I governi e le grandi aziende da tempo si sono impegnati a ridurre drasticamente, se non proprio eliminare, le loro emissioni di gas serra entro il 2050. Eppure le compagnie petrolifere sono convinte che il mondo continuerà a chiedere petrolio e gas ancora per decenni. E per soddisfare questa domanda hanno anche ripreso a trivellare sempre più in profondità i fondali del golfo del Messico.

A chi accusa i colossi energetici quanto meno di incoerenza, osserva il New York Times, i manager e gli esperti del settore rispondono che le piattaforme petrolifere offshore, come quelle del golfo del Messico, “non sono fondamentali solo perché procurano carburante alle automobili e ai camion o alimentano le centrale elettriche”, ma anche perché producono molte meno emissioni rispetto agli impianti d’estrazione sulla terraferma. Secondo la National ocean industries association, un’organizzazione che rappresenta le aziende che gestiscono piattaforme offshore per il greggio e il gas e per la produzione di energia eolica, un barile estratto nelle acque del golfo del Messico produce un terzo in meno delle emissioni legate a quello estratto da un qualsiasi pozzo scavato nel suolo degli Stati Uniti.

Il rinnovato interesse per il golfo del Messico arriva dopo la crisi provocata nel 2010 dal disastro della Deepwater horizon, la più grave perdita di petrolio nella storia degli Stati Uniti. La Deepwater horizon, un impianto per la trivellazione dei fondali di proprietà dell’azienda svizzera Transocean, poteva operare in acque profonde fino a 2.400 metri e scavare pozzi fino a 9.100 metri. Il 20 aprile 2010, mentre completava la perforazione del pozzo Macondo per conto del colosso britannico Bp – a una profondità di circa quattrocento metri al largo della Louisiana – un’esplosione innescò un violento incendio provocando la morte di undici persone e il ferimento di altre diciassette.

Due giorni dopo la piattaforma si rovesciò depositandosi sul fondale. Le valvole di sicurezza all’imboccatura del pozzo non funzionarono correttamente e il greggio cominciò a uscire senza controllo. La perdita fu fermata solo il 4 agosto, lasciando una “marea nera” – milioni di barili di petrolio – sulle acque di fronte alla Louisiana, al Mississippi, all’Alabama e alla Florida, oltre alla frazione più pesante del greggio che aveva formato grossi ammassi sul fondale marino. Quello della Deepwater horizon è stato il disastro ambientale più grave della storia americana, superando di più di dieci volte, per quantità di greggio versato, quello della Exxon Valdez, la petroliera che s’incagliò in una scogliera del golfo dell’Alaska nel marzo 1989. Alla Bp è costato più di 65 miliardi di dollari in risarcimenti e rimozione dei danni.

Dopo il 2010 l’estrazione di greggio nel golfo del Messico era rallentata drasticamente, ma negli ultimi anni ha cominciato a crescere di nuovo, provocando le proteste delle organizzazioni ambientaliste e dei climatologi che si battono per una transizione più rapida verso le fonti energetiche rinnovabili. Da tempo gli Stati Uniti estraggono greggio a ritmi senza precedenti. Tuttavia i danni causati dal disastro della Deepwater horizon, che ha distrutto la flora e la fauna marina e le coste, oltre a mettere in ginocchio l’industria ittica, avevano spinto l’amministrazione guidata da Joe Biden a limitare la concessione di licenze d’estrazione nel golfo.

Ad agosto 2023 il Bureau of ocean energy management aveva ristretto l’area disponibile per le trivellazioni da 295mila a 271mila chilometri quadrati. Ma a novembre un tribunale ha bloccato il provvedimento, racconta il New York Times, e appena un mese dopo le compagnie petrolifere hanno offerto 382 milioni di dollari per assicurarsi il diritto di estrarre più greggio e gas nell’area.

Al centro del rinnovato interesse per il golfo del Messico, scrive Bloomberg, c’è un ricco giacimento chiamato Kaskida, scoperto nel 2006 dalla squadra della Bp, ma praticamente dimenticato in seguito al disastro del 2010. Anche perché conteneva sì greggio per miliardi di dollari, ma all’epoca il suo sfruttamento richiedeva una tecnologia che ancora non esisteva: “Il petrolio si trovava molto in profondità ed era coperto da un sottile strato di sale, sotto il quale c’erano una pressione e una temperatura tali che rischiavano, una volta aperto il pozzo, di far schizzare fuori il greggio in modo incontrollato, facendolo spargere sul fondale marino”.

In questi anni, però, la Bp e gli altri colossi petroliferi hanno investito nello sviluppo di piattaforme all’avanguardia in grado di lavorare con i giacimenti come Kaskida. È per questo che di recente Murray Auchincloss, l’amministratore delegato della Bp, ha potuto dichiarare agli investitori: “È il momento di rimettere mano al giacimento dopo 15 anni”. Se tutto va bene, la Bp avvierà le operazioni per lo sfruttamento di Kaskida entro la fine del 2024.

Anche gli altri gruppi energetici, in particolare la Chevron e la Shell, stanno lavorando a progetti simili. Già oggi nella parte del golfo sotto la giurisdizione statunitense si estraggono 1,8 milioni di barili al giorno, pari al 10 per cento della produzione nazionale. “Se il golfo del Messico fosse uno stato”, sottolinea Bloomberg, “sarebbe il secondo produttore di greggio dopo il Texas”. Ma gli esperti prevedono che nel giro di pochi anni si possa arrivare a 2,3 milioni di barili al giorno.

Quest’abbondanza di petrolio tuttavia è paradossale: perché la Casa Bianca continua a investire pesantemente nella transizione ecologica e allo stesso tempo estrae sempre più greggio? La ricchezza del sottosuolo statunitense impedirà a lungo al paese di lasciarsi alle spalle i combustibili fossili? Gli Stati Uniti consumano ancora molto petrolio: nel 2006 ne usavano 20,6 milioni di barili al giorno, oggi 20,3 milioni. E l’amministrazione Biden, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali di novembre, ha tutto l’interesse a mantenere il prezzo del carburante a livello più basso possibile.

Ma non bisogna dimenticare che il petrolio è un potente strumento di pressione politica nelle mani di Washington: più greggio estraggono gli Stati Uniti, più la Casa Bianca è in grado di imporre sanzioni energetiche a paesi come il Venezuela, la Russia o l’Iran. In questi anni inoltre l’abbondante greggio statunitense è stato un incubo per i paesi dell’Opec, che da tempo tagliano drasticamente la loro produzione per sostenere il prezzo del greggio sui mercati mondiali, mandato giù dall’abbondante offerta americana.

Tutto questo era impensabile fino a una decina di anni fa, cioè fino a quando gli Stati Uniti non sono tornati leader mondiali del petrolio grazie allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti del bacino Permiano, tra il Texas e il New Mexico. Ora si aggiunge il nuovo greggio del golfo del Messico, conclude Bloomberg. E molto probabilmente le stesse tecniche usate per Kaskida saranno impiegate anche per sfruttare giacimenti sottomarini finora considerati inarrivabili, come quelli al largo delle coste del Suriname, in America Latina, o della Namibia, in Africa. Anche correndo il rischio che si ripeta un disastro come quello del 2010.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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