L’ultima sanzione che ha fortemente voluto, il ministro leghista dell’istruzione Giuseppe Valditara è riuscito a farla prendere a grigi funzionari dell’ufficio scolastico provinciale di Roma, che hanno risposto con incredibile solerzia a indubbie sollecitazioni, arrivando a sospendere per tre mesi l’insegnante e scrittore Christian Raimo, con il dimezzamento dello stipendio. L’accusa a Raimo è quella di avere paragonato, in una pubblica manifestazione, la politica del ministro alla Morte nera, l’arma di distruzione di massa del film Guerre stellari.
La sanzione è stata giustificata in base a un articolo del codice di comportamento dei dipendenti pubblici sull’utilizzo “dei mezzi di informazione e dei social media”. L’ultima formulazione, sancita con decreto del 14 luglio 2023 recita così: “1. Nell’utilizzo dei propri account di social media, il dipendente utilizza ogni cautela affinché le proprie opinioni o i propri giudizi su eventi, cose o persone, non siano in alcun modo attribuibili direttamente alla pubblica amministrazione di appartenenza. 2. In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.
In un appello sottoscritto da numerose e numerosi intellettuali ed artisti si rileva come quel regolamento sia in palese contrasto con l’articolo 21 della costituzione italiana, in cui è scritto che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
L’umiliazione come valore
Credo sia utile ricordare che all’inizio del suo mandato il ministro Valditara è entrato nel dibattito educativo con la disinvoltura di un elefante. In una delle sue prime dichiarazioni ha proposto infatti, con enfasi, il valore dell’umiliazione come strada maestra per sanzionare trasgressioni e punire comportamenti ritenuti offensivi. Ignorando allegramente la differenza tra etimologie e assonanze, il ministro riteneva che, attraverso l’umiliazione, si potesse promuovere l’umiltà.
Chi lavora in campo educativo sa bene, al contrario, che un’umiliazione subita in famiglia, a scuola, sui social network, nel quartiere o in carcere produce frustrazione, moltiplica i risentimenti, genera avvilimento o risposte violente, attivando un circuito che si autoalimenta e che può divenire infernale.
Poiché le sparate dei ministri raramente non hanno effetti, a quasi due anni di distanza da quell’improvvisa uscita, ecco il compito che una maestra di una piccola città del nord ha affidato recentemente alle bambine e ai bambini della sua seconda primaria: “Scrivi tre regole IMPORTANTI per stare bene in classe. Poi scrivi tre SANZIONI per chi non rispetta TUTTE le regole. Fai il compito insieme ai tuoi genitori”.
Umiltà e sanzioni
La difficoltà della maestra a gestire la classe è evidente. Ma questo compito paradossale, in cui l’insegnante chiede aiuto ai genitori, che dovrebbero inventare insieme alle loro figlie e figli sanzioni adatte ad affrontare una situazione difficile, rivela qualcosa che serpeggia con sempre più insistenza nell’aria delle nostre scuole e non solo: il culto della sanzione.
Al ministero guidato da Valditara si è cominciato con l’aggiungere la parola “merito” accanto a “istruzione”, a cui era stato già sottratto, al tempo della ministra Moratti nel governo Berlusconi, l’indispensabile aggettivo di “pubblica”. Il ministro ha poi aggiunto di suo la balzana idea che l’umiltà potesse essere raggiunta attraverso la coercizione.
Ma l’umiltà è ben altra cosa. È una virtù rara e preziosa la cui acquisizione richiede tempo, costanza e contesti accoglienti, capaci di farci riconoscere i nostri limiti e imparare a viverli come possibilità di maggiore apertura al mondo e agli altri. L’umiltà permette un ascolto sincero a chi l’assuma come postura, perché attenua il nostro continuo giudicare. È in qualche modo seme di democrazia, che mai come oggi ci accorgiamo essere una forma di convivenza necessaria, eppure fragile, che vive solo se si riconoscono e accolgono dei limiti, nel piccolo e nel grande, da concordare e condividere.
La democrazia si dispiega compiutamente quando si fonda su fonti di autorità diverse che si compensano e controllano tra loro: in primo luogo mezzi d’informazione liberi da censure e tribunali con giudici indipendenti. C’è poi la funzione della scuola, che dovrebbe compensare le disuguaglianze e fornire il maggior numero possibile di linguaggi e strumenti di consapevolezza e libertà a tutte e tutti.
Piero Calamandrei sosteneva che se lo stato fosse un corpo la scuola dovrebbe essere l’organo ematopoietico, cioè il luogo in cui si forma il sangue che arriva e alimenta tutte le cellule, nessuna esclusa. Ma nel tempo di Donald Trump e di Viktor Orbán, dei populismi rampanti e di Giorgia Meloni, che si autorappresenta come emanazione diretta del popolo, vengono mal sopportati i necessari meccanismi di autocorrezione che regolano ogni democrazia. In questo tempo e contesto, quale idea di scuola propone la destra al governo?
Criminalizzazioni
Trasformare le nostre classi in comunità fondate sul rispetto reciproco non è compito facile e comincia fin dalla scuola dell’infanzia, perché la democrazia si apprende solo sperimentando nel quotidiano forme concrete di democrazia, come sosteneva il filosofo e pedagogista John Dewey. E allora affidare questo compito complesso a un maggior peso da dare al voto di condotta non solo è inefficace, ma va nella direzione contraria rispetto ai valori di un’educazione democratica.
Infatti sono proprio le pratiche di scuola attiva che il ministero cerca di smontare a una a una. Poiché la destra, minoritaria tra i giovani, ambisce a trasformare la cultura e l’immaginario collettivo, pensa di potere addomesticare le nuove generazioni legiferando in modo repressivo e attaccando le diverse forme di organizzazione e manifestazioni collettive.
Fin dai primi mesi del governo Meloni si è passati dalla criminalizzazione dei rave alla messa al bando della cannabis light, da un aumento delle pene tese a contrastare atti simbolici di protesta al considerare la resistenza passiva un reato, con una legge che è stata giustamente ribattezzata anti-Gandhi.
In generale si tende ad affrontare ogni disagio aumentando le pene di chi non ci sta, ne soffre e si ribella. Questo legiferare educativo, teso a rimodellare i comportamenti sociali, attaccando ogni forma di opposizione, nella scuola si concretizza in provvedimenti evidentemente punitivi contro ogni trasgressione, come il trasformare in reato proteste e occupazioni, e il maggiore peso dato al voto di condotta, che d’ora in avanti inciderà assai di più sulla valutazione complessiva.
C’è poi una costellazione di piccoli interventi chirurgici mirati, che ben delineano i tratti dell’egemonia culturale che si vorrebbe imporre alla scuola. Alcuni dettagli sono rivelatori. La riforma del sistema di orientamento prevede trenta ore obbligatorie affidate a un tutor e a una piattaforma digitale, che dovrebbe riconoscere talenti, attitudini e meriti. Lavorare nella scuola, specie con i più fragili, all’individuazione e alla costruzione di un progetto di vita è compito serio e rilevante. Inoltre, come spesso accade, ciò che è utile e necessario per chi ha più difficoltà può attivare e liberare potenzialità di tutte e tutti.
Ma “per essere realmente al servizio del progetto di vita di ognuno, l’orientamento non può che essere un orientamento didattico, coinvolgere tutti gli insegnanti e, soprattutto, deve investire tutto il percorso scolastico. Altrimenti, così concepito e istituzionalizzato, risponde al solo scopo di allineare la scuola alla domanda del mercato del lavoro”, denuncia Anna D’Auria del Movimento di cooperazione educativa. Inoltre, ridurre la filiera formativa tecnologico-professionale a quattro anni vuol dire allargare ulteriormente il fossato già profondo tra scuole destinate a riprodurre disuguaglianze e disponibilità allo sfruttamento e scuole frequentate da figli di famiglie più ricche.
Ambiente dimenticato
Altre operazioni chirurgiche, che delineano i tratti dell’involuzione culturale che si vorrebbe imporre alla scuola si trovano nelle nuove linee guida per l’educazione civica. L’agenda 2030, promossa dalle Nazioni Unite, era uno degli assi portanti della legge sull’educazione civica votata nel 2019. Quel testo recepiva in qualche modo le preoccupazioni e le istanze ecologiche delle mobilitazioni che avevano portato la generazione di Greta Thunberg a riempire le piazze italiane e di tutto il mondo prima della pandemia. Quell’agenda ora è relegata a una piccola nota a piè di pagina, delineando un’idea di sostenibilità totalmente subalterna allo sviluppo economico, alla imprenditorialità e al “made in Italy”, a cui è dato grande spazio.
L’enfasi sullo sviluppo economico come unico fattore di miglioramento della vita ha il preciso scopo di eclissare ogni lettura critica delle disuguaglianze sociali, della loro moltiplicazione e dei danni ambientali prodotti da un modello economico i cui limiti sono davanti ai nostri occhi. Nel punto dedicato a “individuare e illustrare i diritti fondamentali delle donne” si parla di “promuovere la parità fra uomo e donna e di far conoscere l’importanza della conciliazione vita-lavoro, dell’occupabilità e dell’imprenditorialità femminile”.
L’ex ispettrice del ministero dell’istruzione Franca Da Re, esperta di didattica delle competenze, pone a questo proposito alcune domande ineludibili: “La conciliazione vita-lavoro è importante solo per le donne? Solo le donne hanno un’altra vita in cui assolvere altri compiti? I diritti fondamentali delle donne sono diversi da quelli delle persone in generale?”. Da Re, ragionando sulle linee guida in un articolo pubblicato su Tuttoscuola, rileva come la lettura della costituzione che è proposta sottolinei una concezione personalistica, da cui deriva che la persona non debba essere subordinata alla società. Tutto ciò mette in ombra i doveri dei singoli verso la comunità espressi nell’articolo 2 della nostra legge fondamentale in cui, oltre a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, si “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Queste linee guida sono state bocciate dal consiglio superiore della pubblica istruzione. La risposta del ministro, in linea con i comportamenti del governo Meloni, è stata quella di proporre il raddoppio dei componenti di nomina ministeriale in quell’organo di consultazione democratica.
Ritorno alle classi differenziali?
Rispetto all’inclusione da tempo si è aperto un dibattito di grande interesse sul ruolo che debbano avere le insegnanti e gli insegnanti di sostegno. Si tratta di progettare e attuare un sostegno non alla singola ragazza o ragazzo, ma all’intera classe, per costruire giorno dopo giorno, con l’apporto di tutti, un contesto inclusivo, chiamando a una responsabilità attiva docenti e studenti. Per realizzare questo radicale cambiamento di ottica in alcune scuole primarie si stanno sperimentando delle cattedre miste, che permettono un intreccio di ruoli. Non più insegnanti solo di sostegno, ma insegnanti che in alcune ore svolgono attività di sostegno e in altre attività curricolari.
Di fronte a questioni complesse di questa natura, che richiedono ricerche e sperimentazioni serie, come risponde il ministero? Con la demagogia, e prospettando soluzioni improponibili. È stato ventilato, infatti, un provvedimento che va nella direzione opposta. Per venire incontro alle lamentele dei genitori si vorrebbe offrire loro la possibilità di chiedere il mantenimento dello stesso insegnante di sostegno sul posto per più anni, per scelta delle famiglie. L’esigenza di continuità naturalmente è una cosa seria, anche se va valutata caso per caso, ma l’idea che siano le famiglie ad avere voce in capitolo riguardo alla distribuzione dei posti di lavoro è ingestibile e profondamente sbagliata.
Nella corsa a chi le spara più grosse ha voluto dire la sua anche il generale Vannacci, che ha proposto di tornare alle classi differenziali. La cosa deve farci riflettere – sostiene Roberta Passoni, insegnante esperta e militante dell’inclusione – perché se c’è qualcuno che propone questo ritorno a un passato di esclusioni e discriminazioni, probabilmente in tanti pensano a soluzioni simili. E infatti, nelle scuole, sempre più si fanno avanti coloro che si sono sempre opposti a sperimentazioni innovative capaci di dare sostanza e continuità a reali processi di inclusione.
Oltre il sorvegliare e punire
Non accennano a diminuire i livelli di sofferenza di ragazze e ragazzi, costretti a crescere all’ombra di una pandemia che li ha segnati, accerchiati da guerre vicine e da mutamenti climatici dalle evidenti conseguenze, che le generazioni adulte non sembrano voler affrontare, dentro un orizzonte di crescente povertà, reso ancora più angusto per troppe e troppi da prospettive di lavoro sottopagato e precario.
Questo panorama provoca spesso comportamenti di chiusura, autolesionismo o forme d’insofferenza e aggressività difficili da gestire, che richiederebbero una seria e continuativa formazione di insegnanti e operatori e operatrici sociali, adeguatamente finanziata e diffusa in tutto il territorio nazionale, capace di integrare la didattica con una cura delle relazioni sempre più urgente e necessaria.
Ma attivare tutto ciò richiede uno sforzo di elaborazione culturale e la promozione di sperimentazioni educative, dentro e fuori dalle scuole, a cui la politica da tempo sembra sorda, se non con progetti saltuari o con provvedimenti risibili, come il ddl 845, votato a grande maggioranza al senato, che prevede l’introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive trasversali.
La dizione “competenze non cognitive” è assai discutibile, perché sono decenni che le sperimentazioni di scuola attiva e democratica si fondano sull’intreccio tra saperi e comportamenti, razionalità ed emozioni, costruzione di conoscenze e sviluppo di comunità di ricerca fondate sull’ascolto reciproco e il dialogo. Ancora più irritante è il fatto che la legge proposta dall’onorevole Lupi non preveda alcun finanziamento e incremento di personale e di orario. Come a dire: solleviamo la questione, ma solo per scherzo.
Tornando alla maestra che ha chiesto aiuto a genitori e bambini di sette anni per inventare nuove sanzioni più efficaci, credo che la sua fragilità debba farci riflettere. Mette infatti in evidenza quanto un’ottica fondata solo sul sorvegliare e punire avvilisca i singoli, le nostre classi e la società intera, minando alle fondamenta qualsiasi aspirazione alla costruzione di forme di convivenza fondate sulla fiducia e sull’apertura, difficili da realizzare ma necessarie oggi come non mai, per contrastare una politica reazionaria e oscurantista che le “competenze non cognitive” le vuole costruire sulla paura.
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