Erano mesi che la società palestinese preparava “la grande Marcia del ritorno”, una manifestazione pacifica rivolta all’opinione pubblica mondiale per riportare l’attenzione sulla causa palestinese. Per l’occasione i palestinesi volevano mostrarsi uniti e pacifici. Il massacro del 30 marzo invece ha fatto vedere in diretta l’uccisione di 17 giovani disarmati e il ferimento di 1.400 persone da parte dei cecchini israeliani.

La marcia era stata indetta per ricordare la nakba, la “catastrofe” che settant’anni fa cambiò la vita di generazioni di palestinesi. Il 70 per cento dei 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza è composto da rifugiati, le cui famiglie furono allontanate nel 1948 dai territori su cui è nato Israele, e non hanno la possibilità di tornare a casa né di uscire dall’enclave palestinese.

Nell’aprile del 2018, dopo un lungo decennio di divisioni interne tra Hamas e Al Fatah, tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, i palestinesi hanno deciso di presentarsi di nuovo al mondo.

Si è aperta una nuova pagina della lotta palestinese. “Gli israeliani non hanno potuto credere ai propri occhi”, commenta lo scrittore Elias Khoury sul quotidiano panarabo Al Quds al Arabi. “Non potevano concepire che la grande Marcia del ritorno non fosse un movimento terroristico, ma un’iniziativa totalmente pacifica”.

Dopo le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump su Gerusalemme, i tagli statunitensi all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, e i segnali di abbandono dell’Arabia Saudita, che si sta avvicinando a Israele, “il sogno della destra israeliana si è avverato”, scrive Al Quds al Arabi. E aggiunge:

Dalla presa di potere di Trump negli Stati Uniti, la soluzione dei due stati è sparita dai negoziati sia con Israele sia con la comunità internazionale. L’ambasciata degli Stati Uniti sta per essere spostata a Gerusalemme, le critiche degli Stati Uniti a Tel Aviv per l’espansione delle colonie sono diminuite, il presidente palestinese Abu Mazen è a fine mandato, senza avere ottenuto nessun risultato e Hamas è sempre più isolato.

Davanti allo stallo diplomatico e a una situazione umanitaria insostenibile, a Gaza molti leader palestinesi propendono per la soluzione a un unico stato. Il parallelo con il Sudafrica viene da sé e i richiami alla strategia di Nelson Mandela riempiono le pagine dei quotidiani arabi.

Le organizzazioni palestinesi, i partiti e le fazioni armate hanno deciso di rimettere al centro il pacifismo e il diritto dei rifugiati a tornare nelle loro terre. I dodici punti accettati da tutte le organizzazioni coinvolte nelle proteste a Gaza erano chiari: “L’unica bandiera che dovrà essere sventolata durante la marcia è quella palestinese e saranno vietati gli slogan dei partiti. Vogliamo solo dare voce alla risoluzione 194 dell’assemblea generale dell’Onu (che sancisce il diritto di ritorno) e agli slogan umanitari in arabo, inglese ed ebraico”.

Un appuntamento mancato
Quando i palestinesi non contano più nulla nei negoziati internazionali, provano a vincere la battaglia morale sui mezzi d’informazione. Lo scrive Hamas sul suo sito: “Vogliamo sottolineare che la marcia è pacifica. Parteciperemo alla marcia con le nostre mogli e i bambini. Vogliamo presentarci disarmati alle frontiere delle nostre terre occupate per portare il nostro messaggio al mondo. Vogliamo anche avvertire l’occupazione israeliana di non attaccare una folla disarmata e pacifica, tra cui ci saranno molte donne, bambini e anziani”.

Ma l’opinione pubblica internazionale non si è presentata all’appuntamento e la risposta dei mezzi d’informazione occidentali non è stata quella sperata, spiega Middle East Monitor: “I mezzi d’informazione occidentali hanno definito i fatti di venerdì ‘scontri’, ‘combattimenti’ o ‘proteste pacifiche diventate violente e sanguinose’ come se i manifestanti palestinesi disarmati e i soldati israeliani armati potessero essere messi sullo stesso piano”.

Le marce pacifiche potrebbero essere un modo per obbligare il mondo a sfidare l’oppressione israeliana

I soldati hanno ricevuto l’ordine di sparare per uccidere. Non ci sono stati “scontri” o “combattimenti”, scrive Yousef Alhelou nel suo articolo. “I pacifisti palestinesi sono stati schiacciati dall’uso sproporzionato della forza israeliana”. In Israele le reazioni di condanna sono state molto forti, scrive Al Quds.

Il giornalista Gideon Levy ha parlato di “massacro”, il direttore di B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, chiede un’inchiesta indipendente per chiarire le circostanze dei morti civili.

Su Gaza Kobi Meidan, un autorevole giornalista della radio israeliana, ha dichiarato di “vergognarsi in quanto israeliano”. Tuttavia sembra che “la vergogna non sia più permessa in Israele” con l’estrema destra al potere. Il giornalista radiofonico è stato sospeso, dopo la trasmissione.

La controffensiva mediatica palestinese si è spostata quindi sui social network: le immagini video della strage hanno fatto il giro del mondo. Dalla corsa di Addul Fattah Abdul Nabi, il diciannovenne che corre con una ruota in mano, evita le pallottole per cadere sotto agli spari mentre dà le spalle ai cecchini israeliani; alle foto della giovane ragazza circondata da una catena umana di adolescenti che provano a proteggerla con i loro corpi.

E ancora: le immagini del piccolo Mohammed Ayyash, “il bambino con la maschera di cipolla” messa insieme per proteggersi dai gas o ancora il viso del giovane artista Mohamed Abu Nmr, 26 anni, che ventiquattr’ore prima di morire aveva creato una scultura di sabbia con la scritta “Sto tornando” sulla spiaggia di Gaza.

Queste immagini sono diventate simboli della resistenza di un popolo. Per questo “devono fare il giro del mondo”, scrive speranzoso Al Ayyam, il quotidiano palestinese di Ramallah. Tareq Baconi, studioso del Palestinian policy network scrive sul Guardian che la Marcia di Gaza è da interpretare come “una sveglia” per il mondo.

Baconi spera che nonostante le violenze subite, il movimento resti pacifico: “Come dimostrano i funerali svolti a Gaza questo weekend, le proteste contro la repressione israeliana finiscono spesso in tragedia. Se è difficile promuovere ancora una resistenza popolare davanti a una risposta violenta e inevitabile, i palestinesi devono comunque riflettere sul potere della disobbedienza civile nell’affermare i loro diritti personali e collettivi inalienabili. Le marce pacifiche in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, nelle città israeliane e nei paesi confinanti potrebbero essere un modo di obbligare il mondo a sfidare l’oppressione israeliana”.

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