Il 14 maggio gli Stati Uniti hanno annunciato un drastico aumento dei dazi sulle importazioni di una serie di prodotti cinesi che hanno un valore di diciotto miliardi di dollari. L’obiettivo è proteggere le aziende e i lavoratori statunitensi da una concorrenza considerata sleale: secondo Lael Brainard, direttrice del National economic council, “oggi la Cina è semplicemente troppo grande per agire imponendo le sue regole. La capacità industriale e le esportazioni del paese asiatico in certi settori sono così ampie che minano gli investimenti negli Stati Uniti e in altre nazioni”.
I nuovi dazi colpiscono una decina di settori industriali considerati strategici, soprattutto le tecnologie legate alla transizione ecologica. La Casa Bianca, in particolare, ha quadruplicato quelli applicati alle auto con motore elettrico, facendoli passare dal 25 al 100 per cento. I dazi sull’acciaio e sull’alluminio passano dal 7,5 al 25 per cento, come anche quelli sulle batterie, mentre quelli sui semiconduttori crescono dal 25 al 50 per cento. Tariffe del 50 per cento saranno applicate anche ai pannelli solari e ad alcuni prodotti medici.
La decisione arriva alla fine di un lungo processo di revisione dei dazi avviato nel 2018 dall’amministrazione di Donald Trump e proseguito con quella di Joe Biden. L’attuale inquilino della Casa Bianca, tra l’altro, ha dichiarato che intende mantenere i dazi su prodotti cinesi del valore di trecento miliardi di dollari voluti dal suo predecessore. Una misura che durante la campagna per le presidenziali del 2020 Biden aveva definito dannosa per i consumatori statunitensi.
Cosa gli ha fatto cambiare idea? Soprattutto i suoi ambiziosi progetti sulla transizione ecologica. “Il presidente”, osserva il Wall Street Journal, “sta cercando di creare la nuova e promettente economia verde, ma si è reso conto di avere un problema politico: la Cina vuole essere il principale fornitore del settore. La sua soluzione è imporre dazi molto severi, che superano quelli di Trump”. Pechino domina la produzione mondiale di pannelli solari e di minerali indispensabili alla transizione ecologica, oltre a essersi imposto come principale produttore globale di auto elettriche, che oggi sono disponili a prezzi imbattibili in tutto il mondo e minacciano l’esistenza delle case automobilistiche occidentali. Biden vuole sicuramente contrastare la crisi climatica, ma solo a patto che gli Stati Uniti siano leader delle attività sviluppate per raggiungere quest’obiettivo.
Secondo il Wall Street Journal, potremmo essere davanti alla “Sarajevo della guerra commerciale mondiale per la transizione ecologica”. I dazi annunciati il 14 maggio non sono semplicemente un nuovo episodio dei contrasti tra gli Stati Uniti e la Cina. Né solo un tentativo di Biden di rispondere alla linea protezionista di Trump in vista delle presidenziali di novembre, convincendo gli elettori che la transizione ecologica aiuterà l’ambiente ma allo stesso tempo permetterà di creare posti di lavoro negli Stati Uniti. Le nuove tariffe danno vita a un conflitto a cui il resto del mondo non si può sottrarre. Le tensioni si estendono per esempio al Brasile, all’India e al Messico. Negli ultimi mesi, in particolare, il Brasile ha avviato una serie di inchieste su sospette attività di dumping della Cina: Pechino sovvenziona vari settori per tenere bassi i prezzi dei prodotti che esporta nel paese sudamericano, dai laminati alle soluzioni chimiche fino agli pneumatici.
Ma il fronte più caldo è quello dell’Unione europea, che è presa tra due fuochi: da un lato teme che i generosi incentivi statunitensi dell’Inflation reduction act e del Chips act attirino oltreoceano le sue aziende più innovative; dall’altro, è preoccupata dalla concorrenza dei prodotti cinesi. Soprattutto dal nascente settore delle auto elettriche, dove da tempo Bruxelles ha avviato un’indagine antidumping contro Pechino che entro la prossima estate dovrebbe concludersi con l’introduzione di dazi più alti. Basti pensare che le importazioni di auto elettriche cinesi negli Stati Uniti rappresentano meno del 2 per cento del totale (quelle dalla Germania, dalla Corea del Sud e dal Messico sono quarantacinque volte superiori), mentre nel 2023 gli europei hanno importato auto elettriche cinesi per 13,5 miliardi di dollari, trentasei volte di più dei 368 milioni di dollari spesi dagli statunitensi.
Secondo uno studio della società di consulenza Rhodium Group, per contrastare i cinesi l’Unione europea dovrebbe introdurre dei dazi di almeno il 50 per cento (oggi sono al 10 per cento). Il problema è che gli europei non sono uniti: i francesi sono quelli che spingono di più per innalzare le barriere doganali, mentre i tedeschi frenano. Il contrasto si spiega con il fatto che i primi non hanno interessi significativi nel mercato cinese, mentre i secondi hanno molto da perdere. Le case automobilistiche tedesche fabbricano auto in Cina e le vendono nell’Unione europea, motivo per cui verrebbero penalizzate dall’aumento dei dazi. Ma vendono anche molte vetture nel paese asiatico: fino a poco tempo fa il mercato cinese assorbiva un quinto delle nuove vetture Volkswagen. I tedeschi vedono già ora il loro mercato cinese assottigliarsi sensibilmente, ma temono un vero e proprio tracollo se, com’è prevedibile, Pechino dovesse rispondere agli eventuali dazi di Bruxelles.
Le barriere imposte dagli Stati Uniti, inoltre, faranno confluire i prodotti cinesi ancora di più in Europa. Alcune case automobilistiche del paese asiatico vogliono aprire fabbriche nel continente: a gennaio, per esempio, la Byd ha confermato l’apertura di un impianto per la produzione di auto elettriche in Ungheria. Da settembre, inoltre, la Stellantis, il gruppo nato nel 2021 dalla fusione tra la Fiat Chrysler e la francese Psa (Peugeot, Citroën, Ds Automobiles, Opel e Vauxhall Motors), ha siglato un accordo per vendere in Europa i veicoli elettrici prodotti dalla cinese Leapmotor.
I dazi statunitensi sono una brutta notizia per l’Europa, anche perché, come spiega l’Economist, arrivano in un’epoca in cui l’ordine costruito dopo la seconda guerra mondiale si sta gradualmente disgregando. A partire dall’Organizzazione mondiale del commercio, l’istituzione nata per armonizzare gli scambi globali, che da cinque anni è paralizzata dai veti statunitensi. Insomma, l’Unione europea potrebbe trovarsi presa nella morsa delle due superpotenze, in un mondo in cui non si applicano più le regole internazionali ma prevale sostanzialmente la legge del più forte.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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