“Dicci la tua storiella favorita e prova a spiegarla senza rovinare il finale”. Gli studenti americani che ci riescono hanno più possibilità di essere ammessi all’università di Chicago (quinta nella graduatoria delle migliori università degli Stati Uniti).
Quelli che rispondono brillantemente alla domanda “Immagina di dover vivere il tuo prossimo anno nel passato o nel futuro: quale specifico anno sceglieresti, e perché?” possono aspirare alla Brandeis (trentaduesima in graduatoria). Quelli che discutono in modo arguto dell’acronimo Yolo (
you only live once, “si vive una volta sola”) saranno bene accolti alla Tufts (ventottesima in graduatoria).
La faccenda è meno bizzarra di quanto possa sembrare, ed è il New York Times a raccontarla: nel dettagliato questionario (Common application) che negli Stati Uniti tutti gli studenti devono compilare per essere ammessi al college è compreso un essay, un breve tema di 500 parole al massimo.
Da qualche anno un piccolo ma crescente gruppo di università americane d’élite propone anche titoli più pepati e sfiziosi accanto a temi più tradizionali, riguardanti esperienze e obiettivi di vita (per esempio “descrivi una persona che ti ha influenzato profondamente”).
In passato l’università di Chicago ha chiesto “che c’entra Play-Doh (una pasta per modellare simile al pongo) con Platone?”
L’obiettivo è duplice: da una parte selezionare studenti non solo preparati e orientati al successo, ma anche capaci di pensare in maniera indipendente e originale. Dall’altra, comunicare il fatto che le università medesime apprezzano, applicano e vogliono sviluppare il pensiero non convenzionale: sulle domande stravaganti del test d’ammissione l’università di Chicago ha addirittura costruito parte della propria identità. Sembra che tuttavia la maggioranza degli studenti, compresi quelli bravi, preferisca non rischiare e si orienti sui titoli più ovvi.
L’articolo del New York Times viene ripreso – con qualche imprecisione – dalla Repubblica, che ci ricama sopra presentando questo faccenda dei titoli bizzarri sia come un’assoluta novità, sia come un segno dello “sbriciolarsi della fede granitica nei test scolastici”. Non è proprio così: la storia delle domande stravaganti va avanti da qualche anno. E, d’altra parte, i test scolastici, anche negli Stati Uniti, sono assolutamente vivi e vegeti.
Per poter accedere all’università gli studenti devono superare il Sat reasoning test (matematica, comprensione dei testi e scrittura) e il Sat subject test (tre materie a scelta tra inglese, storia, social studies, matematica, scienze e lingue straniere).
I test Sat corrispondono al nostro esame di maturità, e lì si tratta di compilare dei bei questionarioni tradizionali con domande a risposta multipla: sono decine e decine di caselle da crocettare in poco meno di quattro ore, e solo chi ha un buon punteggio ai Sat può sperare, una volta presentata l’application con tanto di essay più o meno tradizionale, di sostenere un colloquio di ammissione. Se volete provare, guardate qua. Io, barando non poco, mi sono cimentata con il test d’italiano. E sono comunque riuscita a sbagliare una domanda su 27.
Il fatto è che i test a risposta multipla verificano in primo luogo la capacità di rispondere con esattezza ai test medesimi, senza agitarsi per via del tempo breve a disposizione e senza morire di noia per l’ineliminabile stupidità media delle domande.
Del resto, l’autoreferenzialità è il problema comune a tutti i test, compresi quelli d’intelligenza. Ed è un problema che si acuisce assai con i test di creatività, una capacità ancor più sfuggente dell’intelligenza e difficile da descrivere in modo univoco, semplice ed esauriente.
Tra l’altro, perfino la relazione tra creatività e intelligenza è labile: mentre le persone creative hanno di norma un’intelligenza abbastanza (ma non enormemente) sopra la media, non sempre le persone che risultano molto intelligenti sono anche molto creative.
Insomma, gente: pesare e misurare qualcosa di immateriale come una competenza è in generale complicato, ed è tanto più complicato quanto più la competenza in sé è complessa.
Chiedere agli studenti di scrivere un
essay bizzarro per capire se ragionano in maniera creativa è un espediente curioso, segnala l’esistenza del problema di trovare strumenti di selezione meno meccanici e più accurati ed esprime il bisogno di affrontarlo, ma non lo risolve certo.
Come se ne esce? È fuori discussione il fatto che le nuove generazioni debbano essere non solo preparate, ma anche capaci di pensare in maniera autonoma e non conformista. L’ha segnalato con forza l’Ocse, descrivendo gli skill, le competenze necessarie per affrontare il futuro prossimo, in un mondo in cui i lavori automatici e ripetitivi saranno sempre di meno (e sempre meno pagati), e la necessità di affrontare in modo efficace e flessibile situazioni e problemi inediti, comprendendoli e gestendoli, crescerà in maniera esponenziale.
Però da una parte, e non solo negli Stati Uniti, i sistemi scolastici figli della rivoluzione industriale sembrano ancora orientati a incoraggiare e sviluppare il pensiero procedurale. Dall’altra, i metodi di valutazione correnti non appaiono tuttora in grado di intercettare e valorizzare il pensiero creativo degli studenti. E, a maggior ragione, non sanno valutare il pensiero creativo potenziale.
Il paradosso che sta alla base di tutto questo è evidente: come si fa a standardizzare nuovi modelli educativi capaci di produrre risultati (e, soprattutto, di formare individui) non standardizzati?
L’unica chiave possibile è nella variabile che sfugge a ogni omologazione: la componente umana. Gli insegnanti, nel loro rapporto con gli studenti.
Forse qualche buona indicazione può venire dalle estreme periferie del mondo. L’edizione inglese di Wired racconta l’esperienza di una scuola superiore a Matamoros, un villaggio messicano polveroso, assolato e funestato dal traffico di droga.
Bene: dopo anni di sforzi inefficaci davanti a classi annoiate Juárez Correa, docente in quella scuola, decide di cambiare tutto, a cominciare dalla disposizione dei banchi. Incoraggia gli studenti a gestire le proprie modalità di apprendimento. Non dà soluzioni o procedure, anche per la matematica o la geometria, ma li invita a sperimentare.
A un certo punto Correa chiede a Paloma, la migliore tra i suoi studenti, come mai prima non si fosse mai impegnata nella matematica. “Perché nessuno l’ha mai resa interessante” è la risposta.
Per farla breve e arrivare subito al lieto fine: Paloma risulta la migliore in matematica di tutto il Messico, anche se i test di verifica sono quelli tradizionali. L’intera classe di Correa, anche con i test tradizionali, ha performance eccellenti. Leggete l’articolo. Non è poi così facile emozionarsi di fronte a una storia scolastica, ma a me è successo proprio questo.
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