Questo articolo è stato pubblicato l’11 giugno 2010 nel numero 850 di Internazionale.
Devo i miei anni come cronista di jazz a Ricorda con rabbia di John Osborne, che a metà degli anni cinquanta costrinse l’establishment culturale britannico ad accorgersi di una musica così evidentemente cara ai nuovi e talentuosi giovani arrabbiati. Ero un po’ a corto di soldi, e quando vidi che Kingsley Amis scriveva per l’Observer su un argomento che palesemente non conosceva più di me, e forse anche meno, telefonai a un amico del New Statesman.
Lui mi organizzò un incontro con il direttore, Kingsley Martin, che disse “perché no?”, mi spiegò che immaginava il lettore standard della rivista come uno statale maschio sui quarant’anni, e mi passò al comandante dell’altra metà (culturale) della rivista, la formidabile Janet Adam Smith. I suoi interessi spaziavano dall’alpinismo alla poesia, ma non comprendevano il jazz. Firmandomi “Francis Newton” (dal nome di un trombettista jazz comunista che suonò in Strange fruit di Billie Holiday), tenni una rubrica mensile sul New Statesman per una decina d’anni.
Era un bel periodo per scrivere di jazz. Non solo la mia rubrica mi permetteva una tregua dalle convulsioni personali e politiche del 1956, l’anno della crisi comunista, ma era la prima volta dal 1935 che i jazzisti americani si potevano ascoltare dal vivo in Gran Bretagna. Prima di allora, il classico appassionato di jazz inglese aveva sostanzialmente seguito una dieta di dischi a 78 giri, analizzati meticolosamente dai ragazzi che vivevano al piano di sopra o nei rhythm club degli anni trenta.
Un numero sorprendente di questi dischi era stato inciso negli Stati Uniti per il mercato britannico, ma i veri aficionados, soprattutto il gruppo ristretto ma devoto di entusiasti del blues, avevano anche creato delle reti autonome per importare dischi americani. Io avevo vissuto ai margini di questa comunità di esperti fin dai primi anni trenta grazie a mio cugino Denis Preston, ma prima che l’esempio di Kingsley Amis mi desse coraggio ero troppo pieno di soggezione per partecipare ai loro dibattiti. Giovani e piuttosto provinciali, inesperti del mondo e musicalmente incolti, erano critici appassionati e propagandisti, più che veri professionisti.
Essere Francis Newton
Quando arrivò Francis Newton, gli aficionados avevano già creato una scena giovanile assolutamente originale nel jazz tradizionale, che riproduceva diverse versioni del jazz di New Orleans e del country blues, all’epoca molto più noto in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. In uno dei miei primi articoli sottolineai l’improvviso successo economico del jazz tradizionale “e perfino dell’ultimo rifugio contro la bancarotta, il blues cantato”, come dimostravano le imitazioni remunerative ma scialbe di Reckless blues di Bessie Smith e una versione di Rock island line, la canzone carceraria resa famosa da Huddie Ledbetter, interpretata da un innocente chitarrista britannico, Lonnie Donegan, che finì in vetta a tutte le classifiche.
“Cosa significa?”, chiedevo nel mio pezzo. Ora sappiamo che significava la nascita della scena rock britannica, i Beatles e i Rolling Stones, pronti a trasformare l’industria pop americana nei primi anni sessanta. Non conquistò mai la mia generazione e quella di tanti jazzisti, né i musicisti professionisti degli studi di registrazione, che trasformavano in musica dei prodotti scadenti e amatoriali.
Ma cosa significava per me essere Francis Newton? L’attrattiva non era tanto nell’opportunità di recensire spettacoli di jazz o i dischi che ora arrivavano a fiumi, e neppure di inserire questa musica straordinaria nella società del novecento. Era la possibilità di capire i musicisti e il loro mondo: “la scena jazz”.
Vivevo a due passi dal West End e insegnare all’università mi lasciava libera buona parte della giornata, quindi potevo conciliare la mia professione con le abitudini nottambule della scena. La mia base principale era il Downbeat Club di Old Compton street, a pochi minuti a piedi da casa mia, un locale che utilizzavo come postazione di controllo quando ero fuori servizio, come tanti dei musicisti di Londra e dei loro seguaci. Il Downbeat era un circolo, anche se ci si poteva suonare e a volte ingaggiava un pianista.
Ronnie Scott intanto aveva aperto vicino a Leicester square il suo nuovo locale in cui non si andava per bere e chiacchierare, ma per ascoltare la musica. A Soho c’erano anche dei posti che aprivano fuori orario e dove si potevano fare tutte e due le cose. Mi ricordo meglio i locali che i concerti con cui i musicisti in tournée si guadagnavano da vivere, anche se fu solo negli Stati Uniti che scoprii la gloria di una scena jazz basata soprattutto sui club.
Devo essere stato uno degli ultimi a sentire la grande orchestra di Duke Ellington, visibilmente a suo agio nel proprio ambiente naturale, che suonava in un autentico locale jazz “fondendo”, scrissi, “una difficile platea di attempati dottori, avvocati e giornalisti di San Francisco con habitué fedeli come mogliettine devote”. Suppongo che questo concerto e l’aver incontrato il pianista Bud Powell nella sua stanza d’albergo a Parigi, totalmente catatonico tranne quando era alla tastiera, siano i miei ricordi più vivi degli anni del jazz.
Diventò subito ovvio che c’era una notevole differenza sia di gusto sia di contesto fra quelli di noi – per lo più scrittori di jazz, ma anche musicisti di successo – che si erano innamorati di quella musica negli anni trenta e quaranta, e il piccolo drappello di seri musicisti britannici di professione che suonavano e costituivano l’unico vero pubblico del jazz “moderno” prima che Miles Davis cominciasse a lasciare il segno.
Scrivere di jazz negli anni cinquanta significava, in sostanza, cercare di capire o almeno venire a patti con il bebop, ma non so quanto io ci sia riuscito, a parte la mia ammirazione per Thelonious Monk e un’immediata passione per il talento supremo di Dizzy Gillespie, il più sensazionale trombettista del mondo, che aveva tutti i doni ma non era disposto a mettere a nudo la sua anima come aveva fatto Charlie Parker.
Guida del jazz londinese
Amavo la compagnia dei musicisti, e loro mi accettavano come una presenza bizzarra della scena (nessun ambiente è più tollerante di quello dei jazzisti), e a volte come una specie di enciclopedia ambulante che poteva rispondere alle loro domande non musicali. Ne ricordo una della ragazza di un sassofonista, che mi chiedeva se è giusto credere in Dio. Ma un non musicista poteva davvero capire come sono fatti i musicisti creativi, per quanto restasse in loro compagnia?
Dopo tutto, come mi disse uno di loro (credo che fosse il sassofonista tenore Sonny Stitt), “le parole non sono il mio strumento”. Per un non musicista bianco, avvicinarsi agli artisti neri era ancora più difficile. Fino al grande esodo dei musicisti americani negli anni sessanta, quando la scena jazz statunitense crollò, ben pochi di loro vivevano in Europa.
A dire il vero, non sembrava esserci nessuna differenza tra bianchi e neri al Downbeat Club, e la giovane Cleo Laine si sentiva perfettamente a suo agio quando si definiva “una negra cockney”. Ma i musicisti afroamericani in tournée erano sensibili al problema della razza perfino nella tollerante Europa, e quasi certamente lo erano anche i britannici delle Indie Occidentali come l’avventuroso altosassofonista giamaicano Joe Harriott, figura importante della scena di allora.
Eppure, grazie alla loro vita on the road, gli americani erano abituati a sentirsi fare domande da ammiratori bianchi, e i musicisti più esperti che si affidavano interamente al circuito bianco, soprattutto i cantanti di blues, avevano sempre pronta una risposta adeguata.
Come unico accademico che scriveva di jazz, e per un contesto culturalmente d’alta classe, Francis Newton si trovò a fare la guida turistica della scena londinese per gli intellettuali stranieri. Si trovò anche trascinato nella bohème dell’avanguardia culturale britannica, che si sovrapponeva alla scena jazz non-bop.
George Melly e “Trog” (il clarinettista Wally Fawkes) stavano già producendo Flook, la loro striscia a fumetti satirica e socialmente acuta, pubblicata – incredibile a dirsi – dal Daily Mail. Ho ancora la tessera del Colony Club di Dean Street, un circolo per bevitori. L’alcol però non era la mia scena e il jazz non era la loro, anche se a un certo punto avevano della musica di sottofondo decente suonata da un gradevole pianista delle Indie Occidentali.
Fui incaricato quasi subito di scrivere un libro. Meglio ancora, essere Francis Newton rafforzò i miei contatti con quelli da cui dipendevano i musicisti: agenti, impresari e il resto dell’industria della musica pop di cui il jazz occupava un angolino. Le loro opinioni private sul talento degli artisti divergevano sensibilmente da quelle pubbliche.
Mi trovai anche a essere parte della rete globale degli intellettuali amanti del jazz. Dal momento che fuori dalla Gran Bretagna i jazzofili si consideravano ancora una sorta di credo musicale clandestino, se non perseguitato, loro – e in particolare gli scrittori – formavano un’internazionale straordinariamente efficace, basata sulla fiducia e l’assistenza reciproca.
Un rapporto che raggiungeva la vetta estrema in Giappone, dove, in certi minuscoli bar, gli accademici più formali – e chi può essere più formale di un preside di facoltà giapponese? – mi parlavano con una franchezza altrimenti inconcepibile, semplicemente perché un ospite sconosciuto era un appassionato di jazz. Ben presto scoprii che la solidarietà jazzistica era altrettanto intensa in Cecoslovacchia, insieme all’esaltazione di Kafka come primo passo della primavera di Praga. Come dimostrarono negli anni cinquanta le colonne sonore di Miles Davis e del Modern Jazz Quartet per i film della nouvelle vague, dagli intellettuali francesi ci si aspettava che fossero aggiornatissimi sul jazz moderno ma, tanto per cambiare, non si curavano troppo dei critici di jazz non francesi.
Lo tsunami del rock
Negli Stati Uniti la solidarietà jazzistica aveva risvolti più pratici. I giornalisti di jazz locali facevano tutto il possibile per aiutare uno sconosciuto di Londra: gli prenotavano un albergo al Greenwich Village o lo passavano da un critico all’altro perché lo guidassero sulla scena di una città poco familiare. Era d’aiuto il fatto che molti agenti di jazz e blues provenissero dalla sinistra degli anni trenta e quaranta: soprattutto il più grande di tutti i talent scout, John Hammond jr, i cui giudizi hanno largamente influenzato i miei.
Fu solo durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti, dove si potevano seguire contemporaneamente tutte le scuole e gli artisti, che mi resi conto di quanto fosse stato fortunato Francis Newton: quella era l’età dell’oro del jazz, soprattutto da quando anche gli ultra-bopper degli anni quaranta erano rientrati nel mainstream rinnovandolo.
Fu solo durante il mio secondo viaggio, nel 1963, che mi resi conto della rapidità con cui lo tsunami del rock aveva spazzato via tutto. Durante buona parte dei vent’anni successivi, per i giovani il jazz non è esistito o quasi, tranne che nell’ambiente universitario dove era parte della cultura alta degli adulti: come la musica classica, ma più in piccolo. E il pubblico che si ostinava a frequentare i concerti era spaccato dal nuovo fenomeno del free jazz, musicalmente radicale. Paradossalmente, tutto questo finì per isolare dalla sua originaria comunità afroamericana quello che nel jazz era il movimento più radicale in campo politico ed etnico.
Ormai la mia vita stava cambiando. Mia moglie Marlene sostiene che le proposi di sposarci a un concerto di Bob Dylan. Il matrimonio e i figli inevitabilmente posero fine allo sregolato stile di vita notturno di Francis Newton, anche se le recensioni di concerti e di dischi continuarono. Però era meno divertente.
L’eccezione fu la sbalorditiva prima esibizione in Gran Bretagna di Ray Charles, che avevo sentito una volta insieme a una manciata di bianchi in un angolo di una grande sala di Oakland, in California, quando ancora era conosciuto solo dal pubblico nero. Non avevano ballato molto mentre cantava.
Quando venne a Londra non era una vera e propria pop star ma era già un’icona per gli appassionati di jazz e sicuramente già un mostro sacro. Entusiasmò il pubblico del Finsbury Park Astoria con la sua “solenne” voce da blues in uno stile che fondeva lo show business con il sentimento che mette l’anima a nudo.
Rabbrividisco ancora al ricordo di quell’uomo gobbo, magro, infelice e cieco che fece sciogliere il pubblico cantando “once I was blind, but now I see”. E questo, insieme alla mia spettacolare incapacità di intuire il potenziale dei Beatles (non ho mai avuto tempo per gli Stones), è l’ultimo ricordo degli anni di Francis Newton che scriveva di jazz per i lettori del New Statesman.
Questo articolo è stato pubblicato l’11 giugno 2010 nel numero 850 di Internazionale.
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