Il progetto di Donald Trump di rifare grande l’America assicurandole una nuova età dell’oro passa anche per la riconquista del dominio nel trasporto marittimo. Come ormai d’abitudine, l’inquilino della Casa Bianca ha pensato di raggiungere il suo obiettivo imponendo una serie di dazi, apparentemente senza calcolarne le ricadute negative o comunque, se l’ha fatto, convinto che la sofferenza prodotta sia solo un male passeggero, un passaggio inevitabile per migliorare la sorte degli statunitensi. Il 21 febbraio l’ufficio del Rappresentante per il commercio degli Stati Uniti d’America (United States trade representative, Ustr), un organo che agisce per conto del presidente sulle questioni del commercio internazionale, ha proposto l’introduzione di dazi sulle navi commerciali cinesi che attraccano nei porti statunitensi.

L’idea è maturata in seguito a un’inchiesta cominciata durante il mandato del presidente Joe Biden e chiusa poco prima dell’entrata in carica di Trump: il rapporto finale sostiene che la Cina domina in modo sleale il trasporto e la logistica marittima e la cantieristica navale, rendendo urgente un’azione per correggere gli squilibri. Il piano dell’Ustr prevede varie tariffe che possono arrivare fino a tre milioni di dollari per ogni nave arrivata in porto. Un’altra misura stabilisce che almeno il 15 per cento delle merci statunitensi deve essere trasportato su navi fabbricate e gestite negli Stati Uniti. Attualmente la soglia è dell’1 per cento.

I progressi registrati dalla Cina nel trasporto marittimo sono impressionanti. Nel 1999 il paese asiatico produceva solo il 5 per cento delle navi da carico in circolazione, mentre oggi ha superato il 50 per cento, sfidando i tradizionali colossi giapponesi e sudcoreani. Invece le navi da carico costruite dagli statunitensi sono appena lo 0,01 per cento del totale. Nel 2024, inoltre, la Cina possedeva il 19 per cento della flotta commerciale mondiale e controllava il 95 per cento della produzione di container. Secondo l’Ustr, il dominio cinese è dovuto ai prezzi bassi permessi dai sussidi di stato e dallo sfruttamento della manodopera. Questa situazione, sottolineano a Washington, pone “rischi per la sicurezza economica” del paese.

La proposta dell’Ustr è stata sottoposta al vaglio delle aziende in due giornate, il 24 e il 26 marzo. Le osservazioni sono state tutt’altro che entusiaste. Tutti temono un’esplosione dei costi e lo sconvolgimento del sistema dei trasporti marittimi mondiale. Secondo Joe Kramek, amministratore delegato del World shipping council, il progetto “non funzionerà, ma danneggerà i consumatori e le aziende statunitensi, in particolare quelle agricole, facendo salire i prezzi e minacciando posti di lavoro”. John McCown, un veterano dell’industria del trasporto marittimo, parla addirittura di “apocalisse per il commercio”. Tra l’altro, la costruzione di nuove navi “made in Usa” richiederà decenni prima di soddisfare la domanda.

Il settore più preoccupato è senza dubbio quello agricolo, scrive il Financial Times. L’esportatore di cereali United Grain Corporation sostiene di aver già subìto un aumento del 40 per cento dei costi di trasporto, oltre ai rincari dovuti ai dazi cinesi su prodotti come i semi di soia e la carne di maiale, decisi da Pechino in risposta a quelli di Trump. In generale le aziende agricole e gli esportatori, che per un quinto del fatturato dipendono dai mercati esteri, stimano un aumento dei costi di trasporto pari al 60 per cento.

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Per restare competitive, molte aziende dovrebbero ridurre i prezzi, ma allo stesso tempo affrontare il rincaro di materie prime importate, come i fertilizzanti. Nel 2024 il 46 per cento dei fertilizzanti importati dagli Stati Uniti – 6,7 milioni di tonnellate – è arrivato su navi costruite in Cina. Se dovessero essere attuate le misure dell’Ustr, il costo dei fertilizzanti salirebbe di 62,5 dollari alla tonnellata.

La battaglia di Trump per il dominio sui mari va ben al di là delle tariffe sulle navi cinesi. Come spiega Rana Foroohar in un’interessante analisi sul Financial Times, gli Stati Uniti vogliono il controllo delle rotte strategiche per il commercio. Si spiega così l’interesse della sua amministrazione per la Groenlandia e il Canada. “Oggi”, scrive Foroohar, “il ‘nuovo grande gioco’ non riguarda l’Asia centrale, né zone calde come l’Ucraina, Gaza o il mar Cinese meridionale, ma le acque gelide del mare Artico”. Il dominio di questa regione, dove sono molto attive la Russia e la Cina, “sarà cruciale per il controllo dell’intero emisfero occidentale, che è l’obiettivo di Trump”.

Rientra in quest’ottica anche la lotta per il controllo del canale di Panamá. Il 4 marzo un consorzio di investitori guidato dal fondo statunitense BlackRock ha siglato un accordo con il gruppo Ck Hutchison, che ha sede a Hong Kong, per comprare le quote di maggioranza di alcuni porti, in particolare di quelli posti alle due estremità di questa infrastruttura fondamentale per il commercio marittimo mondiale. Trump aveva detto spesso che era un obiettivo e per questo ha esercitato forti pressioni sulla BlackRock per concludere l’affare.

A quanto pare la notizia ha fatto andare su tutte le furie Pechino. Bloomberg scrive che il presidente Xi Jinping vuole esaminare l’affare della Hutchison, un’azienda controllata dal miliardario Li Ka-shing, concluso senza chiedere l’approvazione di Pechino. Xi accusa Li di aver agito contro gli interessi cinesi: secondo il Wall Street Journal, infatti, Pechino prevedeva di usare la questione di Panamá come pedina di scambio in eventuali negoziati con la Casa Bianca.

La firma definitiva dell’accordo con il consorzio guidato dalla BlackRock era prevista per il 2 aprile, ma nel frattempo Li ha subìto pressioni fortissime. Le autorità cinesi sono andate alla ricerca di dettagli del contratto che possano giustificare accuse di rischio per la sicurezza nazionale o violazione della legge antitrust, in modo da bloccare l’affare. La stampa vicina a Pechino sostiene che Li deve scegliere da che parte stare e invita tutti gli imprenditori a comportarsi da “patrioti orgogliosi”. Xi, inoltre, ha ordinato di bloccare qualunque affare tra lo stato cinese e le aziende di Li. Le azioni del gruppo sono in ribasso: molti, infatti, pensano che il governo, non riuscendo a impedire la vendita dei porti, si possa vendicare colpendo altre aziende del magnate di Hong Kong. Alla fine il 28 marzo è arrivata la notizia che la Hutchison ha deciso di rinviare la firma dell’accordo.

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