I Lankum sono nei camerini del teatro Celebrazioni di Bologna, seduti su un divano nero. È sabato 19 ottobre e hanno appena finito le prove del concerto, il cui inizio è previsto per le 21. Fuori dal teatro la pioggia continua a cadere senza sosta e in tutta l’Emilia-Romagna da stamattina c’è l’allerta per il maltempo. Le strade della città non sono ancora allagate, ma tra un paio d’ore la situazione precipiterà. “A Dublino piove tanto, ma così fa paura”, commenta Ian Lynch, cantante e polistrumentista della band irlandese, che è qui per la sua unica data italiana in occasione dell’anteprima del festival Barezzi (in programma a novembre a Parma). Un concerto molto atteso, dopo che il gruppo era stato costretto a cancellare il suo tour italiano nel 2023.
I Lankum sono arrivati in Italia da piccole star internazionali, grazie ad anni di gavetta. Il quotidiano britannico The Guardian ha eletto il loro quarto disco False Lankum migliore album del 2023. Perfino siti statunitensi come Pitchfork li hanno elogiati e la band ha raggiunto palchi importanti come quello di Glastonbury, uno dei festival più importanti del mondo. Il tutto senza nessun compromesso dal punto di vista artistico, o politico.
I Lankum, il cui nome deriva da un antico e misterioso brano della tradizione anglosassone, sono un quartetto e hanno uno stile unico: partono dal folk irlandese, un genere che studiano con una serietà da musicologi, ma trasformandolo in qualcos’altro. Si sono conosciuti a scuola e hanno cominciato a suonare insieme quindici anni fa nei pub di Dublino. La maggior parte del loro repertorio è fatto di rivisitazioni di brani del passato, ma ogni tanto scrivono anche dei loro pezzi. In alcuni momenti sembrano una band di musica ambient, in altri si fanno minacciosi come nessun gruppo metal riuscirebbe mai a essere, sconfinando quasi nelle atmosfere horror. Sono allo stesso tempo arcaici e contemporanei, onirici e impegnati politicamente. Possono cantare poetiche e rilassate canzoni d’amore, ma anche evocare massacri.
“Di solito ascoltiamo molte versioni dei brani folk tradizionali, ma quando registriamo cerchiamo di ripartire da zero, perché la nostra interpretazione non deve somigliare a nient’altro. Di solito è la canzone stessa a dirti di cosa hai bisogno. Se la ascolti nel modo giusto, capisci dove dovrai andare”, spiega seduta sul divano Radie Peat, voce principale e polistrumentista della band, una delle cantanti femminili più potenti della musica contemporanea. “Ci capita di girare per l’Irlanda, di andare ai festival folk per suonare con altre band, che magari c’insegnano brani che non conoscevamo”, aggiunge Peat, che porta i capelli rossi corti e grandi orecchini a cerchio.
Ian Lynch, cappellino da baseball, orecchie tatuate e orecchino al naso, prosegue il discorso: “Quando facciamo ricerca sui brani tradizionali ci troviamo di fronte a centinaia di registrazioni, ma alla fine, se ci pensi, si tratta solo di una canzone e di alcune parole. È uno scheletro, quello che vuoi costruirci intorno dipende da te”.
Di solito sono Ian Lynch e Radie Peat a rispondere alle domande, ma ogni tanto intervengono anche gli altri due musicisti, il violinista Cormac MacDiarmada e l’altro Daragh Lynch, fratello di Ian, che suona la chitarra e non solo. Ogni tanto i quattro si guardano tra loro e nascono dibattiti, scherzi, senza nessun divismo, come se fossimo davvero seduti in un pub di Dublino. “Noi usiamo la ripetizione dei suoni per creare ipnosi nel pubblico. La reiterazione ossessiva di un suono ha un potere catartico, è come per gli inni religiosi e la meditazione. Sarà anche perché ascoltiamo molto krautrock: i Neu!, i Faust e le collaborazioni di Brian Eno con i Cluster”. Quali sono le altre influenze della band? “Probabilmente una passione che abbiamo tutti in comune sono i Beak>, la band di Jeoff Barrow dei Portishead”, dice Daragh Lynch guardando gli altri, che annuiscono.
Il brano forse più famoso dei Lankum, ammesso che abbia senso usare questo aggettivo per un loro pezzo, è Go dig my grave. La canzone riprende una ballata anglosassone risalante al seicento: è la storia di una donna che s’impicca per una delusione d’amore. Go dig my grave contiene alcuni versi ricorrenti nel folk (in gergo si definiscono floating, perché fluttuano tra un brano e l’altro). Prima di suicidarsi, la protagonista chiede di scavare per lei una tomba grande e di metterle sul petto una colomba bianca per far sapere a tutti che è morta per amore.
Quando faccio notare che l’immagine della tomba è presente anche in canzoni tradizionali italiane come Bella ciao, i Lankum ovviamente si dimostrano preparatissimi. “Conosciamo quella canzone. L’abbiamo suonata qualche anno fa a un festival in Germania insieme a una band italiana. Ci sono altri brani tradizionali italiani che ci piacciono, come L’avvelenato. Non importa da che paese si viene: in fondo cantiamo tutti le stesse cose”, risponde la band.
Solidarietà ai palestinesi
Sono quasi le sette e ci avviamo verso il ristorante dove la band cenerà. Piove più di prima. È un breve percorso a piedi, ma Ian Lynch è senza ombrello e gli offro un passaggio. Lungo la strada gli chiedo se era nervoso di fronte al pubblico oceanico di Glastonbury. “No, devo dire che per noi è stato un concerto molto tranquillo”. In quell’occasione la band ha suonato anche The rocks of Palestine, una rielaborazione del brano folk The rocks of Bawn con la quale la band ha voluto dimostrare solidarietà al popolo palestinese.
“Penso che troppi musicisti siano un po’ codardi, perché non dicono niente sul genocidio a cui stiamo assistendo. Il ruolo dei musicisti dovrebbe essere quello di prendere posizione, di essere un faro per gli altri, ma pochi artisti lo stanno facendo. Magari si affannano a fare dichiarazioni su molti temi, ma poi stanno zitti sulla Palestina. Forse temono per la loro carriera, non so”, dice Lynch.
Siamo arrivati al ristorante, siamo zuppi. Nel frattempo la situazione attorno a noi si fa sempre più grave. Leggo sul telefono che il Ravone, il torrente che attraversa una parte di Bologna, è esondato insieme ad altri corsi d’acqua, e nel vicino comune di Pianoro un ragazzo risulta disperso dopo che è stato travolto dalla piena del torrente Zena mentre era in macchina con il fratello.
Finita la cena, la band torna al teatro con il furgone. Nonostante il maltempo, il pubblico è numeroso. I posti del teatro non sono esauriti, ma ci sono circa settecento spettatori. Il problema è che alle nove il concerto non comincia. Piove così tanto che la collinetta alle spalle del teatro si è riempita d’acqua. Ci sono delle infiltrazioni nel seminterrato, dove si trovano i camerini. I vigli del fuoco vanno a fare un’ispezione, per capire se l’acqua sta mettendo a rischio l’impianto elettrico del teatro. Dopo cinquanta minuti di attesa danno il via libera. Si può cominciare.
Ipnosi collettiva
Un bordone creato dagli strumenti annuncia l’arrivo della band, mentre il sipario è ancora abbassato. Poi si spengono le luci, il sipario si alza e la band attacca Wild rover, un pezzo inglese del seicento. La canzone racconta la storia di un ragazzo che è stato lontano dalla sua città natale per molti anni. Quando torna alla sua vecchia birreria, la padrona di casa si rifiuta di fargli credito, finché lui non presenta l’oro che ha guadagnato durante la sua assenza. Il ragazzo dice che i giorni da vagabondo sono finiti e che vuole tornare a casa. Radie Peat canta Wild rover con solennità, mentre il saliscendi della sua voce diventa quasi ipnotico.
I Lankum, quasi nascosti dal fumo e dalle scarsa illuminazione del palco, si alternano agli strumenti, cambiandone tantissimi. Ian Lynch per esempio suona le uilleann pipes, delle specie di cornamuse, ma ogni tanto fa partire anche dei loop da una postazione elettronica. Radie Peat mentre canta si accompagna con una concertina, una fisarmonica con due casse armoniche. E si capisce perché i Lankum sono così ossessionati dal concetto di ripetizione: più va avanti lo spettacolo, più le loro melodie reiterate diventano ipnotiche, come un rito purificatorio. Finito il primo pezzo, tra gli applausi, Ian Lynch saluta il pubblico e dice: “Benvenuti alla fine del mondo”, con evidente riferimento all’alluvione in corso.
Poi arriva The New York trader, un pezzo con un piglio quasi punk: il brano racconta la storia dell’equipaggio di una nave che si ritrova nelle mani di un comandante pazzo. Per mettere in salvo se stesso e i passeggeri, l’equipaggio getta il comandante in mare. E poi ecco The rocks of Palestine, al termine della quale Ian Lynch ribadisce il sostegno della band alla causa palestinese e si dichiara “contro ogni colonialismo”. Il pubblico accoglie tutti i brani con grandi applausi, sorprendendo anche il gruppo con un’accoglienza davvero calorosa.
La bella atmosfera, però, viene spezzata. “Purtroppo possiamo fare solo un altro pezzo”, dice Radie Peat prima di attaccare Go dig my grave. Nella prima parte, mentre lei canta prima dell’ingresso degli strumenti, in sottofondo si sentono gli scrosci di pioggia, e la band sembra metaforicamente a bordo di una nave che sta imbarcando acqua. Il crescendo del pezzo è sontuoso, catartico come ci si aspettava. Poi c’è tempo per un ultimo brano, la strumentale The pride of Petravore, uno dei momenti più ritmati, prima che la band ringrazi tutti ancora una volta e il sipario si chiuda, lasciando un po’ di amaro in bocca per aver visto solo un’ora e cinque minuti di un grande concerto di una band di altissimo livello. Viste le condizioni, in realtà, è già tanto che ci sia stata quell’ora.
Una volta usciti dalla bolla si capisce che la situazione è ancora più grave di com’era un paio di ore prima. Fuori non solo piove ancora, ma via Saragozza, la strada che porta verso il centro, è allagata. Le auto non possono circolare, così come gli autobus. Si torna a casa a piedi, in mezzo alle pozzanghere, alle sirene e in parte al buio, perché diversi quartieri sono rimasti senza luce. Sotto i portici qualche bar è rimasto aperto, si brinda e si festeggiano compleanni. Ogni tanto passa un rider in bicicletta che consegna da mangiare a domicilio. Qualcuno porta fuori il cane.
Nel frattempo si diffonde la notizia che il ragazzo disperso nei pressi di Pianoro è morto. Si chiamava Simone Farinelli. Migliaia di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Diverse strade della città, non solo via Saragozza, sono impraticabili e una buona parte dell’Emilia-Romagna è stata messa in ginocchio dal maltempo. Mentre torno a casa mi torna in mente la frase di Ian Lynch. “Benvenuti alla fine del mondo”. Guardandosi intorno stasera, e pensando con un po’ di angoscia agli effetti futuri del cambiamento climatico sulle nostre vite quotidiane, è difficile dargli torto.
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