Questo articolo è stato pubblicato il 7 dicembre 2017 nel numero 1234 di Internazionale.
Quando da bambino vidi il film Il pianeta delle scimmie, da futuro primatologo ne rimasi affascinato. Era il 1968 e anni dopo avrei scoperto un aneddoto sulla lavorazione del film: all’ora di pranzo le persone che recitavano la parte degli scimpanzé e quelle che interpretavano i gorilla non mangiavano insieme.
Qualcuno ha detto: “Esistono due tipi di persone al mondo: quelle che dividono gli esseri umani in due categorie e quelle che non lo fanno”. In realtà le prime sono molto più numerose. E questa tendenza può avere conseguenze profonde quando la divisione è tra Noi e Loro, quelli nel gruppo e quelli fuori dal gruppo, la gente e gli Altri.
In tutto il mondo gli esseri umani distinguono tra Noi e Loro in base all’etnia, al genere, alla lingua, alla religione, all’età, allo status socioeconomico, e così via. Non è un bel quadro. Lo facciamo con estrema rapidità ed efficienza neurobiologica, creiamo tassonomie e classificazioni complesse dei modi in cui possiamo denigrare “gli altri”. Lo facciamo in mille modi diversi, che vanno dalle aggressioni di poco conto ai più brutali spargimenti di sangue. E decidiamo regolarmente cosa c’è di inferiore negli Altri in base a pure e semplici emozioni, seguite da rudimentali razionalizzazioni che scambiamo per ragionamenti logici. È piuttosto sconfortante.
La forza del Noi contro Loro
Tuttavia c’è ancora spazio per l’ottimismo. In buona parte questo modo di pensare affonda le radici in qualcosa di specificamente umano, e cioè nel fatto che tutti abbiamo in testa varie divisioni tra Noi e Loro. Quello che è un Loro in un caso può essere un Noi in un altro, e può bastare un attimo per passare da una parte all’altra. C’è quindi una speranza che, con l’aiuto della scienza, il tribalismo e la xenofobia possano diminuire, forse perfino al punto da permettere agli scimpanzé e ai gorilla di Hollywood di pranzare insieme.
È stato dimostrato che la tendenza a dividere il mondo in Noi e Loro è profondamente radicata nel nostro cervello. Rileviamo le differenze tra Noi e Loro con straordinaria rapidità. Provate a mettere qualcuno in una macchina per la risonanza magnetica funzionale, cioè uno scanner che evidenzia l’attività cerebrale, e mostrategli una serie di volti per un ventesimo di secondo, un tempo quasi impercettibile. Vi accorgerete che, anche con questa minima esposizione, il cervello elabora i volti dei Loro diversamente da quelli dei Noi.
Molti studi hanno analizzato il fenomeno contrapponendo i gruppi di diverse comunità. Basta mostrare per un attimo il volto di una persona che ha la pelle di un colore diverso da quello del soggetto e, in genere, in chi guarda si attiva subito l’amigdala, una zona del cervello associata alla paura e all’ansia. È stata rilevata anche una minore attivazione della corteccia fusiforme, la regione del cervello specializzata nel riconoscimento facciale, il che comporta che questi volti si ricordano con minor precisione. Di solito vedere il filmato di una mano che viene punta da un ago provoca un “riflesso isomorfo”, che attiva la parte della corteccia motoria corrispondente alla nostra mano e ci fa chiudere il pugno. Se però la mano che osserviamo appartiene a una persona con la pelle di un colore diverso dal nostro, allora l’effetto è meno pronunciato.
Inconsciamente il vostro pregiudizio nei confronti dei troll vi costringe a esitare
Il modo in cui il cervello distingue tra Noi e Loro appare chiaro anche dal comportamento dell’ormone ossitocina, noto per i suoi effetti prosociali, perché spinge le persone a essere più fiduciose, collaborative e generose. Ma l’ossitocina influisce solo sul nostro comportamento nei confronti di persone che appartengono al nostro stesso gruppo, mentre nei confronti degli estranei produce l’effetto opposto.
La tendenza automatica e inconscia ad applicare la divisione tra Noi e Loro rivela la profondità di questa dicotomia, e può essere dimostrata con un metodo diabolicamente intelligente, chiamato test dell’associazione implicita. Supponiamo che abbiate un forte pregiudizio nei confronti dei troll (le piccole creature della mitologia nordica) e li consideriate inferiori agli umani. Per semplificare, il test dell’associazione implicita può provarlo mostrando ai soggetti immagini di esseri umani e di troll accoppiate a parole con connotazioni positive o negative. L’accoppiamento può confermare i vostri pregiudizi (per esempio, un volto umano accompagnato dalla parola “sincero” e quello di un troll accompagnato da “bugiardo”) o smentirli. Per elaborare gli accoppiamenti discordanti ci vuole più tempo, una frazione di secondo in più. È una cosa automatica, non vuol dire che siete disgustati per le pratiche tribali dei troll o per la brutalità che hanno dimostrato in una qualche battaglia del 1523. State solo vedendo parole e immagini, e il vostro pregiudizio nei confronti dei troll vi costringe inconsciamente a esitare a causa della dissonanza del collegamento tra troll e “grazioso” e tra umano e “puzzolente”.
Gli esseri umani non sono i soli a distinguere tra Noi e Loro. Anche altri primati possono fare violente distinzioni dello stesso tipo: in fondo gli scimpanzé si riuniscono in bande e uccidono sistematicamente i maschi dei gruppi vicini. Da alcuni studi recenti, condotti adattando il test dell’associazione implicita a un’altra specie, si deduce che anche altri primati associano implicitamente qualità negative agli Altri. Ai macachi sono state mostrate foto di esemplari appartenenti al loro gruppo e di estranei, accompagnate da immagini di oggetti con connotazioni positive o negative. E si è visto che i primati guardavano più a lungo le coppie che smentivano i loro pregiudizi (cioè le immagini di individui appartenenti al loro gruppo associate a quelle di ragni). Queste scimmie non solo lottano con i vicini per assicurarsi le risorse, li associano anche a immagini negative: “Loro sono come ragni schifosi, Noi siamo come frutti succulenti”.
La tendenza a distinguere tra Noi e Loro è quindi dimostrata da diversi fattori: la rapidità e gli stimoli sensoriali minimi necessari affinché il cervello individui le differenze tra i gruppi; la tendenza a raggrupparsi in base a differenze arbitrarie, per poi attribuire a quelle differenze una presunta valenza razionale; l’automatismo inconscio di questi meccanismi e la loro presenza a livello rudimentale negli altri primati. Come vedremo, tendiamo a pensare ai Noi, ma non ai Loro, in modo abbastanza lineare.
Come siamo Noi
Attraverso il corso della storia i popoli hanno sempre esaltato le persone che fanno parte del loro gruppo. Noi siamo più corretti, più intelligenti, moralmente superiori e più degni di rispetto. Il concetto di Noi implica anche una sopravvalutazione dei tratti arbitrari che ci caratterizzano, il che richiede un certo impegno: dobbiamo razionalizzare i motivi per cui la nostra cucina è più buona, la nostra musica più commovente, la nostra lingua più logica o poetica.
L’appartenenza a un gruppo comporta anche obblighi nei confronti dei propri simili. Per esempio, in uno studio condotto negli stadi, un ricercatore fingeva di essere un tifoso di una certa squadra e di avere bisogno di qualcosa. Si è visto che aveva più probabilità di essere aiutato da qualcuno della stessa squadra che da un tifoso della squadra avversaria.
Il favoritismo interno al gruppo solleva un interrogativo importante: vogliamo che il nostro gruppo stia “bene” in termini di livelli assoluti di benessere o semplicemente che stia “meglio di Loro”?
In genere sosteniamo di volere la prima cosa, ma in realtà spesso desideriamo ardentemente la seconda. Possiamo farlo in modo innocuo: in un campionato in cui la nostra squadra del cuore è testa a testa con un’altra, il fatto che i nostri avversari siano sconfitti da una terza ci gratifica quanto una nostra vittoria. In un tifoso, entrambi i risultati attivano percorsi cerebrali associati alla gratificazione e alla produzione del neurotrasmettitore dopamina. Ma a volte preferire il “meglio di” invece del “bene” può essere assurdo. Non sarà una gran soddisfazione aver vinto la terza guerra mondiale se alla fine Noi avremo due capanne di fango e tre legnetti per accendere il fuoco e Loro solo una capanna e un pezzo di legno.
I nostri giudizi emotivi e viscerali sono condizionati da forze nascoste
Un esempio di comportamento prosociale nei confronti del nostro gruppo è la facilità con cui siamo disposti a perdonare le trasgressioni di chi ne fa parte. Quando uno di Loro fa qualcosa di sbagliato, lo attribuiamo alla sua essenza: Loro sono così, lo sono sempre stati e lo saranno sempre. Ma quando sbaglia uno di Noi, tendiamo a cercare una spiegazione alternativa: di solito Noi non siamo così, devono esserci delle attenuanti per il suo comportamento. La possibilità di giustificare i reati in base alle circostanze è il motivo per cui nei processi gli avvocati difensori cercano di avere giurati che considerano l’accusato uno di loro.
Una cosa diversa e interessante può succedere quando la trasgressione di qualcuno espone in pubblico i problemi dei Noi, confermando uno stereotipo negativo sul nostro conto. La vergogna può provocare punizioni estreme. Pensate all’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, che era cresciuto a Brooklyn in un quartiere italoamericano dominato dalla criminalità organizzata (suo padre era stato in prigione per rapina a mano armata e aveva lavorato per uno strozzino della mafia). Giuliani diventò famoso nel 1985 quando fu nominato pubblico ministero nel celebre processo alle cosiddette cinque famiglie, quelle che controllavano la mafia statunitense, e riuscì effettivamente a distruggerle. Era fortemente motivato a smentire lo stereotipo degli italoamericani mafiosi. “Se questo non è sufficiente a cancellare il pregiudizio nei confronti degli italiani, probabilmente non c’è altro modo per cancellarlo”, disse a proposito dei suoi successi contro la mafia. Se volete qualcuno che sia inflessibile con i mafiosi, prendete un italoamericano indignato per gli stereotipi legati alle loro attività.
Essere un Noi comporta quindi una serie di aspettative e di obblighi. È possibile passare dalla categoria di Noi a un’altra? Nello sport, per fare un esempio, è facilissimo: quando un giocatore viene venduto non diventa una quinta colonna, non gioca per far perdere la sua nuova squadra e favorire la sua vecchia maglia. Alla base di questo rapporto contrattuale c’è l’intercambiabilità dei dipendenti e dei datori di lavoro.
All’estremo opposto ci sono identità che non sono intercambiabili né negoziabili. Non ci si può trasformare da sciiti a sunniti o da curdi iracheni a sami finlandesi. È raro che un curdo voglia diventare un sami: probabilmente i suoi antenati si rivolterebbero nella tomba a vederlo accarezzare una renna. I convertiti spesso sono puniti dal gruppo che hanno abbandonato – pensate a Meriam Ibrahim, condannata a morte in Sudan nel 2014 per essersi convertita al cattolicesimo – e sono considerati con sospetto dal nuovo gruppo.
L’antipatia per Loro è frutto di un ragionamento o dell’istinto? A livello cognitivo è facile spiegare la distinzione Noi/Loro. Le classi dominanti fanno salti mortali cognitivi per giustificare lo status quo. E noi troviamo sempre il modo per giustificare il fatto che tra i Loro ci siano delle persone famose o dei vicini che ci hanno salvato la vita: quei Loro sono delle eccezioni.
Come sono Loro
Per considerare gli altri una minaccia ci vuole una certa sottigliezza cognitiva. Temere che un Loro ci derubi implica emotività e particolarismo. Ma temere che i Loro ci rubino il lavoro, controllino le banche, rendano impura la nostra stirpe, e così via, richiede qualche cognizione di economia, sociologia e pseudoscienza.
Nonostante l’importanza dell’aspetto cognitivo, la distinzione tra Noi e Loro è emotiva e automatica, come si capisce bene quando diciamo: “Non so esattamente perché, ma quello che fanno è sbagliato”. Jonathan Haidt della New York university ha dimostrato che spesso la razionalizzazione è una giustificazione a posteriori di sensazioni viscerali, per convincerci di averne capito razionalmente il motivo. Lo dimostrano gli studi basati sulle neuroimmagini. Come abbiamo già detto, vedere anche per un solo istante la faccia di un Loro attiva l’amigdala. Questo avviene molto prima (sulla scala temporale del funzionamento del cervello) che le regioni cognitive della corteccia elaborino l’immagine. Le emozioni vengono prima.
La prova più convincente del fatto che la distinzione tra Noi e Loro nasce da processi emotivi automatici è che la sua presunta spiegazione razionale può essere manipolata. Facciamo qualche esempio. Quando si mostrano ai soggetti di uno studio le foto di un paese sconosciuto intercalate a velocità subliminale con immagini di facce che esprimono paura, hanno un atteggiamento più negativo nei confronti del paese in questione. Quando sono sedute vicino a un mucchio di rifiuti puzzolenti le persone diventano più conservatrici su questioni riguardanti un altro gruppo (per esempio, gli eterosessuali nei confronti dei matrimoni gay). I cristiani mostrano un atteggiamento più negativo nei confronti dei non cristiani se sono appena passati davanti a una chiesa. In un altro studio, è stato chiesto ai pendolari che aspettavano il treno in alcune stazioni di un quartiere popolato in prevalenza da bianchi di rispondere a un questionario sulle loro idee politiche.
Poi, a un certo punto, in metà delle stazioni selezionate sono stati fatti arrivare per due settimane un uomo e una donna messicani vestiti in modo classico e che parlavano sottovoce. A quel punto è stato chiesto ai pendolari di rispondere a un secondo questionario. Sorprendentemente, la presenza di quelle coppie rendeva le persone più favorevoli a ridurre l’immigrazione legale dal Messico e contrarie all’amnistia per gli immigrati irregolari (non cambiava, invece, il loro atteggiamento nei confronti degli statunitensi di origine asiatica, degli afroamericani o dei mediorientali). Nel periodo dell’ovulazione, le donne hanno un atteggiamento più negativo nei confronti degli uomini che non appartengono al loro gruppo.
In altre parole, il modo emotivo e viscerale con cui vediamo i Loro è condizionato da insospettabili forze nascoste. Solo in un secondo momento la ragione corre a mettersi al passo con il nostro io emotivo, generando pseudoverità o narrazioni plausibili per spiegare il nostro odio. È una sorta di “pregiudizio di conferma”: ricordiamo i dettagli a sostegno della nostra tesi più delle dimostrazioni del contrario; cerchiamo prove in un modo che può solo confermare e non smentire la nostra ipotesi; siamo più scettici verso i risultati che non ci piacciono rispetto a quelli che ci piacciono.
Tutti i tipi di Loro
Naturalmente, tipi diversi di Loro evocano sentimenti diversi (e reazioni neurobiologiche diverse). La cosa più comune è considerarli sempre minacciosi, arrabbiati e inaffidabili. Nei giochi economici, i soggetti considerano implicitamente gli individui di altre etnie meno degni di fiducia. I bianchi vedono le facce degli afroamericani più arrabbiate, ed è più probabile che attribuiscano a un’altra comunità, dai tratti ambigui, delle facce arrabbiate.
Ma i Loro non evocano solo la sensazione del pericolo, a volte anche quella del disgusto. Questo chiama in causa una zona del cervello affascinante, l’insula. Nei mammiferi l’insula reagisce al sapore o all’odore di marcio provocando una contrazione dello stomaco e il riflesso del vomito. In altre parole, protegge gli animali dagli alimenti velenosi. La cosa importante è che negli esseri umani l’insula non scatena solo un disgusto sensoriale, ma anche morale: basta chiedere a una persona di raccontare qualcosa di immorale che ha fatto o mostrargli immagini di azioni moralmente riprovevoli (per esempio, un linciaggio) e l’insula si attiva immediatamente. Per questo è tutt’altro che una metafora sostenere che qualcosa di moralmente disgustoso ci dà la nausea. I Loro che spesso provocano un senso di disgusto (per esempio, i tossicodipendenti) non attivano solo l’amigdala ma anche l’insula.
Provare sentimenti visceralmente negativi nei confronti delle caratteristiche astratte dei Loro è impegnativo: per l’insula non è facile essere disgustata dalle credenze astratte di un altro gruppo. Ma i marcatori Noi/Loro costituiscono un buon punto di partenza. L’insula si aggrappa al fatto che Loro mangiano cibi ripugnanti, si spalmano di unguenti che odorano di rancido e si vestono in modo scandaloso. Per usare le parole dello psicologo Paul Rozin dell’università della Pennsylvania, “il disgusto funge da marcatore etnico o di gruppo”. Decidere che Loro mangiano cose disgustose ci aiuta a pensare che hanno anche idee disgustose sull’etica, per esempio.
Poi ci sono i Loro ridicoli, cioè quelli verso i quali esprimiamo la nostra ostilità ridicolizzandoli. Se gli altri ci prendono in giro si dimostrano deboli, non vogliono ammettere la loro inferiorità. Ma se siamo Noi a prenderli in giro, consolidiamo gli stereotipi negativi e reifichiamo la gerarchia.
Poi c’è anche chi odia se stesso perché ha accettato il suo stereotipo negativo
Spesso consideriamo Loro come più omogenei di Noi, pensiamo che abbiano emozioni più semplici e siano meno sensibili al dolore. Nell’antica Roma, nell’Inghilterra medievale, nella Cina imperiale e nel sud degli Stati Uniti prima della guerra civile, le élite avevano stereotipi sugli schiavi che giustificavano il sistema schiavistico: li consideravano ingenui come bambini e incapaci di badare a se stessi.
Perciò i Loro sono di vari tipi, ma comunque sgradevoli: minacciosi e rabbiosi, disgustosi e ripugnanti, ridicoli, primitivi e tutti uguali.
Freddi e incompetenti
In un importante studio, Susan Fiske dell’università di Princeton ha esplorato le tassonomie di Loro che abbiamo in mente, e ha scoperto che li classifichiamo in base a due criteri: il “calore umano” (l’individuo o il gruppo è amico o nemico, benevolo o malevolo) e la “competenza” (quanto è efficiente l’individuo o il gruppo nel realizzare i suoi intenti?).
I due criteri sono indipendenti l’uno dall’altro. Se si chiede a una persona di esprimere un giudizio su qualcuno, aggiungendo informazioni sul suo stato sociale si modifica la valutazione della competenza ma non del calore umano, mentre aggiungendo informazioni sulla sua competitività si ottiene il risultato opposto. Questi due criteri producono un modello a quattro variabili. Per quanto riguarda il calore umano e la competenza, a noi stessi attribuiamo naturalmente un punteggio alto (A/A = alto calore/alta competenza). Di solito gli statunitensi giudicano in questo modo i buoni cristiani, i professionisti afroamericani e la classe media in generale. Il giudizio opposto (B/B = basso calore/bassa competenza) è dato ai tossicodipendenti e ai senzatetto.
Le persone a cui attribuiamo un punteggio alto per calore umano e basso per competenza (A/B) sono quelle con una disabilità fisica o mentale e quelle anziane e ammalate. L’opposto (B/A) è il modo in cui i popoli dei paesi in via di sviluppo tendono a giudicare gli europei che li hanno colonizzati (in questo caso, la competenza non riguarda tanto la capacità di costruire missili quanto quella che hanno dimostrato nel rubare le loro terre ancestrali) e, negli Stati Uniti, il modo in cui molte minoranze vedono i bianchi. È lo stesso stereotipo ostile che gli americani bianchi applicano alle persone di origine asiatica, gli europei agli ebrei, i popoli dell’Africa orientale agli indopachistani, quelli dell’Africa occidentale ai libanesi, gli indonesiani ai cinesi, e i poveri ai ricchi quasi ovunque: gli altri sono freddi, avidi, chiusi nel loro mondo. Se però stai male per davvero, devi andare da un loro dottore.
Ognuno di questi estremi tende a suscitare sempre gli stessi sentimenti. Per l’A/A (cioè Noi) è l’orgoglio. Per il B/A l’invidia e il risentimento. Per l’A/B la pietà. Per il B/B il disgusto. Vedere immagini di persone classificate B/B attiva l’amigdala e l’insula, ma non l’area fusiforme facciale. Provoca la stessa reazione che abbiamo, per esempio, quando vediamo una ferita coperta di vermi. Vedere un’immagine di individui B/A o A/B, invece, attiva le aree emotive e cognitive della corteccia frontale.
Per tutte le situazioni intermedie c’è una reazione caratteristica. Le persone che ci suscitano un sentimento tra la pietà e l’orgoglio ci fanno desiderare di aiutarle. Un sentimento tra la pietà e il disgusto ci fa desiderare di escluderle e umiliarle. Tra l’orgoglio e l’invidia desideriamo associarci a loro per trarne vantaggio. E tra l’invidia e il disgusto proviamo il desiderio più ostile di tutti: quello di attaccarle.
Trovo affascinante quando qualcuno modifica le proprie categorie. I cambiamenti più evidenti sono quelli a partire del giudizio A/A, alto calore umano e alta competenza.
Da A/A ad A/B: quando un genitore scivola nella demenza ci fa sentire il desiderio di proteggerlo.
Da A/A a B/A: quando scopriamo che un nostro socio ci ha sottratto del denaro per anni ci sentiamo traditi.
Da A/A a B/B: è il raro caso del conoscente di successo a cui “succede qualcosa” e diventa un senzatetto. Disgusto misto a sconcerto. Cosa è andato storto?
E poi c’è il passaggio da B/B a B/A. Negli anni sessanta, quando ero bambino, gli americani vedevano il Giappone come l’ex nemico della seconda guerra mondiale per il quale provavano solo antipatia e disprezzo. All’epoca made in Japan era sinonimo di roba di plastica da quattro soldi. Poi, improvvisamente, le auto giapponesi hanno cominciato a competere con quelle statunitensi.
Quando un senzatetto si fa in quattro per restituire a qualcuno il portafogli che ha perso, ci rendiamo conto che è più onesto dei nostri amici, e quindi avviene un passaggio da B/B ad A/B.
Ma quello che trovo più interessante è il passaggio da B/A a B/B, che suscita grande compiacimento e spiega perché la persecuzione dei gruppi B/A spesso consiste nell’umiliarli e degradarli allo stato di B/B. Durante la rivoluzione culturale cinese, le persone delle élite venivano prima fatte sfilare con un cappello a cono equivalente alle nostre orecchie d’asino e poi spedite nei campi di lavoro. I nazisti eliminavano le persone con disturbi mentali, che già consideravano B/B, uccidendole senza fare tante cerimonie; mentre gli ebrei, considerati B/A, erano costretti a portare sul braccio l’umiliante fascia gialla, a tagliarsi la barba a vicenda e a pulire i marciapiedi con gli spazzolini da denti davanti a folle sghignazzanti. Quando negli anni settanta Idi Amin espulse dall’Uganda decine di migliaia di cittadini indopachistani considerati B/A, prima di cacciarli invitò i militari a derubarli, picchiarli e stuprarli. La trasformazione dei Loro B/A in Loro B/B spiega i nostri maggiori atti di crudeltà.
La nostra categorizzazione dei Loro è piuttosto complessa. Per esempio, si può avere un riluttante rispetto, perfino un certo senso di cameratismo, verso il nemico. Secondo quanto si racconta, gli assi volanti della prima guerra mondiale attribuivano un pizzico di Noi a chi cercava di ucciderli (“Signore, se fossimo in circostanze diverse mi piacerebbe molto discutere di aeronautica con lei davanti a un buon bicchiere di vino”, “ Barone, considero un onore che sia lei ad abbattermi”). Ci sono poi sentimenti diversi per i nemici economici e per quelli culturali, per i nuovi e per i vecchi avversari, per quelli lontani e sconosciuti e per quelli familiari e vicini (pensate a Ho Chi Minh che rifiutò l’aiuto delle truppe cinesi durante la guerra del Vietnam con la seguente argomentazione: “Gli americani se ne andranno tra un anno, forse tra dieci, ma i cinesi, se li lasciamo entrare, resteranno per mille anni”.
Poi c’è il singolare fenomeno di chi odia se stesso (scegliete voi un gruppo esemplificativo) perché ha accettato il suo stereotipo negativo e vorrebbe essere l’altro. Questo fenomeno è stato dimostrato dagli psicologi Kenneth e Mamie Clark nei loro “studi sulle bambole” degli anni quaranta, dai quali è emerso che le bambine afroamericane preferivano giocare con bambole bianche, come le bambine bianche, perché attribuivano a quei giocattoli qualità più positive (erano più belle). Che questo effetto fosse più pronunciato nei bambini neri che frequentavano scuole in cui era in vigore la segregazione è stato confermato nel celebre processo Brown contro il consiglio scolastico del 1954. Oppure pensate all’attivista impegnato in prima linea contro i diritti dei gay che si rivela un omosessuale non dichiarato. È la tipica patologia di chi accetta di essere inferiore. Quando si tratta di dividere il mondo in Noi e Loro, gli esseri umani sono più stravaganti delle scimmie che associano i primati diversi da loro ai ragni.
I vari Noi
Anche Noi sappiamo che gli Altri appartengono a diverse categorie, e decidiamo quali considerare più rilevanti. Non c’è da sorprendersi se molta letteratura parla di conflitti razziali e cerca di capire se è quella la differenza più importante tra Noi e Loro.
Il primato dell’identità razziale come spartiacque ha il fascino del senso comune. Prima di tutto è considerata un attributo biologico, un tratto identitario evidente e fisso che scatena subito il pensiero essenzialista. Inoltre, gli esseri umani si sono evoluti in condizioni in cui un colore diverso della pelle segnalava immediatamente la differenza tra Loro e Noi. Prima ancora di entrare in contatto con gli occidentali, molte culture operavano distinzioni di status sociale in base al colore della pelle.
Eppure è esattamente il contrario. In primo luogo, anche se la biologia contribuisce a creare certe differenze, la “razza” è un continuum biologico non una serie di categorie separate. Per esempio, a meno che si scelgano volutamente certi dati piuttosto che altri, di solito le variazioni genetiche all’interno di un gruppo razziale sono rilevanti quanto quelle tra gruppi diversi. Questo non dovrebbe sorprenderci se consideriamo la gamma di differenze all’interno di un gruppo razziale, per esempio tra i siciliani e gli svedesi.
Inoltre, come sistema di classificazione rigido l’appartenenza razziale non funziona. In vari periodi della storia statunitense, i messicani e gli armeni sono stati considerati appartenenti a un altro gruppo razziale. Anche gli italiani del sud e i nordeuropei erano classificati in due categorie diverse, mentre una persona con un bisnonno nero e sette bianchi era considerata “bianca” nell’Oregon ma non in Florida. Il punto è che l’idea di “razza” è un costrutto culturale.
Non c’è quindi da sorprendersi se le dicotomie Noi/Loro basate sull’appartenenza razziale spesso sono superate da altre classificazioni. In uno studio, prima sono state mostrate ai soggetti alcune fotografie di individui, neri o bianchi, ognuna accompagnata da un’affermazione, poi gli è stato chiesto di ricordare quale faccia era associata a quale affermazione. La categorizzazione razziale è stata automatica: se i soggetti sbagliavano combinazione, spesso la faccia giusta e quella sbagliata erano dello stesso gruppo razziale. In seguito gli sono state mostrate le foto di metà dei bianchi e dei neri che indossavano la stessa camicia gialla, mentre l’altra metà ne portava una grigia. Capitava spesso che i soggetti dello studio confondessero le affermazioni in base al colore della camicia. Inoltre, ovviamente, la classificazione per genere supera nettamente la categorizzazione razziale inconscia. Dopotutto, mentre l’evoluzione delle “razze” è relativamente recente (probabilmente è avvenuta solo nelle ultime decine di migliaia di anni), i nostri antenati, forse già da quando erano ancora parameci, consideravano fondamentale distinguere tra maschi e femmine.
Mary Wheeler, in una ricerca realizzata con Fiske, ha dimostrato come cambiano le categorizzazioni studiando l’attivazione dell’amigdala davanti a un individuo di un altro gruppo razziale. Quando si chiede ai soggetti di cercare un puntino in una foto, le persone di un gruppo razziale non attivano l’amigdala, perché il cervello non sta elaborando i tratti del viso. Giudicare se una faccia sembra più vecchia di una certa età non è una ricategorizzazione sufficiente a eliminare la reazione dell’amigdala a un individuo con un’identità razziale diversa. Per un terzo gruppo di soggetti, è stato collocato un tipo di verdura davanti a ogni faccia ed è stato chiesto di giudicare se alla persona piaceva quella verdura. Anche in quel caso l’amigdala non reagiva alle facce di un altro gruppo razziale.
Ma perché? Perché in quel caso guardiamo l’altro pensando a quale cibo gli piace. Lo immaginiamo mentre fa la spesa o ordina un piatto al ristorante. Nella migliore delle ipotesi decidiamo che ci piace la stessa verdura, che in lui c’è un pizzico di Noi. Nella peggiore, decidiamo che è diverso da Noi, ma non è un Loro pericoloso: in fondo nella storia non abbondano scontri violenti tra gli amanti dei broccoli e quelli dei cavolfiori. Ma soprattutto, se immaginiamo quella persona a tavola mentre mangia quell’alimento, la vediamo come un individuo, il modo migliore per disinnescare la categorizzazione di qualcuno come un Loro.
La ricategorizzazione può avvenire anche in situazioni violente, improbabili e particolarmente dolorose. Nella battaglia di Gettysburg, nella guerra di secessione americana, fu ferito a morte il generale dei confederati Lewis Armistead. Mentre era steso sul campo di battaglia fece un segnale usato nella massoneria sperando di essere riconosciuto da un altro massone. A riconoscerlo fu l’ufficiale unionista Hiram Bingham, che lo protesse e lo portò nel suo ospedale da campo. Improvvisamente la distinzione tra unionisti e confederati era diventata irrilevante rispetto a quella tra massoni e non massoni.
Durante la seconda guerra mondiale, a Creta un commando inglese rapì il generale tedesco Heinrich Kreipe e lo portò con sé in una pericolosa marcia di 18 giorni per raggiungere la costa dove ad aspettarli c’era una nave britannica. Un giorno il gruppo vide la neve sulla montagna più alta di Creta. Kreipe mormorò tra sé il primo verso (in latino) di un’ode di Orazio su un monte coperto di neve e il comandante inglese Patrick Leigh Fermor continuò la poesia. I due ufficiali si resero così conto, per usare le parole di Fermor, di “essersi abbeverati alla stessa fonte”. Questa ricategorizzazione spinse Fermor a far curare le ferite di Kreipe e a garantirne personalmente l’incolumità. Dopo la guerra i due rimasero in contatto e s’incontrarono di nuovo decenni dopo in un programma televisivo greco. “Nessun rancore”, disse Kreipe, elogiando “l’ardita operazione” dell’ex nemico.
Infine c’è la tregua di Natale durante la prima guerra mondiale, quando i soldati delle opposte trincee passarono la giornata cantando, pregando e bevendo insieme, giocando a calcio, scambiandosi regali e cercando di far durare il più possibile il cessate il fuoco. Bastò un solo giorno perché la distinzione tra inglesi e tedeschi cedesse il posto a quella, più importante, tra soldati in trincea e ufficiali nelle retrovie. Tutti abbiamo in testa varie dicotomie, ma anche quelle che sembrano imprescindibili e fondamentali, nelle giuste circostanze possono svanire in un attimo.
Attenuare la dicotomia Noi/Loro
Ma come possiamo farle evaporare?
Con il contatto. Crescere in un ambiente dove regna la diversità ha delle conseguenze, e questo ci porta a parlare degli effetti del contatto prolungato sulla distinzione tra Noi e Loro. Negli anni cinquanta lo psicologo Gordon Allport propose una “teoria del contatto”. Una sua versione imprecisa è: mettete insieme i Noi e i Loro (per esempio, gli adolescenti di due paesi ostili in un campeggio estivo), e l’animosità scompare, le cose in comune cominciano a pesare più delle differenze, tutti diventano Noi. Una versione più precisa è: mettete i Noi e i Loro insieme in una situazione di difficoltà, e succederà senz’altro qualcosa di simile. Ma qualcosa potrà sempre andare storto e rovinare tutto.
Nello specifico è importante che: entrambe le parti siano costituite da un numero più o meno uguale di persone, e che tutti siano trattati nello stesso modo; il contatto sia prolungato e su un terreno neutrale; ci sia un obiettivo “sovraordinato” per raggiungere il quale tutti devono collaborare, una sorta di scopo comune (per esempio, in un campeggio estivo, la trasformazione di un prato in un campo di calcio).
Concentratevi sugli obiettivi comuni. Provate a cambiare punto di vista
Ma anche in questo caso di solito gli effetti sono limitati. I Noi e i Loro presto perdono i contatti, i cambiamenti sono passeggeri e spesso riguardano singoli individui: “Odio quei Loro, ma l’estate scorsa ne ho conosciuto uno veramente simpatico”. Il contatto produce cambiamenti duraturi solo quando è prolungato. Solo così si fanno progressi.
Eliminando l’implicito. Un buon modo per ridurre la reazione implicita Noi/Loro è introdurre in anticipo un controstereotipo (per esempio, quello di un Loro famoso e amato da tutti). Un altro consiste nel rendere esplicito l’implicito: mostrare alle persone i loro pregiudizi. Un altro ancora è un potente strumento cognitivo: il cambio di prospettiva. Fingete di essere un Loro e spiegate i motivi del vostro rancore. Come vi sentireste dopo essere stati un po’ nei loro panni?
Sostituendo l’essenzialismo con l’individualizzazione. In uno studio è stato chiesto ai soggetti se accettavano le disuguaglianze razziali. Metà di loro era stata spinta a pensare in modo essenzialistico: “Alcuni scienziati hanno confermato le basi genetiche della differenza tra i gruppi razziali”; l’altra metà a pensare in modo non essenzialistico: “Secondo gli scienziati, le differenze tra i gruppi razziali non hanno alcuna base genetica”. I secondi si sono rivelati meno propensi ad accettare le disuguaglianze.
Eliminando le gerarchie. Le gerarchie acuiscono le differenze tra Noi e Loro, perché quelli che sono in cima alla piramide giustificano la loro posizione denigrando chi è più in basso, mentre chi è in basso pensa che le classi dominanti siano a basso calore umano e ad alta competenza (B/A). Un esempio è il luogo comune secondo cui i poveri sono più spensierati e capaci di godere dei semplici piaceri della vita, mentre i ricchi sono infelici, stressati e carichi di responsabilità (pensate all’infelice Scrooge e agli allegri Cratchit nel Racconto di Natale di Dickens). O il mito dei “poveri che sono più solidali”, che li connota come persone ad alto calore umano e a bassa competenza. Da uno studio condotto in 37 paesi è emerso che più alte sono le disuguaglianze di reddito, più i ricchi la pensano in questo modo.
Qualche conclusione
Dalle grandi barbarie alle piccole aggressioni, la contrapposizione tra Noi e Loro ha provocato enormi sofferenze. Ma non penso che il nostro obiettivo debba essere “curarci” da questa dicotomia (eliminarla non è possibile, dato che tutti abbiamo un’amigdala).
Sono un tipo piuttosto solitario, ho passato buona parte della mia vita da solo in Africa sotto una tenda a studiare un’altra specie. Ma i miei momenti più felici sono stati quelli in cui mi sono sentito un Noi, accettato, al sicuro e parte di qualcosa di più grande, con la sensazione di essere dalla parte giusta, di stare bene e di fare del bene. Ci sono anche dei Noi/Loro che io – intellettuale, mite e pacifista – ucciderei o per i quali morirei.
Se accettiamo che ci saranno sempre degli schieramenti, è difficile stare ogni volta dalla parte degli angeli. Diffidate dell’essenzialismo. Ricordate che la presunta razionalità spesso è solo una razionalizzazione, un modo per fare i conti con forze sotterranee della cui esistenza non sospettiamo neanche. Concentratevi sugli obiettivi comuni. Provate a cambiare punto di vista. Individualizzate. E ricordate quante volte, nel corso della storia, i Loro veramente malvagi si sono nascosti lasciando altri a fare da capri espiatori. Nel frattempo, date la precedenza a quelli che guidano una macchina con l’adesivo “I cattivi fanno schifo” sul paraurti e ricordate che siamo tutti uniti contro Voldemort e i Serpeverde.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 7 dicembre 2017 nel numero 1234 di Internazionale.
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