Mentre infilavo un pacchetto di fazzoletti nella borsa mi sono ricordata che qualche giorno prima ce ne avevo già messo un altro. 

Il primo l’avevo comprato da un ragazzino, troppo serio per la sua età, a un semaforo di Ramallah. La nostra conversazione si era interrotta appena era scattato il verde. Il secondo pacchetto l’ho comprato a Essaouira, un’affascinante città marocchina che la settimana scorsa ha ospitato il diciassettesimo festival di gnaoua, la musica spirituale musulmana dei discendenti degli schiavi in Africa occidentale. 

Decine di migliaia di persone si sono radunate nella grande piazza Moulay Hassan per ascoltare un musicisti non gnaoua, il compositore e polistrumentista jazz Marcus Miller. In precedenza aveva suonato il trombettista francolibanese Ibrahim Maaluf. È in quel momento che un bambino di circa sei anni (poi ho saputo che si chiamava Hamzeh) si è avvicinato a me per vendermi il pacchetto. Non ho potuto cominciare una conversazione con lui perché la musica era molto alta e non ero sicura di riuscire a farmi capire con il mio arabo standard. Così non ho potuto condividere il ricordo degli altri Hamzeh che ho conosciuto: un miliziano di Hamas che mi ha protetta durante una visita a Gaza nel 2008 e poi è stato ucciso dai soldati israeliani; un fotografo di Gaza che ha documentato la morte del piccolo Mohammed al Durra nel settembre del 2000; un ricercatore della valle del Giordano che mi ha fatto scoprire lo stile di vita e il rapporto con la terra dei rifugiati beduini. 

Al festival hanno partecipato una decina di gruppi gnaoua e i loro “maestri” (

maalem). Le nacchere d’acciaio, i liuti e le voci profonde che ho ascoltato per la prima volta mi hanno accompagnato per tre giorni e pulsano ancora nelle mie vene. Sto ancora elaborando quello che ho visto e sentito, e non sono ancora pronta a tradurlo in parole. Per questo preferisco occuparmi di cose più familiari, come Hamzeh e il suo pacchetto di fazzoletti. 

Traduzione di Andrea Sparacino

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