Keith Richards, Crosseyed heart (Virgin)
Ci sono voluti ventitré anni, ma finalmente Keith Richards ha pubblicato il suo terzo album da solista. Rispetto al precedente Main offender il clima è molto più disteso e divertito. La squadra vincente di Steve Jordan (anche coproduttore del disco), Waddy Watchel e gli altri X-Pensive Winos non è cambiata attraverso i decenni e il risultato è ancora una volta eccellente. Fuori dallo stampo degli Stones, Richards gioca con una serie di influenze musicali molto più varie, dal reggae al soul, dal Delta blues al rock più puro (ottimo il singolo Trouble) passando per ballad struggenti come Illusion (cantata in duetto con Norah Jones) e Robbed blind.

Come sempre Richards se ne frega dei tempi del business discografico: ha registrato i pezzi con calma, quando ne aveva voglia e senza scadenze, e lungo questi anni ha ulteriormente affinato la sua abilità di cantante, che con la sua “non voce” riesce a essere molto più espressivo di tante ugole da professionista. Crosseyed heart è un gioiello il cui valore cresce ad ogni ascolto e proprio quest’aria casual, di album realizzato solo per divertirsi, ne fa uno degli album migliori ascoltati quest’anno.

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Itzhak Perlman, Henri Vieuxtemps: Concerti per violino n. 4 e 5 (Warner Classics)
Per festeggiare i settant’anni di Itzhak Perlman, la Warner Classics ha ristampato tutti gli album realizzati dal grande violinista per la Emi in un gigantesco box set di 77 cd, ma fortunatamente per le nostre tasche ha anche messo in vendita separatamente gli album. Da questo mare magnum che comprende indimenticabili esecuzioni del repertorio violinistico, da Bach a Brahms e da Paganini a Bartók, ho scelto questo disco del 1978 con due concerti che si ascoltano raramente in Italia, il quarto e quinto di Henri Vieuxtemps, un compositore romantico che non ha certo cambiato il volto della storia musicale ma è comunque autore di pagine che ancora stanno solidamente in piedi, grazie a una brillante scrittura per lo strumento solista (di cui Vieuxtemps era un grande virtuoso).

Rispetto ad altri compositori-violinisti come Paganini, Sarasate e Ysaÿe la musica di Vieuxtemps è decisamente più interessante dal punto di vista formale e armonico, i passi di bravura stratosferica del solista sono sempre inseriti con intelligenza in un tessuto sinfonico complesso, la cui orchestrazione sempre elegante fu ammirata anche da compositori del calibro di Berlioz e Thaikovsky. Sono pagine di ampia durata che però non fanno mai scendere l’attenzione di chi ascolta, e Perlman ne è interprete assolutamente insuperabile tra i violinisti in attività oggi (bisogna tornare ad Heifetz per ritrovale una simile combinazione tra tecnica superlativa e capacità espressive). Alla testa dell’Orchestre de Paris, che fornisce un’ottima prova, è l’amico di sempre Daniel Barenboim che (anche in un repertorio non propriamente abituale per lui) si dimostra ancora una volta partner musicale sensibile e intelligente.

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Steve Hackett, Wolflight (Wolfwork/Inside Out)
Nuovo album in studio per il prolifico chitarrista inglese, maestro del prog rock. Niente di particolarmente nuovo rispetto agli ultimi album, ma la qualità compositiva è ancora una volta molto alta, così come la realizzazione del disco che vede impegnati musicisti provenienti da numerosi paesi, con strumenti particolari come il Tar, Oud e il Duduk, provenienti da Armenia, Arabia e Turchia. Grazie alla scintillante produzione di Roger King e dello stesso Hackett il disco si svolge proprio come un “film per le orecchie” (come avrebbe detto Frank Zappa), da godersi particolarmente in cuffia per apprezzare le mille sfumature del mix e i tantissimi colori strumentali e vocali.

I testi (scritti da Hackett assieme alla moglie Jo) sono ancora una volta ispirati da leggende antiche della tradizione (si passa da quella nordica a quella dell’antica Grecia) e narrano di lupi, vampiri, luoghi scuri, rispolverando tutto l’immaginario tipico del fantasy e del prog, richiamando in certi momenti i bizzarri testi dei Genesis del periodo di Peter Gabriel. Nonostante il timing generoso del disco (oltre un’ora) non ci sono pezzi riempitivi. Tutte le composizioni hanno una ragion d’essere, attraversano stili musicali assai differenti e danno modo ad Hackett di mostrare nuovamente la sua bravura tecnico/espressiva sia sulla chitarra elettrica che anche in dimensioni maggiormente legate a sonorità acustiche.

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