Il 7 febbraio 2020 i cinesi hanno espresso online il dolore e la rabbia per la morte di Li Wenliang, il medico che per primo aveva dato l’allarme per il nuovo coronavirus. Due anni dopo, il 22 aprile 2022, l’esasperazione degli abitanti di Shanghai dopo un mese di lockdown è stata sintetizzata in un video di sei minuti intitolato Voci di aprile, diventato subito virale e poi censurato. Nessuno si aspettava che l’incendio di un edificio a Urumqi, dove sembra che le misure contro il covid abbiano impedito agli inquilini di mettersi in salvo, avrebbe nuovamente scosso la Cina a poco più di un mese dai due striscioni contro la politica “zero covid” e il presidente Xi Jinping esposti sul trafficato cavalcavia di Sitong a Pechino. La somiglianza degli slogan ha creato un’eco che si rafforza nella ripetizione. Opporsi ai test del covid e alla tirannia, gridare il proprio scontento e manifestare solidarietà è utile? A cosa serve?
Con il dolore per le vittime di Urumqi e l’insofferenza causata dai continui e improvvisi lockdown si è timidamente riaffacciato sulla scena cinese un movimento democratico e popolare. Non che finora non ci fossero state critiche velate alle politiche per il contrasto dell’epidemia. Li Wenliang, Voci d’aprile, il lockdown di Ruili (città al confine con la Birmania) e l’autobus finito in un burrone nel Guizhou sono solo alcuni esempi di come in rete le emozioni possano esprimersi senza che la sofferenza si trasformi in un movimento politico. L’unica eccezione è stata la ripetizione di una frase tratta dall’ultima intervista a Li Wenliang: “Una società sana deve avere più di una voce”. Da troppo tempo i cinesi hanno accettato il paternalismo del governo e le sue politiche improntate al più classico modello del Leviatano. Il consenso raggiunto dopo la rivoluzione culturale sul primato dell’economia, “l’arricchirsi è glorioso” come slogan principale del partito al governo e il freno alle riforme politiche imposto dai fatti del 4 giugno 1989, quando a piazza Tiananmen una repressione sanguinosa mise fine a tre mesi di manifestazioni, hanno fatto sì che la crescita economica sia senza dubbio diventata l’unica fonte di legittimità del Partito comunista cinese. In cambio dell’aumento del reddito nazionale e della sicurezza, i cittadini hanno rinunciato ai propri diritti e alla responsabilità personale.
Biopolitica
Ma a tre anni dall’inizio della pandemia la recessione non è più una minaccia, è la dura realtà. La legittimità del partito è ormai affidata solo al mantenimento della sicurezza e la politica “zero covid” è diventata fondamentale. Opporvisi, si sottintende, significa volere la morte dei propri concittadini. Lo stesso Xi Jinping l’ha elevata a “espressione del primato del popolo e della vita”. È stato evidente che era il frutto di una decisione presa per motivi politici più che scientifici. Dire che il popolo è più importante di tutto significa definire l’autorità che governa il popolo al di sopra di tutti i poteri; dire che la vita è al di sopra di tutto, significa che il diritto all’esistenza è al di sopra di ogni altro. Garantire che la stragrande maggioranza delle persone sopravviva al virus è diventata l’essenza del governo.
È la biopolitica più classica: il governo difende la tua vita, ma tu non possiedi altro che quella. Tutti siamo una “nuda vita” nei campi di concentramento, e ogni esigenza che esuli dal biologico è sacrificabile. È l’argomento principale di tutte le politiche che combattono l’epidemia.
Ma quale tipo di esistenza è più importante? Vogliamo vivere o sopravvivere? ◆cag
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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati