“La storia insegna ma non ha allievi”, osserva la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann nel suo romanzo postbellico Malina. “La storia non si ripete, ma insegna”, risponde Timothy Snyder nel suo libro On tiranny (Sulla tirannia), scritto sull’onda della rabbia mentre Donald Trump si preparava a giurare come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, un anno fa.
Da storico, Snyder si sente particolarmente chiamato in causa per fare una diagnosi e per mettere in discussione i cambiamenti dell’era Trump e il percorso verso la società autoritaria che si preannuncia.
Snyder non è uno storico qualsiasi, è un esperto di Europa dell’est e sottolinea che durante la campagna per le presidenziali statunitensi la maggior parte dei commentatori non ha capito cosa stava accadendo. Ma, aggiunge, un gruppo di osservatori sapeva esattamente cosa c’era in gioco, perché, in quanto esperti dell’Europa dell’est, erano capaci di interpretare i segnali: “La storia, che per tanto tempo è sembrata muoversi da ovest verso est, ora pare avere invertito la tendenza: tutto ciò che accade qui sembra essere accaduto prima là”.
Il successo inaspettato di Snyder, che dopo 44 settimane è ancora al terzo posto nella classifica della saggistica del New York Times, è radicato nel contesto statunitense in cui è nato. Ma anche se l’obiettivo principale di On tiranny è l’eccezionalismo americano (descritto nel 1935 da Sinclair Lewis nel suo Da noi non può succedere), queste osservazioni possono essere usate anche su questo lato dell’Atlantico.
La dura lezione dell’est
Nel suo saggio C’era una volta il 1989 (pubblicato anche su Internazionale 1225) la giornalista e scrittrice Slavenka Drakulić scrive che i modelli di conflittualità dei Balcani degli anni novanta sono oggi visibili in Europa occidentale: la politica strumentalizza le identità e il nazionalismo si fonde e si confonde con la religione, creando una miscela letale. L’occidente sta imparando la dura lezione dell’est, fa notare Drakulić, ma con modalità totalmente diverse da quelle sperate.
Queste osservazioni diventano ancora più preoccupanti quando sono pronunciate con disinvoltura da uno dei protagonisti del dramma politico in corso in Europa: “Ventisette anni fa, qui in Europa centrale credevamo che l’Europa fosse il nostro futuro; oggi, sentiamo che siamo noi il futuro d’Europa”. Così lo scorso luglio il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha concluso il suo annuale discorso estivo di fronte a una platea di ungheresi in Romania.
Proprio nel 2014, durante i lavori estivi dell’università ungherese di Băile Tuşnad (o Tusnádfürdő in lingua magiara), Orbán aveva illustrato la sua visione di “democrazia illiberale”, un concetto che da allora ha dominato il dibattito politico, forse superato nel suo successo solo da “populismo”. Anche se il discorso del 2017 ha ricevuto meno attenzioni, verosimilmente è stato uno degli episodi politici più interessanti dello scorso anno.
Orbán descrive gli attuali cambiamenti in Europa e negli Stati Uniti come uno scontro tra l’“élite transnazionale” e i “leader nazionali patriottici”. E i patrioti, tra i quali il premier ungherese si inserisce, hanno una missione: difendere la nazione, e di conseguenza l’Europa.
Secondo il premier ungherese Orbán un paese forte deve essere un paese sicuro
Secondo Orbán, l’evento politico più importante dell’ultimo anno non è stata né la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, né il fatto che due elezioni in Francia abbiano spazzato via l’intero sistema dei partiti tradizionali. L’evento più importante è stato che i quattro paesi del gruppo di Visegrád, tra cui oltre all’Ungheria ci sono Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno cominciato a cooperare “più strettamente che mai” e hanno dunque acquistato maggiore influenza sulla politica e sulle decisioni europee.
Finora quest’influenza si è manifestata soprattutto nell’evitare la ripartizione dei profughi tra tutti gli stati membri dell’Ue. “Voi volevate i migranti, noi no”, ha affermato Orbán durante una visita in Germania all’inizio del 2018, invitato dagli alleati di Angela Merkel della Csu. “Non è stata un’ondata di profughi, ma un’invasione”, ha aggiunto riferendosi agli avvenimenti dell’estate e dell’autunno 2015, quando centinaia di migliaia di profughi hanno attraversato l’Europa in direzione della Germania, dell’Austria o della Svezia. “Non vogliamo considerare queste persone come dei profughi musulmani. Li consideriamo come degli invasori musulmani”.
La “sostituzione etnica”
Nel suo discorso estivo, Orbán ha spiegato quali sono i suoi timori. Secondo lui, un paese forte deve essere un paese sicuro. Inoltre, associa spesso l’idea di sicurezza a quella di identità culturale: un paese forte deve essere in grado di proteggere i suoi confini e di prevenire attacchi terroristici. Ma, aggiunge, “non esiste cultura forte senza identità culturale”, e “sebbene si infranga qualche tabù affermando questo, non esiste alcuna identità culturale in una popolazione priva di una composizione etnica stabile, la cui alterazione comporta una conseguente alterazione dell’identità culturale. Un paese forte non può permettere che questo accada”.
Questo complesso demografico-culturale sta alla base dell’ideologia nazionalista di Orbán: non solo definisce gli ungheresi “una specie in via di estinzione”, ma allarga la questione per abbracciare l’intero continente: “L’Europa resterà il continente degli europei?”.
Oggi, sostiene Orbán, l’Europa è nelle mani dell’investitore e filantropo statunitense di origini ungheresi George Soros. Secondo il “piano Soros”, l’Ue “si sta preparando a consegnare il suo territorio a una nuova Europa meticcia e islamizzata”.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’ambizione dell’Ungheria sia essere in prima fila nella battaglia contro Soros, contro i “grandi inquisitori” di Bruxelles e contro ciò che Orbán definisce la “scristianizzazione” dell’Europa. Uno dei segnali della strategia di riarmo ideologico che l’attuale governo persegue è la conferenza sul Futuro dell’Europa che doveva svolgersi a Budapest in gennaio, nell’ambito della presidenza ungherese del gruppo di Visegrád. Il programma era stato già annunciato quando gli organizzatori hanno deciso di rimandare la conferenza a maggio, dopo le elezioni politiche. Anche se la Fidesz, il partito di Orbán, dovrebbe vincere senza troppi problemi, non si vogliono correre rischi inutili, considerato quanto sono controversi i relatori presenti nel programma.
I governi dell’est vogliono riempire l’idea di Europa con proposte vecchie, costruire muri interni ed esterni
Invitato ad aprire questa conferenza “scientifica” è Milo Yiannopoulos, l’ex senior editor di Breitbart News, il sito d’informazione statunitense di estrema destra. Yiannopoulos paragona regolarmente il femminismo al cancro e di recente ha affermato che chiunque si definisce musulmano dovrebbe essere “espulso dai paesi occidentali”.
L’editore tedesco Götz Kubitschek, una delle principali personalità intellettuali della nuova destra, doveva introdurre una tavola rotonda per chiedersi (retoricamente) se “noi”, tormentati da sensi di colpa culturali, dobbiamo “sacrificare la nostra cristianità, la nostra libertà e il nostro stile di vita” o se invece dobbiamo “ritirarci nella nostra fortezza, difenderci e rafforzare i nostri valori e la nostra coesione interna”.
È un modo di descrivere il bivio storico in cui si trova l’Europa in questo momento. Un altro sarebbe chiedersi cosa rimane del progetto di integrazione europea se gli stati dell’Unione non riescono a proporre una risposta comune alla fondamentale questione migratoria – e se il significato di parole come solidarietà e coesione va oltre il mero trasferimento di denaro da ovest a est tramite i fondi strutturali e d’investimento.
I governi dell’Ungheria e degli altri paesi di Visegrád sanno esattamente cosa vogliono. Vogliono riempire l’idea di Europa con proposte vecchie, costruire muri interni ed esterni, dentro alle teste degli europei e nel territorio; muri che possano tenere lontani gli “invasori”.
Saranno in grado di esportare a ovest la loro visione nazionalculturale? Succederà anche qua ciò che è avvenuto in Europa orientale?
La risposta austriaca
La risposta probabilmente arriverà nel 2018. Orbán ha già affermato che questo sarà l’anno dei grandi scontri. E, come cento anni fa, il futuro dell’Europa sarà deciso in Austria: il 1 luglio, la repubblica alpina assumerà la presidenza del Consiglio europeo per la terza volta dopo il 1998 e il 2006 e il nuovo governo austriaco, composto dai conservatori del Partito popolare austriaco (Övp) e dai populisti di destra del Partito della libertà (Fpö), si sta preparando.
Già prima del voto, lo scorso autunno, giravano speculazioni sulla possibilità per l’Austria di aderire formalmente al gruppo di Visegrád. Un’allusione al film di Quentin Tarantino suggeriva che i “quattro di Visegrád” diventerebbero così “the hateful five”, a causa delle dure posizioni austriache sui migranti. Prima delle elezioni il leader dell’Fpö, Heinz-Christian Strache, aveva dichiarato che l’avvicinamento al gruppo di Visegrád era da prendere in considerazione.
Tuttavia, l’Austria non diventerà mai una componente dei V4. Il semplice fatto che Vienna sia un contributore netto al bilancio europeo rende incompatibile la sua visione con quella degli altri quattro stati dell’Europa centrale che ricevono tutti più di quanto versano. Un altro divario incolmabile è che tutti i quattro paesi postcomunisti sono membri della Nato, mentre l’Austria coltiva e difende con forza, almeno a livello simbolico, la sua neutralità.
Una mano da Donald Tusk
In ogni caso, è già chiaro che il governo del cancelliere Sebastian Kurz (Övp) si avvicinerà ancor di più a questi paesi per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione, mettendo da parte la ripartizione coordinata dei richiedenti asilo secondo il sistema di quote e la protezione dei confini esterni dell’Unione. E questo si accorda perfettamente con le idee di Viktor Orbán e dei colleghi polacco, ceco e slovacco.
Quando Sebastian Kurz, il giorno precedente il giuramento da cancelliere, ha presentato il programma di governo si è riferito esplicitamente a una proposta avanzata giusto una settimana prima da Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo. Per evitare che l’Europa venga lacerata, Tusk ha affermato che bisogna distogliere l’attenzione dalla redistribuzione dei profughi. Kurz ha colto la palla al balzo, mentre altri leader europei hanno criticato la proposta del presidente del Consiglio europeo, definendola “inaccettabile” e “antieuropea”.
Tuttavia, se si presta attenzione alle dichiarazioni del neocancelliere, sembra che le sue posizioni siano dovute tanto alla tattica politica quanto alla strategia. “Il nostro paese può creare ponti in Europa”, afferma Kurz. “Ci impegniamo a cercare una stretta cooperazione con la Germania, la Francia e gli altri paesi. Ma allo stesso tempo, desideriamo anche coltivare buone relazioni con la parte orientale del continente”.
La nuova posizione sulla politica migratoria consentirà all’Austria di giocare un ruolo da mediatrice tra gli stati centrorientali e i loro avversari occidentali; un ruolo che si sposa con la posizione geografica del paese e con la sua eredità storica. “Questo ha sempre giovato alla nostra economia” ha spiegato Kurz in un’intervista rilasciata a Der Spiegel poco dopo le elezioni. “Politicamente, credo sia un nostro obbligo”.
Rimane comunque da vedere se i paesi che (insieme all’Austria) hanno sopportato maggiormente il pesante fardello dell’arrivo dei migranti (soprattutto la Svezia e la Germania) considereranno questa posizione come sufficientemente neutrale. Alla fine di gennaio Herbert Kickl (Fpö), ministro dell’interno del governo Kurz, durante un incontro dei colleghi europei a Sofia ha dichiarato che l’Austria non accetterà le quote obbligatorie di profughi e il sistema di ricollocamento. I commentatori stranieri ne hanno concluso che l’Austria si sta avvicinando al fronte del no, invece che porsi nel mezzo.
L’Austria vuole assumere il ruolo di costruttore di ponti tra est e ovest
Stare dalla parte dei paesi di Visegrád per quanto riguarda le quote di migranti non è l’unico “punto di vista orientale” adottato dal nuovo governo austriaco. In una discussa intervista con il quotidiano Kurier, la ministra degli esteri Karin Kneissl ha ha detto che le sanzioni imposte dall’Ue alla Russia come ritorsione per l’annessione illegale della Crimea e la destabilizzazione dell’Ucraina sono state fallimentari. In realtà, ha detto Kneissl, le uniche sanzioni che abbiano mai “portato risultati sono state le sanzioni sportive contro il Sudafrica”.
A prescindere dal fatto che l’analisi di Kneissl possa essere corretta o no, appare chiaro anche in questo caso che l’Austria vuole assumere il ruolo di costruttore di ponti tra est e ovest.
Kneissl non si stanca mai di sottolineare che lei non è formalmente affiliata a nessun partito politico, ma è stata nominata dall’Fpö. Nel dicembre 2016, il leader dell’estrema destra e ora vicecancelliere Heinz-Christian Strache ha firmato un accordo di cooperazione quinquennale con il partito di Vladimir Putin, Russia unita. Il patto include passaggi dedicati alla non interferenza reciproca, alla promozione del dialogo e dello sviluppo economico e alla “crescita delle giovani generazioni nello spirito del patriottismo e dell’appagamento del lavoro”.
È difficile immaginare che abbandonerà queste ambizioni internazionali, ora che lui e la sua ministra degli esteri sono finalmente in una posizione in cui possono davvero attuarle.
L’accordo siglato tra l’Fpö e Russia unita è stato il primo di questo genere, e ha segnato l’inizio di una nuova fase nelle relazioni del Cremlino con i partiti europei di estrema destra, descritte da Anton Shekhovtsov nel suo recente Russia and the western far right – Tango noir (La Russia e l’estrema destra occidentale – Tango noir).
Il pragmatismo può essere dannoso
Gli imprenditori austriaci vogliono fare affari; il diritto internazionale e l’etica politica rimangono in secondo piano. È tristemente nota la standing ovation per il presidente Putin da parte dell’assemblea della camera di commercio austriaca nell’estate del 2014, nel bel mezzo del conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Gli affari sono affari: i gestori d’albergo e gli operatori sciistici nella repubblica alpina che dipende molto dal turismo vogliono attirare di nuovo i grandi spendaccioni russi; in Stiria i coltivatori di frutta e i produttori di latticini non vedono l’ora di riprendere l’export verso est. Questi rappresentanti del commercio e dell’industria costituiscono una grossa fetta della base elettorale dell’Övp, o, come l’ha posta Sebastian Kurz, “questo ha sempre giovato alla nostra economia”.
In ogni caso, questo presunto pragmatismo può anche rivelarsi dannoso, come osserva Ivan Krastev nel rapporto Security policy preview del 2018, pubblicato lo scorso autunno dal ministero della difesa austriaco. L’Austria può sembrare la miglior candidata per il ruolo di intermediaria tra il Cremlino e l’occidente, ma anche se così fosse, dovrebbe trattenersi dal provarci, avverte Krastev: adottare il linguaggio e le posizioni di entrambi gli schieramenti in questo conflitto, con esigue prospettive di successo, rischia di indebolire la posizione di Vienna all’interno dell’Ue.
Possiamo dire lo stesso rispetto al tentativo dell’Austria di navigare le agitate acque d’Europa: le possibilità di riuscire a evitare il sistema di quote di profughi possono essere maggiori, dato che l’indebolito (temporaneamente?) governo tedesco ha quantomeno manifestato la sua volontà di rimandare i negoziati europei su questo tema, ma la repubblica alpina sta mettendo a rischio la sua posizione anche in questo caso.
Il fallimento degli stati dell’Europa orientale nell’assumere la comune responsabilità di gestire i profughi già presenti sul territorio dell’Unione ha aperto una frattura nell’Ue che resterà aperta per anni.
Mentre il precedente conflitto nord-sud, culminato nella crisi del debito dell’eurozona, era solo di carattere economico, l’attuale scontro est-ovest interessa i valori fondanti e le percezioni fondamentali del significato e dell’obiettivo del progetto d’integrazione europea. Il disappunto in alcuni stati dell’Europa occidentale e settentrionale è schietto, e lo schieramento scelto in una disputa che potrebbe disintegrare l’Unione assume grande importanza, anche se da quella rottura dovesse risultare un’Europa a due o più velocità.
Se l’Austria vuole essere pragmatica, allora dovrebbe cercare alleati tra gli stati occidentali che le somigliano, come per esempio quelli che sono entrati nell’Unione europea contemporaneamente a Vienna nel 1995: la Svezia e la Finlandia sono paragonabili all’Austria a livello sia economico sia sistemico molto più di qualsiasi stato del gruppo di Visegrád, e hanno anche interessi coincidenti a lungo termine. Lo stesso accade per la Germania, la grande vicina dell’Austria a nordovest.
Ma forse non è il pragmatismo a guidare il nuovo governo di Vienna, bensì l’ideologia. Un vecchio nuovo concetto per il futuro d’Europa.
Prima di avviare le riprese del film Il terzo uomo, in cui il cinico Harry Lime di Orson Welles si aggira come un’ombra tra i settori occupati della Vienna del dopoguerra, il produttore americano David O. Selznick scrisse un biglietto al regista Carol Reed, esprimendo il suo entusiasmo per l’opportunità di presentare la metropoli centroeuropea come un microcosmo del conflitto est-ovest, e di appoggiare l’occidente.
Forse il cancelliere Sebastian Kurz ha dei piani piuttosto diversi per quando alla fine dell’anno, in occasione della presidenza di turno dell’Ue, inviterà a Vienna i suoi colleghi.
(Traduzione di Andrea Torsello)
In collaborazione con VoxEurop.
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