La domanda è questa: cosa accadrà domani se né i ministri finanziari né i capi di stato e di governo troveranno un accordo, non diciamo per risolvere definitivamente ma almeno per tamponare la crisi greca?
I primi si vedranno a mezzogiorno e i secondi all’ora di cena, e nessuno ha una risposta certa. Chi deve (governi, banche centrali di tutto il mondo, ma in particolare di quei paesi più vulnerabili al contagio delle sfortune finanziarie) si prepara al peggio. Chi può corre in banca a ritirare ciò che gli resta sul conto (questo riguarda i greci). Anche chi ritiene impossibile che si proceda ineluttabilmente verso lo schianto è costretto a tenere sul tavolo le prossime scadenze.
Oggi, 22 giugno. Due vertici politici d’emergenza, uno dopo l’altro: eurogruppo ed eurovertice (sbigottisce che sia convocato e presieduto dal polacco Donald Tusk, che è presidente del Consiglio europeo e viene da un paese che non ha adottato l’euro, ma così vanno le cose qui a Bruxelles). Si cerca l’accordo per chiudere l’attuale programma di aiuti, riprendere il finanziamento d’emergenza della Grecia, aprire subito dopo un negoziato per un terzo programma di aiuti (da 30-40 miliardi).
Domani, 23 giugno. L’ipotesi meno peregrina è che in mancanza di un accordo sulle ultime proposte del primo ministro greco Alexis Tsipras, secondo Atene più vicine alle posizioni dei creditori (governi dell’eurozona, Fmi e Bce), si prenda ancora tempo visto che la data limite per chiudere la partita sarebbe il 29 giugno (più avanti spiego perché).
L’ipotesi peggiore è che non ci sia più spazio per un accordo e, soprattutto, che sia esplicitata l’impossibilità di continuare il negoziato. Può essere rassicurante pensare che uno scenario del genere sia poco probabile, dato che c’è ancora qualche giorno di tempo e che nessuna delle due parti vuole restare con il fiammifero acceso in mano passando alla storia come la protagonista riluttante di una potenziale tragedia politico-finanziaria.
Ma siamo comunque in una situazione in cui non tutte le pedine sono mosse da un fronte o dall’altro. Anzi, siamo in pieno rischio incidente e i suoi prodromi si sono già manifestati.
Si tratta della fuga dalle banche. Negli ultimi giorni i bancomat in tutta la Grecia hanno lavorato costantemente, ma senza essere presi d’assalto e senza scene di panico. Con code sporadiche. Però i risultati sono impressionanti. Si è passati da un ritmo quotidiano di 200 milioni di euro ritirati (dato aggregato a livello nazionale) a 400 milioni, per salire martedì scorso a 700 milioni e poi mercoledì a un miliardo. Secondo dati non ufficiali, la settimana scorsa sono stati ritirati 4,2 miliardi di euro. Dal 2009 i depositi bancari sono crollati: da 239 miliardi a 125 miliardi di euro (anche questi sono dati non ufficiali), erano 133 miliardi due mesi fa, 169 miliardi alla fine del 2014.
Quanto più durerà l’incertezza sul negoziato, tanto più accelererà la fuga dalle banche. Fino a esaurimento, se qualcuno non alza il segnale di stop. Ecco perché si sta profilando lo scenario peggiore che viene prima del default, situazione in cui un debitore non paga un creditore: è lo scenario del controllo dei capitali per fermare la fuga dai depositi, come avvenne a Cipro nel 2013. Quella fase a Cipro è finita qualche mese fa, ma ci si trovava nell’ambito di un’intesa con i creditori, con un programma economico concordato con la troika, mentre nel caso della Grecia potrebbe trattarsi di una decisione estrema presa nel pieno di un braccio di ferro con i creditori pubblici.
Il controllo dei capitali deve essere concordato a livello europeo. Si tratta, dunque, di un bene condiviso e come tale non può essere adottato a piacimento dai singoli stati
Il controllo dei capitali deve essere concordato a livello europeo e approvato dalla Commissione, perché la libera circolazione è una delle quattro libertà fondamentali dell’Unione europea. Si tratta, dunque, di un bene condiviso e come tale non può essere adottato a piacimento dai singoli stati. Se saltano le condizioni per un accordo, il rischio è che la Banca centrale europea sia costretta dalla situazione – o da un cambiamento dei rapporti di forza ai suoi vertici – a sospendere il sostegno alla fornitura di liquidità alle banche elleniche, la sola stampella finanziaria oggi a disposizione della Grecia.
Senza tale sostegno le banche sarebbero insolventi, non solo alle prese con una crisi di liquidità. Che Mario Draghi farà di tutto per non assumersi una tale responsabilità è fuori discussione. Potrà prendere tempo, qualche giorno appunto, poi la Bce dovrà decidere se mantenere o meno il paracadute. Molti sono convinti che, nel caso di un collasso delle banche, si aprirà la strada verso la Grexit.
Giovedì 25 giugno. I capi di stato e di governo europei tornano a Bruxelles, questa volta in formazione completa, 28. C’è il Consiglio europeo di primavera sognato da David Cameron per lanciare la sua campagna di rinegoziazione della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. A fronte di Grexit, Brexit sarà derubricata. Senza un accordo oggi, i 19 leader dell’eurozona ritenteranno giovedì.
Molti sostengono che i tempi sarebbero troppo stretti, ma è interessante ricordare a questo proposito la posizione della cancelleria tedesca: se il primo eurovertice straordinario non basta, se ne farà un altro.
Martedì 30 giugno. È il grande giorno: la Grecia deve versare al Fondo monetario internazionale poco più di un miliardo e mezzo. Se non lo fa non precipita nel default tecnico, perché occorre un mese di tempo per la certificazione formale presso l’Fmi, ma il colpo si farebbe sentire: sarebbe il secondo incidente che farebbe rivivere l’incubo del fallimento della Lehman Brothers nel 2008.
Con il mancato pagamento al Fondo monetario, la Bce sarebbe davvero di fronte al dilemma se poter continuare o meno a sostenere le banche elleniche. La Grecia ha fatto lo slalom per superare gli ostacoli dei vari pagamenti nei mesi scorsi in attesa dello sblocco dei 7,2 miliardi dell’ultima tranche del programma di aiuti in corso, la cui proroga scade appunto il 30, e di usare i 10,9 miliardi oggi riservati alla ricapitalizzazione delle banche e i profitti accumulati dalla Bce per la detenzione dei titoli pubblici ellenici.
Il passaggio dal mancato pagamento al Fondo monetario internazionale alla situazione di default, e da questa all’abbandono dell’euro, è tutto fuorché automatico
Ora le casse del tesoro sono quasi vuote. Il versamento all’Fmi è il primo di una lunga, pesante serie: 3,5 miliardi alla Bce e alle banche centrali nazionali il 20 luglio, un mese dopo 3,2 miliardi sempre alla Bce e alle banche centrali. Questo oltre ai pagamenti interni per salari pubblici e pensioni.
Quanto alla probabilità che si realizzi lo scenario peggiore, va detto che il passaggio dal mancato pagamento al Fondo monetario internazionale alla situazione di default, e da questa all’abbandono dell’euro, è tutto fuorché automatico.
Ma ha senza dubbio ragione il banchiere centrale austriaco Ewald Nowotny quando afferma: “In termini economici e politici significa caos”. La fuga dalle banche lo dimostra perfettamente. Nowotny aggiunge che “non ci sarebbe alternativa all’uscita dall’euro e al ritorno alla dracma” e non tutti, anche ai vertici della Bce, sono d’accordo su questo.
Prima della dracma in linea teorica c’è la fase intermedia dello “iou” (da I owe you, io sono in debito con te), cioè dei “pagherò” emessi dallo stato con i quali il tesoro greco pagherebbe stipendi e fornitori. Cambiali che sarebbero di fatto una moneta virtuale, secondo alcuni calcoli svalutata del 40 per cento. Una tragedia per un paese che importa quasi tutto ed esporta pochissimo, circa il 12 per cento del pil. Il più grande settore di esportazione in teoria è l’industria navale, che però ha pochi collegamenti con l’economia greca: i magnati dell’Egeo non pagano le tasse in Grecia. Tutto è molto difficile ora, per i greci. Senza l’euro lo sarebbe di più.
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