È stata una di quelle cose che, in mancanza di una definizione migliore, chiamiamo ancora “caso”: proprio quella mattina mi sono chiesto che fine avesse fatto. Ho pensato a lui perché parlavamo di Ucraina, della primavera araba e di altre rivolte che hanno usato i suoi metodi, mi sono ricordato di quanto fosse anziano e dei suoi problemi di salute, e ho temuto per lui.

Qualche anno fa non sarei riuscito a liberarmi da questa paura, ma ormai non c’è più spazio per l’incertezza. La speculazione e le congetture che accompagnavano le mai abbastanza lodate chiacchiere da caffè sono cadute tra le grinfie di Google. Non c’è dubbio che abbia il diritto di durare più di 0,67 secondi. Questa volta l’informazione mi ha lasciato senza fiato: Gene Sharp era morto da poco, il 28 gennaio 2018.

Era nato nel 1928 a North Baltimore, in Ohio, figlio di un pastore protestante e di una casalinga. A diciott’anni andò all’università, diventò sociologo, lo vollero mandare in guerra. Nel 1953 lo condannarono a due anni di prigione per essersi rifiutato di combattere in Corea. Una volta scarcerato fece l’operaio, la guida per un cieco, il militante, il segretario di un leader sindacale pacifista.

Ricettari contro i dittatori
Poi se ne andò dagli Stati Uniti: visse alcuni anni in Norvegia e in Inghilterra, continuò a fare l’attivista, riprese gli studi, scrisse il suo primo libro sulle tattiche del mahatma Gandhi. Con il tempo il suo sguardo sulla nonviolenza perse idealismo e diventò pragmatico: gli sembrava il modo migliore per affrontare quelli che sono in grado di esercitare una violenza più grande, i dittatori.

Con questa prospettiva lavorò per anni ai tre volumi del suo lavoro più ambizioso, The politics of nonviolent action, che pubblicò nel 1973 mentre insegnava all’università del Massachusetts. Poi scrisse un altro libro, che avrebbe dato senso alla sua vita: Come abbattere un regime. Era quasi un opuscolo, cento pagine nate per aiutare alcuni esuli birmani. Negli anni novanta circolava clandestinamente in fotocopie e versioni pirata.

La sua tesi è che la resistenza alle dittature deve basarsi su una strategia pianificata e organizzata a priori. Bisogna identificare quali istituzioni sostengono il potere del dittatore per ostacolare il loro funzionamento, svuotarle, disarmarle, e mettergli fine. Per questo è necessario applicare diverse tattiche: il libro presenta un ampio ricettario.

Pensava, scriveva e aiutava i ribelli, coltivando orchidee

Spesso è stato efficace. L’hanno usato i serbi che hanno cacciato Slobodan Milošević, gli ucraini di Maidan, gli egiziani di piazza Tahrir, i tunisini, i georgiani, i venezuelani, gli iraniani. Gene Sharp è stato la loro guida da lontano: poche persone dei nostri giorni hanno avuto un’influenza altrettanto profonda e silenziosa.

Di tanto in tanto lo candidavano al premio Nobel per la pace. Di tanto in tanto qualche dittatore lo accusava di lavorare per la Cia, e in sua difesa si pronunciavano intellettuali come Noam Chomsky o Howard Zinn. Lui nel frattempo continuava a pensare, a scrivere e ad aiutare i ribelli, coltivando orchidee. Quattro anni fa, quando l’ho intervistato nella sua casa di Boston, era già molto malato.

Mi ha accolto raggomitolato sulla sua sedia a rotelle, minuto, sorridente, gli occhi azzurri. Abbiamo parlato per un paio d’ore. Verso la fine mi ha detto che a volte si chiedeva se la sua vita fosse servita a qualcosa.

“Ho sempre pensato che quando morirò dovrò lasciare questo mondo meglio di come l’ho trovato”, ha detto, e mi è sembrato molto vero. Arriva un momento in cui un uomo non cerca di avere altre risposte oltre alle due o tre che ha ottenuto durante la sua vita: quando non simula e non aspetta più.

E pensa di esserci riuscito?, gli chiesi. “Credo di sì. Non sempre, ma in qualche modo sì”. Dev’essere una sensazione tranquillizzante, vero?, domandai. “Aiuta”, mi ha detto quel pomeriggio.

Questo articolo è uscito su El País.

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