Il 1 ottobre 2024 i lavoratori di 14 grandi porti statunitensi della costa occidentale e del golfo del Messico – dallo stato del Maine al Texas passando per la Florida – sono entrati in sciopero per il rinnovo del contratto di 25mila dipendenti. L’agitazione è cominciata dopo il fallimento delle trattative tra l’International longshoremen’s association (Ila), un sindacato che rappresenta 45mila portuali delle coste, e la Us Maritime alliance, l’organizzazione dei datori di lavoro del settore. Gli iscritti all’Ila hanno paralizzato i terminali per navi cargo che gestiscono più della metà delle importazioni e delle esportazioni statunitensi. I lavoratori chiedevano un aumento salariale del 77 per cento nei prossimi sei anni come condizione per riprendere i negoziati. Il 3 ottobre hanno accettato di sospendere lo sciopero dopo che la Maritime alliance ha offerto un ritocco in busta paga del 62 per cento.

La protesta, sottolinea il Wall Street Journal, rischiava di danneggiare l’intera economia nazionale: secondo alcuni analisti, ogni settimana di blocco poteva costare tra i 4,5 e i 7,5 miliardi di dollari. Le grandi catene di negozi al dettaglio, che si stanno organizzando in vista delle festività di fine anno, avevano già accumulato più scorte del solito e spostato la destinazione di alcuni carichi, ma hanno precisato che uno sciopero più lungo di una settimana avrebbe fatto aumentare i costi di spedizione e provocato carenze nella fornitura dei prodotti. Già nelle scorse settimane la corsa per assicurarsi uno spazio nei porti della costa occidentale statunitense aveva fatto salire le tariffe.

Dietro la protesta dei portuali, che svolgono un lavoro pesante e pericoloso quanto fondamentale per l’economia globale, non ci sono solo le rivendicazioni salariali. I lavoratori guardano con sospetto alle innovazioni tecnologiche introdotte nel settore, considerate una minaccia all’occupazione. L’Ila ha accettato di estendere fino al 15 gennaio 2025 il contratto scaduto: entro questa data si svolgeranno i negoziati per un nuovo accordo, che dovranno affrontare anche il problema dell’automazione. Harold Daggett, il presidente dell’Ila, ha chiesto esplicitamente che le aziende limitino la diffusione dei robot, anche se i terminal statunitensi sono ormai arretrati in termini d’efficienza rispetto a quelli di altri paesi.

Questa dinamica non è una novità: da secoli, spiega il New York Times, le compagnie di navigazione escogitano metodi per limitare il costo di chi carica e scarica le merci, mentre dal canto loro i lavoratori fanno di tutto per difendere i propri interessi ricorrendo generalmente a una tattica: paralizzare i commerci attraverso gli scioperi. Quasi settant’anni fa, il 26 aprile 1956, salpò da Newark la prima nave portacontainer, un’innovazione destinata ad alleggerire il lavoro dei portuali ma anche i costi delle aziende: in precedenza caricare una nave costava in media sei dollari alla tonnellata, in seguito si scese a circa sedici centesimi di dollaro, impiegando per di più molti meno operai. Stando alle cronache dell’epoca, in quei giorni il rappresentante dell’Ila si augurava che quell’imbarcazione affondasse.

Anche nel 2024 le cose stanno andando allo stesso modo, visto che da tempo le aziende cercano di limitare il peso dei lavoratori investendo nell’automazione. Nei porti di Los Angeles e Long Beach, in California, dove passa il 40 per cento delle importazioni statunitensi fatte attraverso i container, i robot hanno permesso di eliminare quasi il 5 per cento dei tredicimila posti di lavoro occupati in precedenza. “Molti esperti”, sottolinea il New York Times, “lo considerano un processo inevitabile e allo stesso tempo positivo. Ma sorgono due questioni: chi controlla la tecnologia? E i lavoratori saranno protetti dai cambiamenti attraverso corsi di formazione che gli aprano nuove opportunità?”.

Allo scontro in corso è molto sensibile la politica. Innanzitutto perché il rincaro delle merci o i ritardi nelle consegne potrebbero far aumentare il malcontento dei cittadini, tra l’altro a un mese dal voto per le presidenziali e dopo le devastazioni causate dall’uragano Helene. Non a caso la svolta nello sciopero è stata favorita dall’intervento della Casa Bianca, che ha convinto le aziende ad andare incontro alle richieste dei dipendenti. Il 2 ottobre, inoltre, il segretario dei trasporti Pete Buttigieg aveva sottolineato che mentre i datori di lavoro avevano visto i loro profitti aumentare di circa il 350 per cento in dieci anni, i salari dei portuali erano aumentati solo del 15 per cento.

Ma la posta in gioco è molto più alta: i porti sono un’infrastruttura strategica dell’economia globalizzata. Come scrive Bloomberg, non sono più semplicemente postazioni commerciali e basi navali, ma “delle vere e proprie economie nelle economie”, gangli vitali per il settore energetico (con il petrolio e il carbone ormai affiancati o addirittura sostituiti dal gas naturale liquefatto e dall’idrogeno verde), per i trasporti ferroviari, per l’industria manifatturiera e la grande distribuzione. Oggi i porti gestiscono almeno l’80 per cento dei 25mila miliardi di dollari di merci scambiate ogni anno, e sono “delle fortezze economiche al centro dello scontro tra le grandi potenze in un mondo multipolare”. Non a caso sono oggetto di costose e dolorose riconversioni alle tecnologie digitali, all’automazione e all’energia pulita, con investimenti stimati in duecento miliardi di dollari all’anno, per un totale di duemila miliardi nell’arco del prossimo decennio.

Tra i maggiori protagonisti c’è la Cina. Secondo Lloyd’s List, un quotidiano specializzato nel settore delle navigazione, sette dei dieci principali porti commerciali a livello mondiale si trovano nel paese asiatico e nessuno in Europa e nelle Americhe. Il porto di Shenzhen, per esempio, si è dotato di un terminal interamente dedicato all’esportazione di veicoli: inaugurata nel gennaio 2023, nel primo anno di vita la struttura ha spedito ventimila automobili. Quest’anno è stato varato il cargo Byd Explorer 1⁠, realizzato dalla casa automobilistica Byd appositamente per le sue esportazioni in Europa. Pechino investe anche in porti di altri continenti. A novembre, per esempio, è prevista l’inaugurazione del porto di Chancay, fino a poco tempo fa un tranquillo villaggio di pescatori peruviano, che è costato 1,3 miliardi di dollari ed è destinato a modificare radicalmente gli scambi commerciali tra il Sudamerica e l’Asia (dovrebbe abbreviare le rotte di una decina di giorni) e di conseguenza ad aggravare le tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti.

La Cina è attiva anche in Europa. Nel 2016 l’armatore Cosco ha rilevato il 65 per cento del Pireo, in Grecia, oggi sesto porto per container del vecchio continente. La Cosco e la China Merchants Port gestiscono terminali in quattordici porti europei, tra cui Le Havre e Marsiglia (Francia), Rotterdam (Paesi Bassi), Anversa (Belgio), Bilbao (Spagna) e Genova (Italia). Nel 2022 il porto di Amburgo, in Germania, è stato al centro di una battaglia per l’acquisizione del terminal Tollerort: Cosco puntava al 35 per cento dell’azienda che gestisce la struttura, ma i servizi segreti tedeschi e il ministero della difesa erano contrari. Così i cinesi si sono dovuti accontentare del 24,9 per cento, una quota che li taglia fuori dalle decisioni più importanti.

Anche l’India si vuole inserire nella corsa al commercio marittimo. Entro il 2030 New Delhi prevede di concludere i lavori per il porto di Vadhvan, vicino a Mumbay. L’infrastruttura, che costerà nove miliardi di dollari, sarà in grado di gestire 23 milioni di container. In tutti questi progetti giocherà un ruolo fondamentale quell’automazione che ha messo in allarme i lavoratori statunitensi. Particolarmente significativo, da questo punto di vista, è l’esempio di Singapore, che vuole sfruttare ancora meglio la sua posizione strategica nello stretto di Malacca, una delle rotte più importanti dell’economia globale. Il porto della città-stato asiatica, già oggi il secondo più importante al mondo dopo quello cinese di Shanghai, si sta preparando ad aumentare la sua capacità di gestire container puntando sui robot: investirà quindici miliardi di dollari in un nuovo terminal completamente automatizzato, capace di movimentare venti milioni di container all’anno dal 2027 e 65 milioni dal 2040.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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