Mentre mi trovavo nel nord di Israele, ho sentito una donna dire a un’altra: “Non so cosa fare, mio figlio è un attivista di Meretz. È di sinistra”. Meretz è un partito della sinistra moderata e liberale (non socialista). La donna era un’ebrea ortodossa, almeno a giudicare dai vestiti che indossava. Immediatamente mi sono sentita molto vicina a quell’anonimo ribelle che nuota controcorrente: tutti i sondaggi concordano sul fatto che alle prossime elezioni del 22 gennaio i partiti di destra e di estrema destra otterranno una maggioranza schiacciante, ancora più netta rispetto a quella attuale.

Ma uno stato che da 46 anni si impone grazie alla superiorità militare su una popolazione che non ha diritti di cittadinanza non può, secondo me, essere definito una democrazia. Negli ultimi anni la coalizione al potere ha condotto un attacco normativo violento e razzista contro gli abitanti non ebrei, che può essere riassunto dallo slogan “nessuna lealtà, nessun diritto”.

Qual è la colpa degli immigrati che l’8 gennaio aspettavano davanti a un ufficio del ministero dell’interno per rinnovare il visto? Quando si è scatenato un diluvio universale, gli ebrei sono stati fatti entrare in fretta e furia. Gli immigrati, invece, sono stati costretti a rimanere fuori. Sono le regole, ha spiegato un funzionario del ministero.

Per gli ebrei, Israele continua a essere una democrazia rassicurante. Ma è un ossimoro. Qualcuno, per amore della precisione, l’ha definita “etnocrazia”.

Traduzione di Andrea Sparacino

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