L’amministrazione comunale di Shenzhen, la metropoli del sud della Cina dove si concentra la maggior parte delle aziende tecnologiche del paese asiatico, ha presentato un piano per espandere l’esportazione di automobili. “Un’iniziativa destinata ad accrescere le paure occidentali per il futuro della propria industria manifatturiera”, scrive il Financial Times. Le autorità hanno annunciato 24 misure, tra cui sussidi all’apertura di fabbriche, la creazione di nuove rotte marittime e la concessione ad altre venti aziende della licenza di esportare auto usate.
Saranno forniti servizi come l’assicurazione delle esportazioni, rimborsi fiscali più veloci e finanziamenti agevolati agli acquirenti esteri di auto cinesi. Le aziende locali sono state invitate a comprare più navi da carico, in modo che con il tempo la Cina possa disporre di una propria flotta per il trasporto dei veicoli. La Byd, leader mondiale delle auto elettriche, ha commissionato a gennaio una nave in grado di contenere settemila veicoli e ha cominciato a fare spedizioni verso la Germania.
Il piano di Shenzhen non riguarda solo le auto elettriche, ma anche quelle con motore a combustione: “Nel 2023”, continua il Financial Times, “la Cina ha superato il Giappone come principale esportatore mondiale di auto, vendendone all’estero cinque milioni. Il valore delle esportazioni è aumentato del 74 per cento rispetto al 2022, fino a 78 miliardi di dollari”. Non è un caso: secondo le stime della società di ricerche Bernstein, attualmente la Cina è in grado di produrre quaranta milioni di veicoli all’anno, ma la domanda interna ne può assorbire al massimo 25 milioni.
Le notizie che arrivano da Shenzhen preoccupano l’occidente, che teme di essere sommerso da prodotti cinesi di buona qualità e con prezzi convenienti in molti settori, non solo quello automobilistico. Il Wall Street Journal parla di un nuovo “shock cinese” in arrivo, come quello della fine degli anni novanta e dei primi anni duemila, quando nel mondo cominciarono a circolare enormi quantità di prodotti a basso costo fabbricati nel paese asiatico.
“Ora potrebbe esserci un seguito, visto che Pechino punta ancora sulle esportazioni del settore manifatturiero per rilanciare la crescita economica. Le sue fabbriche stanno producendo più auto, macchinari e dispositivi elettronici di quanti ne possa assorbire la domanda interna. Sostenute da prestiti a tassi bassi e da generosi aiuti di stato, le aziende cinesi sono pronte a lanciare i loro prodotti sui mercati esteri”. È in questo modo che Pechino vuole realizzare l’obiettivo di crescita stabilito per il 2024: il 5 per cento.
La differenza è che questa volta lo shock dovrebbe arrivare con merci molto più sofisticate e competitive. Secondo un recente studio dell’azienda di ricerca e consulenza Rhodium Group, “in passato le aziende cinesi non riuscivano a stare al passo della Germania nella produzione di macchinari avanzati e di auto e nel campo della chimica. Ma ora tutto sta cambiando”. In alcuni settori – per esempio la siderurgia, il solare, la metallurgia – i tedeschi “cominciano a sentire sul collo il fiato dei cinesi”.
Di conseguenza, mentre negli anni scorsi i vertici della politica e dell’industria in Germania erano a favore di un forte impegno in Cina, oggi parlano di “una concorrenza sleale che minaccia i posti di lavoro e il benessere nazionale”. Per lunghi anni le esportazioni della Germania in Cina sono cresciute con tassi a doppia cifra, poi nel 2023 hanno registrato un forte calo dopo aver raggiunto il picco l’anno precedente: una ragione è il rallentamento della crescita cinese, ma ha influito anche il cambiamento dello scenario globale e dei rapporti tra i due paesi.
Un’ulteriore differenza è che oggi gli Stati Uniti, l’Unione europea e altri paesi, come il Giappone, stanno investendo nelle proprie industrie manifatturiere: il loro obiettivo è produrre quello di cui hanno bisogno a casa o comunque in paesi alleati, non in Cina. Per questo stanno spendendo miliardi di dollari in aiuti a settori considerati strategici e hanno imposto (Stati Uniti) o minacciano di farlo (Unione europea) pesanti dazi doganali sulle importazioni cinesi.
La camera di commercio statunitense in Cina ha dichiarato che “la sovracapacità industriale del paese asiatico è un problema che non si risolverà presto. Le aziende straniere dovranno adattarsi all’idea che la seconda economia mondiale sta cercando di compensare con le esportazioni il crollo del settore immobiliare”. Come spiega la rivista economica Caixin, i governi delle province cinesi, finora principale motore degli investimenti nell’immobiliare, stanno virando velocemente sui settori dell’industria avanzata, dopo che nel 2023 più della metà di loro non ha centrato gli obiettivi di crescita del pil.
Il risultato potrebbe essere un mondo in cui i governi fanno a gara a chi offre i sussidi più generosi all’industria e in cui i mercati sono sommersi da prodotti che non trovano una domanda adeguata. Una situazione in grado di aggravare le tensioni commerciali e politiche. Chi sarà disposto ad assorbire le merci cinesi? In passato lo facevano gli Stati Uniti e in parte l’Unione europea. Oggi non è più così. Secondo alcuni osservatori, un’alternativa per Pechino sarebbe quella di spostare la sua attenzione verso i paesi emergenti e in via di sviluppo.
Ma, come osserva Michael Pettis, economista statunitense che insegna al Carnegie endowment for international peace, “non è una soluzione praticabile”, perché il mondo in via di sviluppo “non può permettersi i deficit della bilancia commerciale necessari per assorbire il surplus cinese”, a meno che non sia Pechino a finanziarli con un’enorme quantità di prestiti e investimenti. E chi ha più risorse, per esempio un grande paese emergente come l’India, non ha alcuna intenzione di farlo. Un altro scenario possibile, conclude Pettis, è che la Cina non sia più in grado di registrare consistenti avanzi commerciali e sia costretta a risolvere il problema al suo interno. Ma è proprio per evitare quest’ultima ipotesi che “Pechino punta ancora sul settore manifatturiero mentre cerca con grande difficoltà di abbandonare gli investimenti improduttivi nell’immobiliare e nelle infrastrutture. Sperando che il resto del mondo l’assecondi”.
Gli squilibri commerciali globali avrebbero bisogno di una soluzione condivisa, di un accordo raggiunto con la mediazione di un’istituzione come l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Il suo vertice si è appena svolto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, in mezzo a forti contrasti tra gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione europea. L’organizzazione è riuscita solo ad approvare l’estensione per altri due anni dell’esenzione del commercio online dalle tariffe.
Un’ulteriore prova del fatto che, come scriveva già alla vigilia dell’evento Le Monde, oggi il commercio globale è “in balia della legge del più forte”, perché da tempo la Wto è stata esautorata: “Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti ne hanno bloccato il funzionamento, una scelta confermata dal suo successore Joe Biden. Si è aperto così un periodo d’incertezza preoccupante”. Alle misure protezioniste degli Stati Uniti, che accusano la Cina di non rispettare le regole della Wto, sono seguite le ritorsioni di Pechino.
“Ma a sua volta la Casa Bianca non ha esitato a violare le regole della Wto, lanciando un gigantesco piano di sussidi nel campo della transizione ecologica, l’Inflation reduction act”. Purtroppo, conclude il quotidiano francese, “ci sono poche possibilità che l’istituzione riacquisti a breve un ruolo di primo piano. Questo vuoto va colmato”. Anche perché di solito le tensioni commerciali, il protezionismo e i nazionalismi degenerano in contrasti che in passato hanno avuto esiti catastrofici.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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