Risolvere problemi è un’attività impegnativa. Tanto più impegnativa quanto più i problemi sono complessi e opachi (cioè coinvolgono molti fattori con interazioni e gerarchie di cause ed effetti difficili da intuire). Per districare la matassa bisogna affrontare la fatica di quello che il Nobel Daniel Kahneman chiama “il pensiero lento”.
Si tratta di procedere passo dopo passo: riconoscere che un problema esiste, definirlo in modo oggettivo e accurato, scomporlo, e poi ordinare, valutare e analizzarne le componenti, ipotizzare soluzioni, verificare se sono valide, confrontarle per scegliere la migliore. Se andate su Amazon.it e cercate
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I peggiori d’Europa. Il test Ocse-Pisa 2012, che indaga le capacità degli studenti quindicenni di sessantasei paesi, si è occupato soprattutto delle competenze in matematica e problem solving, ovvero “la capacità di un individuo di mettere in atto processi cognitivi per comprendere e risolvere situazioni problematiche per le quali il percorso di soluzione non è immediatamente evidente. Questa competenza comprende la volontà di confrontarsi con queste situazioni per realizzare le proprie potenzialità in quanto cittadini riflessivi e con un ruolo costruttivo”.
I risultati arriveranno nell’autunno 2013. Incrociamo le dita.
L’ultima volta che l’Ocse-Pisa si era concentrato sul problem solving è stato nel 2003: allora la competenza dei nostri studenti è risultata molto più bassa della media internazionale, e la peggiore di tutti i paesi comunitari, Grecia esclusa. Il test ha anche rilevato preoccupanti disparità tra scuole del nord, con risultati lievemente superiori alla media internazionale, e scuole del sud, con risultati drammaticamente inferiori (quasi 80 punti meno della media, che si aggira intorno ai 500).
Tre alternative. Per l’osservatore empirico, oggi lo stile nazionale dominante nel problem solving sembra dividersi in tre filoni maggiori: a) litighiamo ferocemente e scegliamo la soluzione di chi vince; b) ignoriamo il problema, che prima o poi si risolve da solo. In alternativa, ricamiamoci su, intrappolandoci nell’analysis paralysis; c) cerchiamo di estrarre in fretta qualche coniglio dal cappello.
Tutto sommato, la strategia “conigli dal cappello” non è pessima quanto può sembrare: è la modalità intuitiva che si basa sulle euristiche, scorciatoie di pensiero che, per dirla in modo semplice, consentono di far valutazioni spannometriche, sulla base di convinzioni individuali e di esperienze pregresse. Nella maggior parte dei casi permette di trovare rapidamente, se non la migliore delle soluzioni possibili, una soluzione “abbastanza” buona.
Teresa Amabile, della Harvard business school, distingue tra problem solving attuato per euristiche o per algoritmi e segnala, fra l’altro, che solo usando le euristiche si può esercitare un pensiero creativo, non intrappolato nel rigore di una procedura, e magari trovare un inaspettato uovo di Colombo grazie a un insight, l’illuminazione creativa,.
Occhio alle cantonate. Il guaio è che procedendo per euristiche si possono prendere anche delle gran cantonate: succede quando si sopravvalutano le informazioni più accessibili, più facili da ricordare o più cariche dal punto di vista emotivo. O quando si tende (è la fissità funzionale) a considerare immutabile un elemento che magari non lo è.
Oppure quando si ripropongono meccanicamente (Einstellung effect) strategie che si sono rivelate efficaci in precedenza, senza considerare le novità del problema. O quando ci si ostina nel perseguire una soluzione fallimentare, nell’infondata convinzione che sia sufficiente intensificare gli sforzi per trasformare il fallimento in successo. E in moltissimi altri casi.
Visto che qualche problema da risolvere ce l’abbiamo, converrebbe fare attenzione almeno alle cantonate più diffuse. Con la speranza che, nel cappello, qualche coniglio sia rimasto.
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