Dall’alto dell’aereo il Libano sembra il paradiso in terra. Il profilo frastagliato della costa s’immerge con dolcezza nelle acque blu del Mediterraneo e, dietro Beirut, la montagna libanese, chiazzata di verde scuro, incombe sulla città e sul litorale quasi a volerli proteggere. Ma più ci si avvicina all’aeroporto di Beirut, più la dolcezza del Libano sfuma in una realtà fatta di cemento e lamiera. L’incanto si rompe all’improvviso, brutale. Dove sono le casette con il tetto di ardesia? E le coste dorate? Dov’è finito il blu del Mediterraneo?
Dall’alto Beirut sembra Singapore: i grattacieli affastellati gli uni sugli altri si sono mangiati le antiche case beirutine, la costa è ostaggio di resort privati che ne hanno cambiato il profilo, l’antica zona del suq, il mercato ottomano, è stata inghiottita da un centro commerciale ultramoderno, che per dare una parvenza di continuità è stato chiamato “Beirut Souqs”. Dopo la fine della guerra civile libanese (1975-1989), che ha fatto 150mila morti, 900mila emigrati e due milioni di profughi, Beirut e il Libano non sono più stati gli stessi. E lo sanno bene i migliaia di libanesi scappati all’estero durante la guerra.
Qualcuno poi è tornato, ma molti altri no. Non è tornato per esempio il musicista franco-libanese Bachar Mar Khalife: quando la famiglia scappò in Francia alla fine della guerra, Bachar aveva solo otto anni. E in Francia è rimasto e si è formato come pianista, compositore e polistrumentista. Primo premio in pianoforte presso il conservatorio nazionale di Parigi, negli anni ha collaborato con l’orchestra nazionale di Francia e ha composto colonne sonore per il cinema, tra cui i film di Danielle Arbid, Hicham Ayouch e Pia Marais.
Il paese negli occhi di un bambino
Bachar è figlio d’arte, il padre è nientemeno che Marcel Khalifé, suonatore di oud, cantante e star della musica libanese famoso in tutto il mondo, che tra le tante cose ha messo in musica i versi del celebre poeta palestinese Mahmud Darwish.
Il Libano di Bachar, quello di un’infanzia che sa di alberi di limone, di arak, gelsomino e kibbeh, forse non esiste più. Ecco perché quei ricordi l’artista li ha messi tutti nel suo terzo e ultimo album, Ya balad (Oh, paese), uscito in Francia nel 2015 e registrato da solo in studio in dieci giorni.
Non mi rispecchio nelle categorie di oriente e occidente. Penso che siamo tutti l’oriente e l’occidente di qualcun altro
Un album in cui mescola pianoforte, clavicembalo, percussioni, sintetizzatore e il nay, e che si muove tra jazz, pop, rock e l’elettronica. Il tutto tenuto insieme dalla voce calda e roca di Bachar che canta in arabo: “Mi piace quando la gente dopo un concerto viene da me e mi dice ‘non parlo l’arabo ma ora so che non ho bisogno di conoscere una lingua per capirla’”, ha detto a l’artista, che presenterà l’album al Middle East festival di Firenze la settimana prossima.
“Ya balad parla del mio paese lontano e immaginato, di tutto quello che avevo idealizzato con i miei occhi da bambino”. Ma non etichettatelo come musicista orientale che vive in occidente: “Preferisco definire la mia musica un mix di generi. Quanto alle categorie di oriente e occidente non mi ci rispecchio. Penso che siamo tutti l’oriente e l’occidente di qualcun altro”.
Dall’album emergono tutta la nostalgia, l’amore e anche il sentimento di conflittualità dell’artista nei confronti il Libano: un rapporto complicato da una censura che lo ha colpito lo scorso anno, quando il pezzo di apertura di Ya balad, Kyrie Eleison (“Dio abbi pietà di noi e lasciaci in pace”), è stato accusato di blasfemia e quindi censurato. Su Facebook poi l’artista si è sfogato scrivendo: “Canterò sempre Kyrie Eleison tutte le volte che vorrò gridare contro quelle istituzioni politiche e religiose che vogliono governarci come fossimo ancora nel medioevo”.
Ya Balad è il canto per un paese che fa di tutto per dimenticare il passato, ma è contro questo oblio forzoso che l’artista dirige la sua vena poetica. Ed ecco che Balcoon, la seconda traccia, è cantata in arabo, francese e inglese, le tre lingue del Libano di oggi, caricatura di una gioventù che non sa parlare bene l’arabo, e che si sente più a suo agio mischiando le lingue della diaspora e della colonizzazione.
L’eredità culturale araba e libanese emerge dolcemente nella ninna nanna levantina Yalla tnam (Su, dormi), con la voce della famosa attrice franco-iraniana Golshifteh Farahani. Al ritmo della dabke si balla Lemon, composta in collaborazione con la madre Yolla Khalifa, a sua volta famosa cantante. Lemon ricalca i versi del poeta egiziano Samir Saady e il tema principale del brano lo fornisce un clavicembalo digitale accordato in quarto di tono.
Madonna, una preghiera dedicata ai bambini prematuramente scomparsi, riprende i versi del celebre poeta iracheno Saadi Youssef, con le musiche orchestrate dal padre, mentre Laya yabnaya, canzone erotica popolare, parla dell’amore struggente di un amante che arriva alla follia: “Sono perso senza di te/Tu sei la mia anima gemella/Balsamo per le mie ferite”. Il tema della memoria e dell’oblio è invece la linfa che pervade Layla (Notte), una bellissima ballata solcata dalle note di un pianoforte dolente e potente che si fa sempre più incalzante, in cui il cantante-poeta si rivolge alla notte, che lo ha dimenticato.
Ma è il singolo Ya balad, che racconta di esilio, di perdite e del dolore dell’abbandono, ad avergli dato più filo da torcere: “Ya balad è stata la canzone più difficile da scrivere. È come se avessi toccato una ferita profonda e dolorosa dentro di me, una ferita che in qualche modo, attraverso di me, arrivava a sfiorare tutti quelli che hanno perso il proprio paese. Dopo aver registrato la canzone e l’album, però, ho capito che questa canzone non parlava più della mia infanzia, delle mie ferite o del mio paese. La mia speranza è che chi la ascolta pensi alle proprie ferite, al proprio esilio, al proprio sé più intimo. Ecco perché non è una canzone sul Libano. Ed ecco perché la poesia e la musica sono strade per quell’altrove che non riusciamo a definire, ma di cui abbiamo bisogno, e che è sacro”.
“Il rapporto tra memoria e presente pone uno degli interrogativi culturali più importanti del dopoguerra libanese”, ha scritto il romanziere e intellettuale libanese Elias Khoury. Forse Bachar Mar Khalife, musicista e cantante libanese di Francia, con Ya balad ha trovato il modo di risolvere l’apparente inconciliabilità del presente con il passato che permea ancora tutta la narrativa e la produzione culturale contemporanea di questo piccolo, fragile ma vivo paese affacciato sul blu del Mediterraneo.
Il 4 aprile Bachar Mar Khalife si esibirà a Firenze alla serata di inaugurazione del Middle East now festival _(cinema La Compagnia, via Cavour 503__),_ _e terrà una_ _conversazione-performance “piano solo”_ _il_ _5 aprile_ _all’istituto francese (ore 18.30, piazza Borgognissanti 2, entrata gratuita con prenotazione dei posti)._
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