal, un docente universitario. Trentasette anni, il fisico slanciato e ben vestito, è stato costretto a chiudere la sua facoltà a dicembre, dopo che i taliban hanno vietato alle donne di avere un’istruzione. Mashal è diventato famoso sui social network: in un video ha strappato in diretta tv i suoi titoli accademici sostenendo che nell’Afghanistan di oggi non hanno alcun valore. Mi ha detto che gli uomini devono battersi per i diritti delle donne afgane e che lui voleva organizzare delle manifestazioni: “So che quello che sto facendo è rischioso. Ogni mattina saluto mia madre e mia moglie e gli dico che potrei non tornare. Ma sono disposto a sacrificare la vita per quella di venti milioni di donne e bambine afgane, per il futuro delle mie due figlie. L’unico potere che ho è la mia penna”, prosegue. “Anche se mi uccidono, anche se mi fanno a pezzi, non riusciranno a farmi tacere”.
Il 3 febbraio si è diffusa la notizia dell’arresto di Mashal. Da allora nessuno ha avuto più sue notizie. Nessuno sa quando sarà rilasciato.
Lezioni segrete
Dopo il ritorno al potere nell’agosto 2021, i taliban hanno stabilito che le ragazze di età superiore ai dodici anni non potevano tornare in classe fino a nuovo ordine. Molte di loro avevano sentito raccontare dalle madri, vissute sotto il regime dei taliban negli anni novanta, le storie delle scuole segrete che avevano dovuto frequentare per farsi un’istruzione. Il paese ha trascorso vent’anni sotto la sorveglianza della comunità internazionale, ma questa generazione di ragazze si ritrova nella stessa situazione.
Sono andata a incontrare alcune studenti e la loro insegnante in una di queste scuole segrete.
Studiano, mi hanno detto, per prepararsi a un futuro che oggi è più incerto che mai. “Ci addolora moltissimo il fatto che i taliban non ci permettono di tornare a scuola. È una decisione contraria all’islam, illegale”, mi ha detto una studente di quindici anni. “Perché i ragazzi possono imparare e le ragazze no?”.
Di recente la repressione contro chi difende i diritti delle donne si è intensificata, e gestire scuole segrete è molto pericoloso. Se le insegnanti fossero scoperte, potrebbero essere arrestate. Una donna che dirige una scuola mi ha detto di essere disposta a correre il rischio: “Non voglio che le studenti dimentichino cosa vuol dire studiare e andare a scuola”. I taliban continuano a sostenere che il divieto è provvisorio. Dicevano lo stesso anche l’ultima volta che hanno governato il paese, ma alla fine l’istruzione femminile è stata proibita per tutto il tempo in cui sono rimasti al potere.
Dopo che i taliban hanno ripreso il controllo del paese diciotto mesi fa, ho incontrato molte donne che mi dicevano di non volersene andare. Ma stavolta ho sentito molti più dubbi sul futuro. Naila Mirza, una studente di medicina di 25 anni, era sicurissima di voler restare. Stava facendo un tirocinio negli ospedali locali, sperando di potersi laureare e cominciare a lavorare come medico. Il divieto di accesso all’istruzione universitaria ha cambiato tutto. “Se non ho il diritto di lavorare, non ho il diritto di esistere”, afferma. Trattenendo le lacrime, mi ha detto che l’Afghanistan non è più un paese per donne. L’ultima volta che ho parlato con lei, mi ha raccontato di essere riuscita a scappare dal paese. Oggi sta chiedendo asilo in occidente.
Talenti sprecati
Mentre scrivo dall’Afghanistan ricevo una telefonata dalla Bbc. Sono stata scelta come una delle principali conduttrici del canale delle notizie. La mia reazione è un’esplosione di entusiasmo misto alla consapevolezza di quanto diversa sarebbe la mia vita se i miei genitori non fossero scappati dall’Afghanistan quando avevo sei mesi.
Ci piace immaginare di essere artefici del nostro destino. Ma stando qui non posso fare a meno di pensare a tutto il talento umano che va sprecato in questo paese. Le potenziali mediche, scienziate, artiste, insegnanti e leader di cui il mondo non vedrà mai i contributi, perché è toccato loro in sorte di nascere donne in Afghanistan. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati