Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2020 sul numero 1350 di Internazionale.

La regina degli assorbenti interni – uno dei suoi tanti soprannomi – è un’entusiasta di nome Melissa Suk. Incoronata direttrice associata per il brand della Tampax quattro anni fa, riceve nella sede centrale della multinazionale dei beni di consumo Procter & Gamble (P&G) a Cincinnati, in Ohio. Da qui sovrintende a un impero che copre settanta paesi e riempie armadietti nei bagni di città, cittadine e paesini di tutto il mondo. Nel campo degli assorbenti interni, la Tampax regna sovrana con il 29 per cento del mercato mondiale (seguita dalla Johnson & Johnson, con meno del venti per cento). Nel 2019 4,5 miliardi di confezioni di Tampax sono state comprate in tutto il mondo. Eppure in alcune parti del pianeta i Tampax non sono ancora arrivati. Se l’obiettivo è raggiungere tutte le vagine sanguinanti del mondo, i margini di conquista sono ancora ampi.

Ho conosciuto Suk in un gelido pomeriggio di qualche tempo fa. Mi è apparsa, in diretta dall’Ohio, su uno schermo gigante in una sala riunioni della sede centrale europea della P&G, a Ginevra. La multinazionale occupa un grande edificio bianco con le finestre azzurre in stile ospedale chic. Sarà perché la P&G controlla tante marche di prodotti detergenti, ma ogni superficie brillava di riflessi antibatterici e ogni impiegato sembrava appena uscito da un programma per capi delicati, raggiante d’igiene aziendale.

Nel ventaglio di sale riunioni della P&G, da quella con vista montagna al locale spoglio e tetro, ero capitata nella categoria “zona della morte”, un seminterrato in cui riecheggiavano spettrali i segnali di numeri telefonici sbagliati. Una parete era interamente coperta da una gigantografia del sogno della P&G: una donna con in braccio un bambino con un pannolino Pampers P&G, intenta a fare una lavatrice con il detersivo P&G Ariel, vicino a un lavandino e a un sapone per i piatti P&G Fairy. Seguendo l’esempio della campagna This girl can, promossa dall’ente pubblico britannico Sport England, avrebbero potuto far spuntare un cordino rivelatore tra le gambe della donna. È la massima fantasia commerciale: una vita in cui le marche sono talmente intrecciate alla nostra esistenza, e a quella delle nostre madri prima di noi, da rendere la loro presenza invisibile e indiscussa come l’amore.

Una cliente per amica
Nonostante a Cincinnati stesse albeggiando, Suk appariva freschissima. Tra le mani aveva un frullato rosa, i capelli corti e biondi erano impeccabili e parlava delle sue milioni di clienti – le sue suddite – con voce squillante: “Il nostro impegno è permetterle di vivere una vita senza limiti, che abbia il ciclo o no”. E ancora: “Ci siamo sforzate molto per spiegarle cos’è un assorbente interno, come usarlo e perché scegliere i Tampax”. Dopo una giornata passata ad ascoltare impiegati della Tampax e a guardare le loro presentazioni – il linguaggio dell’amore della P&G è PowerPoint – ne ho dedotto che per loro chi compra i Tampax non è mai una consumatrice o una cliente o una fruitrice. È “lei”. Come un’amica il cui nome ti sfugge ma di cui conosci il ciclo meglio delle tue tasche.

Gli esperti della Tampax la conoscono intimamente. Come tutte le grandi marche, hanno un calendario fittissimo di gruppi di discussione, in cui incontrano centinaia di donne ogni mese. Da “lei” vogliono sapere come si sente rispetto al suo assorbente interno, se lo usa correttamente, cosa lo renderebbe secondo lei più comodo o conveniente. A guidarli – ci tengono a sottolineare – sono solo ed esclusivamente le “sue” esigenze e i “suoi” desideri. Quello che non dicono, ma è sottinteso, è che a guidarli è anche il desiderio di vendere sempre più assorbenti interni.

Perché la Tampax, come tutti gli imperi longevi, ha i suoi punti deboli. Secondo le indagini di mercato realizzate da Euromonitor, da qualche anno il consumo globale di assorbenti interni è in costane declino: da un record di diciassette miliardi di confezioni nel 2007 è sceso a 15,9 miliardi nel 2018. Durante il nostro incontro Suk ha snocciolato cinque cause di questo calo, e dal suo tono si capiva che alla questione erano stati dedicati numerosi e frenetici brainstorming:

1) L’interruzione delle mestruazioni.

2) La ricchezza dell’offerta.

3) Le idee sbagliate sugli assorbenti interni.

4) Le preoccupazioni legate alla loro composizione.

5) Le preoccupazioni legate alla loro sostenibilità (“Probabilmente il fattore meno importante”, ha aggiunto Suk).

Tralasciamo per ora i punti 3, 4 e 5. Il punto 1 è forse la minaccia più grave per l’esistenza della Tampax: sono sempre di più le donne che decidono di non avere il ciclo. Nel 2019 la facoltà di salute sessuale e riproduttiva del Royal college di ostetricia e ginecologia, a Londra, ha aggiornato le sue linee guida, sostenendo che interrompere la pillola contraccettiva per una settimana e avere delle “false” mestruazioni non porta nessun beneficio per la salute. Se vogliono, le donne possono semplicemente smettere di sanguinare.

La minaccia numero 2 – la ricchezza dell’offerta – ha a che fare con il possibile destino di chiunque governi da troppo tempo: il sordo rombo della rivoluzione, il rischio di un colpo di stato. Negli ultimi anni è apparsa sul mercato una schiera di nuove marche di assorbenti interni e di prodotti per le mestruazioni. In virtù di una qualche tacita legge di mercato, hanno tutte nomi corti e carini: Lola, Cora, Callaly, Ohne, Freda, Flo, Thinx, Modibodi, Flex, Flux, Dame, Daye. E vogliono tutte rovesciare la Tampax, offrendo alle donne quelle che considerano delle alternative più etiche ed ecologiche ai suoi applicatori di plastica monouso. Vogliono anche distinguersi dalla strategia di marketing della Tampax, spesso incentrata sulla discrezione, come se le mestruazioni fossero qualcosa da nascondere. “Presto finirà”, assicura Celia Pool, cofondatrice della Dame, a proposito dell’egemonia della Tampax. “Hanno dominato troppo a lungo, sfruttando ogni mese una sfera estremamente personale della vita delle donne con dei messaggi orrendi e dei prodotti orrendi”. Per ora la strategia delle startup sembra funzionare. “Le donne stanno abbandonando le grandi marche”, mi spiega Roshida Khanom, manager di categoria per i prodotti di bellezza e la cura personale presso la società di ricerche di mercato Mintel. “Non rimangono fedeli ai vecchi prodotti ma provano chi propone innovazioni”. Chi innova, intanto, punta a un’enorme base di consumatrici: circa due miliardi di donne, se si considera che circa il 26 per cento della popolazione mondiale è composto da donne in età fertile e, quindi, probabilmente con le mestruazioni. Queste ultime offrono un’invitante opportunità di vendita: un evento che si ripete regolarmente e naturalmente, che richiede un acquisto mensile e che può durare circa quarant’anni. Fidelizzare una cliente da subito e per tutta la vita vuol dire contare su circa 480 mestruazioni, 8.640 assorbenti interni e almeno 1.650 euro.

Non sorprende che buona parte della comunicazione della Tampax sia rivolta alle adolescenti alle prime armi. Sul suo sito britannico, vicino alla rubrica “Racconta i tuoi primi assorbenti interni” e a un quiz sugli assorbenti interni, c’è una chatbot adolescente di nome Alya, con un look da skater Disney anni novanta e una cascata di capelli rosso acceso.

“Ciao amica, chattiamo?”, mi chiede Alya. “Sono Alya e sono qui per rispondere alle tue domande sul corpo e sulla pubertà”.

“Alya”, ho detto, “la Tampax domina da anni il mercato dei prodotti per le mestruazioni: quanto durerà ancora?”.

A onor del vero, Alya non è stata programmata per rispondere a queste domande, ma ci ha comunque provato: “Forse volevi chiedere: con cosa sono fatti i Tampax / gli assorbenti interni possono cadere / posso evitare la pubertà / nessuna di queste domande”.

Nessuna di queste domande, Alya, nessuna di queste domande. Ma grazie per aver provato. Troverò la risposta da me.

Una soluzione più comoda
Molte ragazze all’inizio non usano gli assorbenti interni. Per una dodicenne che è appena entrata nel mondo del ciclo ma non ancora in quello del sesso, l’idea di inserire un oggetto nella vagina non è delle più allettanti. Alcune donne preferiscono non provare mai gli assorbenti interni, soprattutto nei paesi dove sono considerati tabù (è il caso in gran parte dell’Asia e nelle società più religiose). Come molte, all’inizio ho usato gli assorbenti esterni, che nei primi anni novanta erano molto diversi dai prodotti alati e sagomati di oggi. Ricordo quando entravo goffamente a scuola, convinta che tutti potessero sentire il fruscio del similpannolino infilato sotto i miei pantaloni. A un certo punto mia sorella mi suggerì che esisteva una soluzione più comoda. Per me cominciò così la relazione, spesso lunga quanto un matrimonio, che le donne hanno con quel rotolo di cotone e rayon da infilarsi dentro e poi sfilare tirando un cordino.

L’assorbente interno, capitolo recente nella storia delle mestruazioni, ha segnato un notevole progresso dopo secoli di soluzioni fai da te: vecchi stracci, pelli di pecora, sacchetti di mussola pieni di cotone, pezzi di stoffa appuntati ai pantaloni. In molte parti del mondo, compreso il Regno Unito, dove non tutte possono permettersi i prodotti per il ciclo, queste soluzioni di ripiego sono ancora usate. I prodotti appositi sono nati poco dopo la prima guerra mondiale, quando le infermiere si accorsero che le garze di cellulosa usate per bendare i feriti assorbivano il sangue meglio del cotone. La Kotex commercializzò il primo assorbente igienico su vasta scala nel 1921. Per fissarlo bisognava usare una cintura. Dieci anni dopo Earle Haas, un medico del Colorado, inventò e brevettò il primo assorbente interno con applicatore di cartone (per chi non ha familiarità con l’oggetto in questione, l’applicatore è un tubo retrattile che permette di inserire l’assorbente nella vagina). Gli assorbenti interni “digitali” si inseriscono con un dito. A seconda di quale marca ha raggiunto per prima un certo mercato, le consumatrici tendono a preferire uno dei due modelli: negli Stati Uniti quasi tutte usano gli applicatori, in Germania è il contrario. Nel 1933 Haas ebbe la malaugurata idea di vendere per 32mila dollari il suo brevetto a Gertrude Tendrich, un’imprenditrice di Denver. Alla P&G vanno tutti pazzi per Tendrich, la prima #girlboss, che lanciò la Tampax quello stesso anno e fu la prima presidente della società. La P&G ha comprato la Tampax solo nel 1997, ma si è appropriata di questo antefatto con lo zelo dei convertiti e sfruttando la moda delle “donne fondatrici” sui social network.

Pubblicità britanniche dei Tampax. A sinistra, 1980, a destra, 1942. (Alamy)

Chi lavora per le nuove marche spesso sottolinea con aria di superiorità che gli assorbenti interni non sono praticamente cambiati dai tempi di Tendrich, e che per un secolo la Tampax non è riuscita a migliorare il prodotto. Di fronte a quest’accusa, Amy Krajewsky, direttrice generale per la ricerca e lo sviluppo della Tampax, reagisce con cortese veemenza : “Non sono assolutamente d’accordo! Dedico ogni giorno della mia vita a migliorare i nostri prodotti. Io e altre centinaia di persone!”. A dimostrazione di questi sforzi, Krajewski ricorda la storia ufficiale della marca: il passaggio fondamentale dagli applicatori di cartone a quelli di plastica negli anni novanta, il lancio del formato mini e, più di recente, l’aggiunta di una parte intrecciata all’inizio del cordino (LeakGuard), che dovrebbe impedire a un assorbente saturo di macchiare la biancheria intima.

Nonostante questi cambiamenti, che la Tampax considera epocali, in un secolo di esistenza l’azienda ha puntato più sul marketing che su una vera innovazione del prodotto. Si tratta sempre dello stesso assorbente interno, confezionato in una miriade di modi diversi: Tampax Radiant, Tampax Pure, Tampax Pearl, Tampax Compak, Tampax Pearl Compak. Ci sono diversi livelli di assorbenza, definiti da un preciso schema di colori: mini (rosa), regular (giallo), super (verde), super plus (arancione). Chi usa questi prodotti conosce così bene i colori da prendere la confezione giusta senza pensare, una lealtà commerciale probabilmente ereditaria (molte donne con cui ho parlato comprano lo stesso prodotto usato dalla madre o dalla sorella, come se le marche fossero orologi antichi tramandati di generazione in generazione).

Come tutte le aziende nate decenni fa, la Tampax ha dovuto cambiare il modo in cui si presenta per adattarsi ai tempi. “È cominciata una nuova era per le donne”, annunciava nel luglio del 1936 una pubblicità uscita su American Weekly. “Quest’estate potrete sentirvi comode e aggraziate come mai prima d’ora”. La grazia è rapidamente passata di moda e, a giudicare dalle pubblicità su carta stampata, a partire dagli anni sessanta le donne con le mestruazioni si sono allegramente dedicate a tutta una serie di attività fisiche poco compatibili con questa fase del ciclo, tra cui lo sci d’acqua, la scherma, l’equitazione e l’indossare abiti bianchi e attillati al mare. Negli Stati Uniti gli spot televisivi sui prodotti per il ciclo sono stati vietati fino al 1972. La svolta, per la Tampax, è arrivata nel 1985, quando un’ancora semisconosciuta Courteney Cox pronunciò la parola “ciclo” per la prima volta in uno spot televisivo negli Stati Uniti. “Indossa un body da aerobica molto attillato”, ha commentato Suk dopo avermi mostrato estasiata il video, “cosa che non potrebbe fare se avesse un assorbente esterno”.

Insistendo sulla discrezione dei suoi prodotti, la Tampax ha sempre dato l’impressione di considerare le mestruazioni qualcosa da nascondere. “La bustina discreta con apertura facilitata ti conquisterà”, afferma la pubblicità dei Tampax Radiant. Questo messaggio, però, stona con lo spirito dei tempi. Perché dovremmo nascondere un assorbente interno nella manica mentre andiamo in bagno o preoccuparci che qualcuno possa sentirci aprire la bustina? Per anni le grandi marche di prodotti per le mestruazioni hanno usato nelle loro pubblicità un liquido blu, come per impedirci di pensare a cosa impregna un assorbente.

Mobilitazione mestruale
Negli annali delle mestruazioni il 2015 è stato un momento fondamentale. Ad aprile una ragazza di nome Kiran Gandhi ha corso la maratona di Londra mentre aveva il ciclo, senza usare nessun tipo di prodotto sanitario (il cosiddetto free-bleeding). Poco dopo Instagram si è dovuto scusare per aver eliminato una foto condivisa dalla poeta Rupi Kaur, in cui si vedeva una ragazza addormentata che sanguinava attraverso i pantaloni della tuta. Sull’onda di una crescente mobilitazione politica sono nate varie iniziative: nel 2016 Gabby Edlin ha fondato Bloody good period per rendere i prodotti per le mestruazioni più accessibili alle donne rifugiate, mentre all’inizio del 2017 il Red box project ha lanciato una campagna a favore della distribuzione gratuita di questi prodotti in tutte le scuole. Obiettivo raggiunto: dal 20 gennaio 2020 il governo britannico fornisce gratuitamente prodotti per il ciclo in tutte le scuole e i college del paese. Le proteste contro l’iva sui prodotti per le mestruazioni si sono diffuse e alcuni paesi, tra cui l’Australia e la Germania, hanno ridotto o eliminato l’imposta. E – simbolica ciliegina sulla torta – alla fine del 2019 un emoji del ciclo (una gocciolina rosso vivo) è stato finalmente aggiunto al menù dell’iPhone.

Sull’onda di questa nuova atmosfera mestruale, le startup si sono moltiplicate, proponendo prodotti che vanno dagli assorbenti in cotone biologico (Lola, Cora, Flo) alle mutandine assorbenti (Thinx, Modibodi) passando per un applicatore riutilizzabile (Dame). Tutte vantano altissimi standard etici. La Flo versa il 5 per cento del suo ricavato ad associazioni per le donne, la Freda collabora con Bloody good period e la Dame si presenta come “l’unica marca di prodotti per il ciclo con un impatto positivo sul clima”, compensando il doppio dell’anidride carbonica che produce. Le startup lo fanno perché ci credono, ma anche perché hanno letto le indagini di mercato: le consumatrici, soprattutto giovani, sono sempre più alla ricerca di marche affiancate da valori, rivestite di moralità.

La Tampax ha dovuto recuperare il terreno perso. In circostanze simili, le multinazionali sembrano quei professori di liceo che cercano di mostrarsi aggiornati su una tendenza che li ha già fatalmente superati: l’autodeterminazione delle donne e l’orgoglio mestruale vanno di moda? Dateci il tempo di fare qualche decina di gruppi di discussione e vi sforniamo un hashtag da paura. Già nel 2014 la Always aveva promosso la campagna pubblicitaria #LikeAGirl, rivelando al mondo che le ragazze possono fare davvero tutto. E nel 2019 la P&G ha lanciato una campagna contro la period poverty (il non potersi permettere prodotti per il ciclo), in cui s’impegnava a regalare un prodotto, per esempio un assorbente, per ogni confezione acquistata in un certo periodo di tempo.

Anche la Tampax ha aggiornato i suoi prodotti, lanciando il primo assorbente interno in cotone biologico nel 2019 e, solo sul mercato statunitense, la sua prima coppa mestruale nel 2018. “La Tampax non ha inventato la coppa mestruale, ma l’ha resa perfetta”, ha annunciato, riconoscendo con candore il suo ritardo (le coppe sono state inventate negli anni trenta del novecento). Infine, per compensare le carenze etiche di alcune delle sue marche, la P&G ha comprato la startup statunitense “di pubblica utilità”, This is L.

È così grave che la P&G segua una moda se la moda in questione implica prodotti più sostenibili e offre più scelta alle donne? Tra le responsabili di startup e attiviste che ho intervistato, tutte sembravano scettiche. “Fagocitano l’impegno”, mi ha detto Affi Parvizi-Wayne, fondatrice dell’azienda Freda. Secondo Edlin, i prodotti della P&G andrebbero boicottati. “Fanno quello che fanno per proteggersi, non per cambiare”, è stato il commento di Celia Pool della Dame.

Se una startup vuole rovesciare l’impero della Tampax, deve rivoluzionare il settore. La Daye, fondata nel 2018, pensa di aver trovato il modo. La sua innovazione, lanciata da poco, è un assorbente interno biodegradabile analgesico intriso di cannabidiolo. La Daye è come una startup creata in laboratorio, un modello di imprenditoria contemporanea. C’è una fondatrice di 24 anni, l’energica Valentina Milanova, che ha l’ampio sorriso e lo sguardo risoluto di chi, invece di sprecare i suoi vent’anni tra baretti e relazioni improbabili, ha raccolto 5,5 milioni di dollari tra investitori di primo piano come Index Ventures, Kindred Capital e Khosla Ventures. C’è una sede in un’ex fabbrica di biscotti nel quartiere londinese di Bermondsey. E c’è una strategia di crescita ambiziosa. La Daye al momento ha circa 15mila clienti. “Entro i prossimi cinque anni speriamo di averne un milione al mese”, mi ha detto Milanova. “Un sacco di donne soffrono di dolori mestruali”.

Assorbenti all’olio di cbd
Chi fonda una startup spesso ha una storia che sembra una favola dei tempi moderni. Quella di Milanova è particolarmente forte: cresciuta a Sofia, in Bulgaria, ha avuto le sue prime mestruazioni a nove anni, ha pensato che stesse morendo, ha tenuto le mestruazioni nascoste per anni, sopportando dolori tremendi, e ha cominciato a fare ricerche su questo tema. Dopo aver scoperto le proprietà della canapa industriale (a basso contenuto di thc), ha messo a punto vari prodotti a casa, prima di avere l’idea di rivestire gli assorbenti interni di olio di cbd. “Sarai sballata?”, mi ha chiesto un amico, affascinato, quando gli ho detto che l’avrei provato. La risposta breve è no, ma secondo i primi test condotti dalla Daye su più di duecento persone, l’effetto antidolorifico di un assorbente al cbd si fa sentire entro venti minuti, contro i quaranta richiesti da una pasticca.

Qualche tempo fa, in una mattina di sole, sono andata a visitare la fabbrica della Daye. Milanova mi ha guidato attraverso un open space dove diciannove giovani impiegati avevano lo sguardo sveglio di chi fa un lavoro che i genitori non capiranno mai del tutto. Lungo il corridoio c’era la cosiddetta camera bianca, dove un uomo con una tuta bianca protettiva si muoveva lentamente intorno a una macchina che rivestiva gli assorbenti interni di una patina marrone di olio di cbd. Nel 2018, quand’era a caccia di investitori, Milanova si è trovata di fronte a reazioni che andavano dall’imbarazzo a un’abissale ignoranza. Un tizio le ha chiesto perché c’erano diciotto assorbenti nelle subscription boxes (le confezioni ricevute via abbonamento), dato che a quanto gli risultava le donne non avevano le mestruazioni per diciotto giorni. In un primo momento Milanova aveva puntato a una base di sole investitrici, ma ha capito quasi subito che non sarebbe stato possibile. Anche se il femtech (fastidioso neologismo per indicare tutte le attività commerciali legate alla salute o al benessere di metà della popolazione mondiale) fa tendenza, le startup in questo settore faticano ancora a trovare finanziamenti, dato che nelle società che investono in capitale di rischio più del novanta per cento di chi prende le decisioni è composto da uomini. “È fondamentale che chi ricopre questi incarichi – e per un bel po’ saranno ancora soprattutto uomini – capisca che il femtech non è un mercato di nicchia”, mi ha detto con ammirevole diplomazia Leila Rastegar Zegna, socia fondatrice di Kindred Capital, una delle prime a sostenere la Daye.

Milanova non vuole solo produrre un nuovo tipo di assorbente interno, vuole trasformare la cultura che ruota intorno alle mestruazioni. Come altre marche, anche la Daye ha puntato molto sul tono, che è spiritoso e diretto tanto quanto quello della Tampax è eufemistico e ingessato (“Sì, la cacca cambia quando hai le mestruazioni”, era il titolo di un recente post sul blog della Daye). Molte aziende usano lo stesso linguaggio esplicito: lo slogan della Dame è “Sanguina rosso, pensa verde”, mentre la Freda proclama “Smettiamo di nascondere gli assorbenti interni nella manica”. Sul sito di Clue, un’app che monitora il ciclo, un articolo contesta il fatto di associare le mestruazioni a un genere preciso, sostenendo che sarebbe più corretto parlare di “persone con le mestruazioni” o “mestruanti” piuttosto che di “donne”.

La piscina
Un altro aspetto comune a tutte queste startup (anche se non lo dicono) è che, dietro l’applicatore riutilizzabile o la patina di cbd, i loro prodotti sono molto simili. Mentre la Tampax produce assorbenti nelle sue fabbriche con i suoi macchinari, i prodotti delle nuove marche europee escono quasi tutti da un numero ristretto di impianti. Le due fabbriche principali, mi è stato detto in via confidenziale, sono in Slovenia e in Spagna. Questa riservatezza non ha nulla di strano: tutte le aziende proteggono le loro informazioni di produzione. Ma molte di queste marche sembrano non rendersi conto che in questi impianti i loro assorbenti interni sono probabilmente fabbricati dagli stessi macchinari. Un’azienda svizzera chiamata Ruggli ha il quasi monopolio nel settore delle macchine che producono assorbenti interni. In altre parole, praticamente ogni assorbente interno che sbarca sul mercato è un prodotto Ruggli, al di là del suo particolare design o della sua nuova funzionalità.

Il numero di cose che si possono fare con un batuffolo di cotone e rayon è molto limitato

La fabbrica della Ruggli si trova alla periferia di Koblenz, una cittadina svizzera sulle rive del Reno. Uno dei suoi slogan – “Precisione svizzera” – annovera gli assorbenti interni tra i motivi di orgoglio del paese, a fianco degli orologi e del private banking. Più di quaranta persone lavorano in questo edificio bianco vicino a un campo che, nel pomeriggio della mia visita, odorava di letame. Nell’atrio c’è una vasca a forma di rombo stracolma di decine di migliaia di assorbenti interni. “La nostra piscina di assorbenti!”, mi ha detto Valon Maliqi, direttore vendite e marketing. Non è l’unica stranezza in termini di arredamento. Alle pareti è appesa una serie di fotografie di torsi nudi fatti di puntini verdi e gialli, il cui pezzo forte – un prorompente seno senza veli – troneggia nella sala riunioni del consiglio di amministrazione.

Appassionato di ingegneristica applicata agli assorbenti interni, prima del mio arrivo Maliqi aveva già sistemato sul tavolo della sala riunioni una lunga fila di assorbenti accanto ai panini. Era impaziente di mostrarmi l’intera gamma di prodotti che i macchinari Ruggli possono fabbricare, e continuava ad alzarsi di scatto per disegnare su una lavagna bianca le varianti – infinitesimali – che creano per le diverse marche: assorbenti interni con un buco all’estremità superiore, altri con scanalature ondulate (per far scendere il sangue lungo l’assorbente), altri ancora con delle righine azzurre. Quando gli ho chiesto a cosa servissero le righine azzurre, mi ha lasciato intendere con lo sguardo che erano di dubbia utilità. In fondo il numero di cose che si possono fare con un batuffolo di cotone e rayon è abbastanza limitato.

Durante la visita, Maliqi continuava a socchiudere porte, preoccupandosi della natura esclusiva dei macchinari Ruggli. Ho provato a rassicurarlo, osservando che difficilmente sarei riuscita a riprodurre sul mio taccuino i segreti di un meccanismo che richiede dai sei ai dieci mesi per essere costruito e costa circa due milioni di franchi svizzeri (un milione e 900mila euro). Ma quando si ha un quasi monopolio, la prudenza non è mai troppa. Un macchinario Ruggli dura parecchi anni, una solidità agli antipodi del carattere monouso e di massa degli oggetti che fabbrica. L’azienda vende meno di quaranta macchine all’anno a una trentina di produttori di assorbenti interni in tutto il mondo, il che vuol dire che circa la metà della produzione mondiale di assorbenti interni proviene da macchine Ruggli. Tra i suoi clienti ci sono multinazionali che possiedono diverse macchine in funzione ventiquattr’ore al giorno, con una produzione di 120 assorbenti interni al minuto.

Nella fabbrica mi è stato mostrato un macchinario finito, in fase di collaudo. Era un’impressionante bestia di acciaio luccicante a forma di L, grande quanto un divano smisurato o un monolocale in una città carissima, una fantasia ingegneristica di pistoni collegati a ruote dentate, tubi intrecciati a cinghie, il tutto in rapido e sincronico movimento. A un’estremità, un nastro di tessuto bianco e una bobina di spago venivano infilate nel macchinario, mentre all’altro capo saltavano fuori degli assorbenti perfettamente rifiniti, muniti di applicatore e avvolti in un imballaggio di plastica. Il prodotto finale era poi attentamente controllato da un tizio molto serio in maglietta e jeans neri e stivaloni.

Nella fabbrica lavoravano solo uomini. “Ah ah, già!”, ha detto Maliqi. “Nell’ufficio tecnico abbiamo qualche donna”. Ha fatto una pausa. “Di solito in quella sala riunioni ci sono uomini che parlano di assorbenti interni. Che non usiamo mai!”. La sua osservazione ci ha lasciati entrambi perplessi. “Ma nel marketing è pieno di donne”, ha aggiunto. “E hanno un sacco di potere”.

È l’ufficio marketing che promuove le scanalature ondulate, i buchi in cima agli assorbenti, le righine azzurre, tutto quello che dovrebbe spingerci a scegliere una confezione invece di un’altra. “In realtà il prodotto in sé non ci interessa molto, noi fabbrichiamo le macchine e basta”, ha risposto Maliqi quando ho cercato di capire le ragioni profonde delle scanalature ondulate (ho scoperto che scanalature e buchi sono di fatto inutili, perché il sangue impregna l’assorbente in tutte le direzioni, non solo dall’alto verso il basso). Quello che interessa decisamente di più Maliqi sono alcune delle tendenze nel settore che potrebbero avere delle conseguenze sul giro di affari della Ruggli: il calo dei consumi, il crescente numero di alternative e la diffidenza sempre più forte verso la composizione degli assorbenti interni.

I timori per la salute
Il materiale principale di un assorbente che non è fatto solo di cotone è il rayon, o viscosa. Si ricava dalla polpa di legno rigenerata, attraverso un procedimento chimico, sotto forma di fibre cellulosiche. È il procedimento chimico che preoccupa le consumatrici, e le marche più recenti fanno leva su questi timori: “La maggior parte degli assorbenti interni contiene fibre sintetiche trattate chimicamente e cotone coltivato con pesticidi”, si legge sul sito della Dame. “Nel corso della sua vita una donna usa 12mila assorbenti interni, e la vagina è molto assorbente. Fate voi i calcoli”. Al momento non esistono calcoli né dati scientifici che dimostrino la pericolosità degli assorbenti di rayon, anche se l’allarme sollevato negli anni novanta sulla presenza al loro interno di diossina, una sostanza probabilmente cancerogena, continua ancora oggi.

Queste allusioni a sostanze chimiche e pesticidi mandano la P&G su tutte le furie. “A volte la prendo sul personale. Mi devo ripetere: questa gente non ti conosce”, mi ha detto Amy Krajewski, direttrice del settore ricerca e sviluppo per la Tampax. Ha parlato dei milioni di dollari che la P&G spende per testare e controllare i suoi prodotti, fondi che le piccole startup non hanno. “Ci atteniamo a standard molto alti. Non metteremmo mai deliberatamente a rischio la salute di una donna”.

Tranne quella volta in cui lo hanno fatto, involontariamente. Nel 1975 la P&G presentò Rely, un prodotto “super assorbente” che dovette essere ritirato dal mercato cinque anni dopo in seguito a numerosi casi di sindrome da shock tossico, una malattia potenzialmente mortale causata da un’infezione batterica. “Sì, quella fu una catastrofe”, ammette Cheri McMaster, responsabile della comunicazione della P&G. Ma a sentir lei il risultato è che oggi l’azienda è tra i maggiori esperti di sindrome da shock tossico.

Alla Ruggli, Maliqi mi ha fatto notare che il cotone non è immacolato come ci piace pensare. Per renderlo di un bianco seducente e privarlo di tutte quelle cose che si possono trovare in un campo (insetti, terra), dev’essere trattato. E, come dice Maliqi, “bisogna chiedersi: da dove arriva questo cotone?”. L’India e il Pakistan sono due dei principali produttori di cotone al mondo, e molte inchieste hanno rivelato quanto quest’industria dipenda dal lavoro minorile. Non solo: per ogni chilo di cotone servono diecimila litri di acqua, tutto questo per contribuire a fabbricare un prodotto che sarà inserito in un applicatore di plastica non riciclabile.

Detto ciò, se le persone sono disposte a pagare di più per gli assorbenti interni di cotone biologico, allora i marchi del settore, compresa la Tampax, li produrranno. Le versioni migliorate di un prodotto di base sono una via rapida verso il profitto, e molte delle fondatrici di startup con cui ho parlato avevano obiettivi finanziari ambiziosi. La fondatrice della Flo, Tara Chandra, spera che la sua diventi un’azienda da cento milioni di sterline tra cinque, massimo dieci anni. Milanova punta al suo milione di consumatrici. Ma soprattutto, vogliono tutte assistere alla rovina della Tampax.

Quasi tutte hanno evocato con occhi sognanti l’incredibile successo della startup Dollar Shave Club. Lanciata nel 2011, vendeva rasoi e prodotti per la rasatura attraverso abbonamenti mensili. Dopo aver attirato numerosi sostenitori durante i suoi quattro cicli di investimenti, l’azienda è cresciuta rapidamente. Il suo modello di business sembrava perfettamente applicabile ai prodotti per le mestruazioni: la crescita di barba e baffi, come il ciclo, è un processo inevitabile che richiede acquisti regolari. Poi, nel 2016, la Dollar Shave Club è stata comprata dalla Unilever, pare per un miliardo di dollari.

“Dal punto di vista commerciale la menopausa è formidabile”

Molte di queste startup – come molte startup in genere – sono destinate a scomparire. “Parecchi dollari andranno in fumo”, ha detto Rastegar Zegna, una delle investitrici della Daye. O saranno invece guadagnati, se la Tampax comprerà la Daye. Nel frattempo la Tampax continuerà la sua marcia imperiale, forte della consapevolezza che da vecchie paure spesso possono nascere nuovi mercati. In quanto marca leader del settore, ha il dovere di educare le attuali – e potenziali – consumatrici, spiegandogli i benefici legati ai suoi prodotti.

Secondo alcune indagini di mercato, mi ha detto Suk, le donne afroamericane e ispaniche sarebbero meno inclini a usare gli assorbenti interni perché convinte che possano lacerare l’imene. “Negli Stati Uniti, se una donna appartiene a una minoranza etnica, è statisticamente più probabile che provi un assorbente interno cinque o sei anni dopo una donna caucasica”, ha spiegato.

Per rimediare, la Tampax ha lanciato la campagna itinerante #LiveRadiant, “per donne nere, a cura di donne nere”, rivolta ai college tradizionalmente frequentati da giovani neri come il Texas Southern e il Clark Atlanta. Delle impiegate della Tampax si presentano con un’“ambasciatrice mestruale”, Cece Jones-David, e un’ostetrica, la dottoressa Kiarra King, incaricate di rispondere alle domande delle studenti mentre loro distribuiscono campioni gratuiti di Tampax Radiant, il marchio pensato per le donne nere (che vanta una bustina imbottita “più morbida e silenziosa”, da riutilizzare come sacchetto assorbente per il tampone usato). Uno spot televisivo mostra una giovane donne nera che lancia la sua bustina di plastica in un cestino all’altro capo di un abbagliante divano bianco.

Mercati inesplorati
Le startup di solito non possono permettersi una campagna itinerante né uno spot pubblicitario in tv, ma sono in grado di cambiare approccio più rapidamente di una grande multinazionale. Molte erano restie a parlare dei loro piani, ma alcune – come la Flo e la Freda – stanno già compiendo il logico passaggio verso i prodotti per l’incontinenza. La differenza tra gli assorbenti per le mestruazioni e quelli per le perdite urinarie è inesistente, eppure quest’ultimo mercato è da sempre dominato dalla poco invitante marca Tena. Se pensate che i suoi prodotti siano comprati solo da anziane malandate in collant contenitivi, è perché non avete scoperto che, dopo un parto, si può essere giovani, in salute e con un pavimento pelvico disastrato.

Molte delle nuove marche pensano già al futuro delle loro clienti, ovvero al fatto che non avranno il ciclo per sempre. La menopausa è un’altra sfera della salute femminile un tempo ammantata di vergogna, ma sempre più attraente sul piano commerciale. Come è successo alle mestruazioni, anche la menopausa sta vivendo una fase di rebranding culturale. Sono usciti libri su libri; la Bbc ha prodotto un documentario della giornalista Mariella Frostrup; Gwyneth Paltrow ha pubblicato un video sul suo sito Goop. “Penso che nella nostra società non ci sia un esempio forte di una donna in menopausa piena di ambizioni”, ha dichiarato Paltrow, presumibilmente candidando se stessa – l’alta sacerdote delle aspirazioni esorbitanti – per l’incarico.

È logico che un produttore di assorbenti interni voglia coprire “l’intero viaggio ormonale”, come l’ha definito una delle fondatrici di startup che ho intervistato. Perché smettere di vendere quando finisce il ciclo? La menopausa offre ininterrotte e molteplici opportunità. “Dal punto di vista commerciale, è formidabile”, sottolinea Parvizi-Wayne della Freda. Una donna in menopausa ha probabilmente più soldi da spendere e più tempo per spenderli. I sintomi – insonnia, ansia, calo della libido, mal di testa, vampate di calore – sono tanti e “ogni singolo sintomo è un mercato tutto da esplorare”, come osserva Parvizi-Wayne.

Che si possa considerare il mondo come un insieme di mercati esplorati o ancora da esplorare fa riflettere. Mi sono chiesta cosa rimane da esplorare. La morte? Già fatto: ci sono una serie di efficienti startup mortuarie che propongono esequie meno care e consigli sulla successione. La mente? Anche questa già coperta (come un altro milione di iscritti, ho pagato per scaricare l’app Headspace sul mio cellulare). Anche lo scollegarsi è stato monetizzato da tempo, e anche in questo sono tra quelli che pagano per il privilegio (l’app Freedom, che disattiva internet, è probabilmente il software che uso di più). Non sorprende che gli unici mercati ancora da esplorare siano quelli di cui tradizionalmente preferiamo non parlare. “Ammettiamolo”, ha detto un investitore a Parvizi-Wayne, “i tabù vanno di moda”. Visto così, un tabù è solo un mercato irresistibilmente inesplorato.

(Traduzione di Francesca Spinelli)

Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2020 sul numero 1350 di Internazionale. L’originale era uscito sul Guardian con il titolo “Tampon wars: the battle to overthrow the Tampax empire”.

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