Gli Stati Uniti sono di nuovo alle prese con il rischio dello shutdown, la parziale chiusura delle attività dell’amministrazione pubblica che scatta quando il congresso respinge le proposte di spesa del governo per le quali è necessario il suo consenso. Non è questa, tuttavia, la principale minaccia all’economia statunitense, sostiene l’Economist. Lo shutdown, che è stato evitato all’ultimo momento il 30 settembre grazie a un accordo tra repubblicani e democratici, riguarderebbe il 25 per cento della spesa pubblica, visto che non colpirebbe la vasta categoria delle uscite obbligatorie, come le pensioni e la sanità.
Sarebbe meglio guardare con più attenzione, invece, a quello che sta succedendo ai titoli del tesoro statunitense con scadenza decennale, il cui tasso d’interesse è salito al 4,7 per cento, il più alto dal 2007. Il rialzo è in corso dalla primavera. Non c’è un unico motivo che spieghi la svolta: uno dei principali potrebbe essere che tutto sia cominciato quando gli investitori si sono convinti che il costo del denaro, aumentato dalla Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) per frenare l’inflazione, sarebbe rimasto a lungo più alto.
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Sedici anni fa, tuttavia, il rapporto tra il debito e il pil statunitensi era al 35 per cento, mentre oggi è al 98 per cento. A questo va aggiunto un deficit pari al 7 per cento del pil. “L’aumento dei tassi significa che il costo del debito pesa quasi tre volte di più sul bilancio pubblico”. E significa anche, aggiunge il Financial Times, la svalutazione dei numerosi titoli del tesoro in possesso delle banche. Un fenomeno simile a quello che la scorsa primavera aveva provocato la crisi di liquidità fatale per la Silicon Valley Bank.
Nei prossimi anni il conto per le finanze della Casa Bianca potrebbe salire ulteriormente. Le stime più recenti sostengono che nel 2023 il governo federale spenderà il 2,5 per cento del pil in interessi sul debito pubblico, il doppio rispetto a dieci anni fa. Nel 2030 si potrebbe arrivare al 3,2 per cento, più di quanto Washington stanzia per la difesa. Inoltre, queste stime, precisa l’Economist, sono state fatte quando i tassi non erano ancora saliti: infatti presumono interessi sui buoni del tesoro decennali stabilmente sotto il 4 per cento.
La soluzione ideale per evitare di appesantire il bilancio sarebbe controllare la spesa. Ma i democratici, ora al governo, non sembrano intenzionati a frenare i loro progetti d’investimento, continua il settimanale britannico. Né lo faranno i repubblicani, che pure criticano gli avversari invocando maggiore austerità: è improbabile, per esempio, che accetteranno di non rinnovare i tagli alle tasse decisi da Donald Trump nel 2017 quando scadranno tra due anni. Se la politica statunitense, conclude l’Economist, continuerà ad agire come se deficit e interessi non fossero importanti, prima o poi la realtà la costringerà a scegliere tra un’austerità pesante e prolungata o la necessità di forzare la mano alla Fed perché riduca il costo del denaro. “A quel punto lo shutdown sarebbe un problema irrisorio”.
A maggio, in seguito a una delle ripetute crisi provocate dal rischio di shutdown, l’investitore Warren Buffett dichiarò lapidariamente: “Non ho ancora visto il momento in cui avrà senso scommettere nel lungo periodo contro gli Stati Uniti”. In effetti è difficile pensare che la Casa Bianca non possa ripagare debiti contratti in dollari, a meno che non sia il Congresso a impedirglielo.
In Europa
Lo stesso discorso però non può essere fatto per l’Europa e in particolare per i suoi paesi più indebitati, tra cui l’Italia. Anche nel vecchio continente i tassi sui titoli di stato decennali stanno salendo in modo preoccupante. Quelli italiani sono sulla soglia del 5 per cento, ai livelli del 2011, quando il paese affrontò una dura crisi del debito che portò alle dimissioni del governo guidato da Silvio Berlusconi e alla nomina dell’esecutivo tecnico di Mario Monti. A settembre il governo ha messo a punto la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef), la base per la prossima manovra di bilancio, in cui si prevede un peggioramento del disavanzo sia per il 2023 (dal 4,5 al 5,3 per cento del pil) sia per l’anno prossimo (dal 3,7 al 4,3 per cento), e un rapporto tra debito pubblico e pil stabilmente intorno al 140 per cento.
Anche la Francia è in difficoltà (i tassi sui suoi titoli di stato decennali sono al 3,5 per cento, il valore più alto dal 2011), soprattutto dopo che l’Haut conseil des finances publiques (Hcfp), la corte dei conti, ha criticato il governo di Parigi per non aver tagliato abbastanza la spesa pubblica, rischiando d’infrangere le regole di bilancio dell’Unione europea nel 2024, quando dovrebbe tornare in vigore il patto di stabilità e crescita, sospeso nel 2020 in seguito alla pandemia.
La situazione italiana sembra quella più difficile, visto tra l’altro il comportamento della sua classe politica, che da anni promette grandi spese per motivi elettorali, contando sulla possibilità di continuare a indebitarsi senza problemi e a tassi bassi. Ci sono di mezzo gli aumenti del costo del denaro voluti dalla Banca centrale europea (Bce) e la diffidenza di chi presta soldi sui mercati finanziari, oltre al fatto che l’economia potrebbe rallentare, riducendo le entrate dello stato.
Nel governo c’è chi confida nell’intervento della Bce se i tassi dovessero andare alle stelle: nel 2022 l’istituto aveva dichiarato che in tal caso era pronto a comprare il debito di un paese per preservarne le basi economiche. Ma Roma, sottolinea l’Economist, ignora o dimentica che la Bce non sosterrà politiche di bilancio irresponsabili, anche perché un suo eventuale intervento sarebbe condizionato al rispetto di precise misure di risanamento. Una cosa è certa, aggiunge: la realtà sta per presentare il conto alla politica italiana. Resta da capire quali drammi nasceranno da tutto questo.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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