“Perché non chiamiamo intelligenza artificiale anche una calcolatrice?”. È una domanda molto interessante – non a caso mi è stata fatta da una bambina – e penso che la risposta più sensata sia: “perché l’espressione ‘intelligenza artificiale’ non è stata coniata prima dell’invenzione delle calcolatrici”. La tecnologia e i termini che utilizziamo per definirla sono strettamente correlati e se non facciamo attenzione rischiano di farci perdere di vista storia, dinamiche e prospettive.

Pensiamo alle calcolatrici, appunto. L’idea di fare calcoli non a mano non è recente: antichi greci e romani utilizzavano l’abaco, per esempio. Ma la prima calcolatrice che individuiamo nella storia della tecnologia è quella progettata e costruita dal professore tedesco Wilhelm Schickard. Non si chiamava calcolatrice ma Rechenuhr, orologio calcolatore. L’avrebbe progettata nel 1623. Il suo primato è stato per anni conteso, anche perché quando abbiamo cominciato a interessarci a questo tipo di cose – chi ha fatto cosa per la prima volta – non esistevano oggetti dell’epoca funzionanti. Ovviamente l’orologio calcolatore di Schickard aveva oggetti antenati (la pascalina, per esempio) e ha avuto discendenti, tanti.

I moderni calcolatori – dovremmo anche riflettere sul perché quando si cresce con le dimensioni dell’oggetto in italiano si passa dal femminile al maschile – si sono resi protagonisti di una dimenticata sostituzione di lavoratrici. Nelle università i calcoli complessi venivano eseguiti a mano ancora negli anni trenta e quaranta del secolo scorso: spesso erano gruppi di donne, laureate in matematica, a eseguire questi calcoli. Accadeva, per esempio, all’Harvard college observatory, dove le cosiddette harvard computers facevano calcoli astronomici complessi. Una volta che la tecnologia è avanzata, non c’è stato più bisogno di loro in quel ruolo.

In assenza di un ecosistema mediatico che commentava tutto a una velocità e in quantità soverchianti, c’era comunque chi aveva visto a lungo termine rispetto alla sostituzione umana e aveva proposto già negli anni sessanta un reddito di base universale come ammortizzatore: erano ricercatori che avevano firmato una lettera aperta al presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson nel 1964. La lettera si intitolava The triple revolution e inquadrava molto bene alcuni problemi dell’epoca che ci ritroviamo oggi amplificati, fra cui l’aumento della produttività – dovuta allo sviluppo tecnologico – e della concentrazione della ricchezza.

In effetti, molti altri temi di quella lettera – l’evoluzione della tecnologia, la terminologia utilizzata per parlare di questi fenomeni, le conseguenze sociali, la sostituzione da parte delle macchine – sono amplificati, oggi. Non solo: parlare di intelligenze artificiali, oggetti tecnologici e software è spesso difficile perché si rischia di fare semplicemente pubblicità a poche grandi aziende o a qualche startup.

Tecnologie potenzialmente utili per l’umanità sono nelle mani di poche aziende private che possono decidere cosa fare e come farlo

Per esempio, da un paio di settimane sono iniziate anche in Italia le spedizioni di uno dei primi assistenti di ia incorporati in un oggetto materiale diverso dagli oggetti che conosciamo già (i computer e gli smartphone).

Si tratta del rabbit R1. Ne ho acquistato uno anch’io e ho iniziato a usarlo. È un piccolo parallelepipedo arancione con una webcam e un microfono incorporati. Al suo interno c’è ChatGpt; il rabbit si interfaccia con una serie di altre ia come Midjourney per la generazione di immagini e Perplexity per la ricerca sul web.
Il logo animato raffigura un coniglio bianco, che drizza le orecchie quando gli dai un comando vocale e poi genera un audio di risposta. Le conversazioni si possono recuperare nel proprio account sul sito, chiamato rabbit hole, la buca del coniglio.

L’azienda che lo ha lanciato, la Rabbit Inc., è stata accusata di aver organizzato una colossale truffa ai danni dei consumatori o, in alternativa, di avere prodotto un oggetto completamente inutile, con un pessimo tempismo. Il gruppo di hacker rabbitu.de lavora per “liberare il coniglio bianco con la jailbreak r1”: è la classica dinamica del mondo tecnologico che abbiamo raccontato in un vecchio numero di Artificiale.

Il lavoro del gruppo rabbitu.de ha messo in evidenza molti limiti dell’oggetto: bug e problemi di privacy e di sicurezza. Per molte persone è difficile immaginare a cosa serva il rabbit: sì, è un oggetto curioso, ci puoi conversare, lo puoi usare per tradurre conversazioni da una lingua all’altra, per registrare appunti e fare riassunti di una riunione. Puoi fornire comandi vocali per far fare ricerche online, collegarlo ad alcuni servizi di musica in streaming per suonare brani, generare immagini. Però è difficile immaginare come usarlo per fare qualcosa che non si possa già fare installando un’applicazione di ia con uno smartphone. Secondo alcuni critici in effetti potrebbe essere semplicemente un’applicazione, senza il bisogno di un oggetto che costa 199 dollari. Molte persone hanno restituito il proprio Rabbit R1 dopo averlo provato (si può fare entro 30 giorni), una piccola comunità di appassionati online si confronta sui modi per usarlo.

Forse vuoi sapere cosa ne penso io dopo qualche giorno di test. Non è particolarmente intuitivo e richiede un po’ di pazienza per l’attivazione, c’è bisogno di leggere il manuale – ma dovremmo farlo sempre – e va affrontato, come tutti i software o gli oggetti che vedremo nei prossimi mesi e anni, con uno spirito pionieristico. Potrebbe essere un clamoroso fallimento, sì. Sicuramente non è un’invenzione dirompente come lo smartphone o come la calcolatrice e il fatto che sia opaco – come la maggior parte delle più popolari macchine di intelligenza artificiale – non rende le cose più facili: abbiamo bisogno delle competenze di persone come il gruppo rabbitu.de per capire esattamente com’è programmato e come funziona. Anche il fatto che l’azienda che l’ha fondato sia stata coinvolta, in un recente passato, in una di quelle bolle opache che riguardano il mondo delle criptovalute non aiuta certo a fidarsi.

Nel frattempo, però, complice anche una campagna di marketing efficace e il solito ciclo dell’informazione che prima esalta – magari sulla base dei soli comunicati stampa – e poi distrugge – magari sulla base di qualche serie di commenti su reddit o di un video di un popolare YouTuber –, ci sono state migliaia di vendite dell’oggetto. L’azienda dice, rilanciata da Forbes, che sono state almeno 130mila. Non si sa bene quante restituzioni ci siano state o quanti ordini siano stati annullati prima che iniziassero le spedizioni: insomma, le persone restano confuse e non si aiuta certo ad aumentare la comprensione della reale utilità di una tecnologia.

Il problema, allora, sembra essere più ampio: non riguarda solo le intelligenze artificiali ma la stessa struttura sociale che abbiamo raccontato, il mercato, gli investimenti sovradimensionati, il fatto che di fronte a tecnologie potenzialmente utili per l’umanità siamo nelle mani di poche aziende private che possono decidere cosa fare e come farlo.

Dalle calcolatrici agli assistenti di ia, ancora una volta ci ritroviamo a fare i conti con tutte le contraddizioni della società occidentale: le intelligenze artificiali sono lo specchio di tutto.

Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.

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