Quando Donald Trump vinse le elezioni nel 2016, libri come 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley tornarono di nuovo in cima alle classifiche, insieme a una serie di saggi scritti sul momento per analizzare la situazione politica. Le vetrine delle librerie americane e inglesi cominciarono a essere rivestite di bandiere a stelle e strisce che facevano da sfondo a pile di libri sull’alt-right, il totalitarismo digitale, il nemico russo, la crisi del neoliberismo.

Nei giorni dell’insediamento di Trump, il Guardian, prendendo atto di questa nuova esplosione di letture militanti, politicamente impegnate, pubblicò un articolo intitolato: “Sex doesn’t sell anymore. Activism does”. Chiunque fosse attivista, progressista, antitrumpiano, critico della Brexit, o lottasse per l’emancipazione e l’allargamento dei diritti delle minoranze partendo dai femminismi, dai movimenti per la tutela ambientale o dalla lotta di classe, cominciava a organizzarsi. C’era una finestra spazio-temporale perfetta in cui portare avanti il conflitto, tornare per strada, e mettere in crisi il sistema.

Gli obiettivi non erano sempre gli stessi: c’era chi chiedeva di sopravvivere in una democrazia in cui si viene ammazzati perché si è neri o licenziati perché transessuali, chi mirava alla destituzione del patriarcato, chi voleva introdurre linguaggi politici nuovi e chi mirava a sostituire un vecchio potere con un altro, lasciandone inalterate le strutture. Questa lotta composita, liquidata in modo miope come l’ossessione di una generazione suscettibile verso i mali del mondo contro una generazione che invece mira a difendere i propri privilegi – come se razzismo, classismo e omofobia fossero aggressioni che riguardano solo una fascia anagrafica e non una grande parte della popolazione nel suo complesso –, è fatta da diverse strategie, fuori e dentro la rete.

Black lives matters, #MeToo, Fridays for future hanno cominciato a costituirsi sulle varie piattaforme per portare avanti determinate rivendicazioni, e a volte militanti appartenenti a questi gruppi hanno usato, tra i vari strumenti, quello della pressione sui social network, Twitter nello specifico. Quando un rappresentante delle istituzioni, una figura pubblica, un intellettuale o un giornalista di rilievo assumevano posizioni antitetiche rispetto a quelle del proprio movimento o gruppo di interesse, alcuni di loro attaccavano. La cancel culture è una strategia trasversale agli schieramenti politici degli ultimi anni, di cui l’alt-right e i sostenitori di Trump hanno abusato in maniera considerevole: Trump stesso resta un grande “cancellatore”. Poi questa guerra di censure reciproche si è trasferita all’interno del fronte progressista, e per le stesse ragioni: difendere la libertà di espressione e il primo emendamento della costituzione americana. Ma anche la propria esistenza in un ecosistema culturale e politico che genera influenza, potere e reddito.

Libertà, gruppi di potere e di pressione
La difesa della democrazia e la difesa del potere acquisito vanno di pari passo, in questa storia, e chi si immola sull’altare della prima senza riconoscere quanto peso abbia la seconda, pecca non tanto di malafede quanto di ignoranza. Non esiste la libertà di espressione pura, libera dal condizionamento e dalle strutture in cui opera: condizioni storiche, simboliche ma anche tecniche. Gran parte della libertà di espressione a cui ci si riferisce negli ultimi anni viene esercitata su Twitter o su Facebook, che non sono esattamente dei baluardi della democrazia illuminata, e lo stesso vale per molti giornali o editori o brand che stanno costruendo e smantellando il destino di autori e di autrici, di artisti e di artiste, comportandosi da grandi gruppi con motivazioni più o meno occulte (esercitare influenza e fare cassa).

È stato uno dei punti controversi del #MeToo e di qualsiasi protesta partita dal 2008, quando Facebook è diventato davvero pervasivo: i social network garantiscono l’infrastruttura ideale per coalizzarsi, ma fino a che punto ha senso condurre le proprie battaglie in un luogo che strumentalizza e inacidisce il conflitto, e non dà mai la piena soddisfazione di essere rovesciato a proprio favore?

Mentre gli attivisti si organizzavano per ottenere maggiore giustizia sociale, scontando tutte queste contraddizioni e nevrosi, pure le aziende si organizzavano. Intanto che una generazione cresceva e diventava woke (vigile, in allerta), mutuando i processi di consapevolezza di sé e dell’ineguaglianza sistemica portati avanti dagli afroamericani, anche il capitalismo diventava woke. E così Burger King a gennaio ha lanciato un Rebel hamburger provocando il dileggio dei militanti vegani e ambientalisti che avrebbero dovuto mangiarli (oltre a ingannarli sul fatto di essere interamente vegano), il pride è stato cannibalizzato da Netflix (non è una cosa nuova, prima c’è stato Mtv), la Nike si è affidata a Colin Kaepernick come nuova icona del presente, passando da un Michael Jordan che negli anni novanta non voleva schierarsi politicamente a favore di un candidato democratico perché “anche i repubblicani comprano le scarpe da ginnastica”, a un atleta che sfida i crismi e le liturgie della democrazia americana rifiutandosi di alzarsi durante l’inno nazionale.

Nell’editoria americana è destinato a cambiare tutto in termini di pluralismo e rappresentatività

Per capire quanto sia cambiato il senso dell’attivismo nel corso dei decenni, basta pensare a Michael Jordan stesso: dopo aver riottenuto un’enorme popolarità con il documentario The last dance sulla storia dei Chicago Bulls, in concomitanza con le proteste per la morte di George Floyd, ha cominciato a fare grosse donazioni a Black lives matter. Oggi un imprenditore di se stesso, come Jordan, non può permettersi la disaffezione politica. Magari è stato illuminato sulla via di Damasco, ma sicuramente i gruppi di pressione che gli stanno addosso ora sono diversi rispetto agli anni novanta, quando invece la sua disaffezione politica era desiderabile.

I repubblicani comprano ancora le scarpe, ma domani saranno molti di più gli americani woke a farlo. Questo rafforzamento dell’attivismo, per quanto allineato al cinismo del capitalismo suo malgrado, e costretto a subirne l’alleanza, è un bene, non un male: non solo Black lives matter ha maggiore influenza, più denaro e più incisività politica, ma riesce anche a creare dei ribaltamenti di immaginario e potere fino a ieri inconcepibili.

Un uomo tiene la bandiera statunitense rovesciata in segno di protesta a Minneapolis, nel Minnesota, Stati Uniti, 7 giugno 2020. (Laylah Amatull​ah Barrayn, The New York Times/Contrasto)

Nelle stesse ore in cui si discute molto delle dimissioni della giornalista conservatrice Bari Weiss dal New York Times dopo aver subìto il bullismo dei colleghi disallineati da tempo rispetto alle sue posizioni (le posizioni di Weiss sono le stesse da anni, non le piace l’intersezionalità e detesta la suscettibilità della sua generazione, ma la redazione attorno a lei si è trasformata: fa parte dell’avvicendamento della linea di un giornale, anche questo un fenomeno non esattamente nuovo) e l’allontanamento del polemista Andrew Sullivan dal New York Magazine per una fondamentale divergenza di orientamento (anche qui: se studiamo la storia dei principali quotidiani e delle riviste nel corso degli ultimi cent’anni, gli episodi di licenziamento per ingiusta causa, le accuse di censura, abiura, maccartismo e quanto altro sono abbastanza ricorrenti: si tendono a fare giornali basati sulle affinità della propria squadra editoriale e non il contrario), nell’editoria americana accadeva una cosa precisa: dopo la morte di tanti storici direttori editoriali, Simon & Schuster e Knopf hanno assunto rispettivamente Dana Canedy e Lisa Lucas, due donne afroamericane destinate a incidere molto sulle scelte editoriali dei prossimi anni.

Come racconta un articolo del New York Times, nell’editoria americana è destinato a cambiare tutto in termini di pluralismo e rappresentatività di voci diverse. Stabilire se la cancel culture contribuisca davvero a tali ribaltamenti, e come ci sentiamo rispetto a questo, è ovviamente un problema. Il cambiamento democratico attraverso forme non democratiche lo è sempre. Ma l’assunzione di queste due donne non lo è. Il fatto che la redazione del New York Times oggi sia tendenzialmente più giovane, più woke e decisa a non avallare editoriali in cui un senatore dell’Arkansas invita a un uso massiccio della forza e della detenzione per ripristinare l’ordine nelle strade, non lo è.

I nuovi invitati alla festa
Le tensioni suscitate da questi microassestamenti in cui pesano anche bilanci editoriali, valutazioni sulla composizione demografica del proprio pubblico e il potere d’acquisto dei consumatori-attivisti, intanto che si continuano a fare risse su Twitter, hanno spinto 153 intellettuali a firmare una lettera su Harper’s Magazine in cui denunciano i pericoli per una democrazia tenuta in ostaggio della cancel culture. Anche qui, la scelta della rivista attraverso cui veicolare il proprio messaggio è stata un po’ infelice: come riportato dallo scrittore Keith Gessen in un thread interessante da leggere, Harper’s stessa si è resa protagonista negli ultimi anni di licenziamenti di editor e dipendenti senza ragioni molto chiare.

La lettera di Harper’s, tra i cui firmatari ci sono Margaret Atwood, J.K. Rowling, Noam Chomsky e Salman Rushdie, sicuramente è stata sottoscritta con intenzioni diverse – contro la gogna pubblica, in difesa della libertà d’espressione, in difesa del proprio diritto di essere impresentabili in varie forme –, parte da esempi generici del presente per rivelare una paura del futuro, nel timore che le tendenze estremiste della cancel culture possano rovinare la letteratura che leggeremo, le opinioni che ospiteremo sui giornali, rendendole sempre più simili tra loro, educate e noiose.

È un paradosso interessante: le redazioni non sono mai state così varie e frammentate come oggi, e pure maleducate; sicuramente non sono noiose. Nuove generazioni di giornalisti si affiancano a colleghi in carica da decenni, portando nuove istanze, nel serio tentativo di rendere le redazioni meno bianche, elitarie e conservatrici, com’è inevitabile il conservatorismo di chi fa lo stesso mestiere da molto tempo. Al cinema, nei libri, nelle serie tv, non c’è mai stato così tanto “altro”: per chiunque sia interessato a preservare la compresenza di diverse opinioni all’interno di uno stesso ecosistema culturale, forse non c’è mai stata un’occasione migliore di adesso.

La società civile cambia. Non in fretta quanto dovrebbe, ma cambia

La festa è piena di nuovi invitati. Le sedie iniziano a scarseggiare, qualcuno è costretto a restare in piedi, e se i nuovi arrivati sono più divertenti, entusiasti e destinati ad attirare l’attenzione, forse più che di censura si deve parlare di questo: dell’aggressività gioiosa del nuovo arrivato rispetto all’imbarazzo di chi a quella festa c’è sempre andato. Temere le tendenze radicali ed estremiste di un fenomeno come la cancel culture significa non prenderla sul serio, alterandone continuamente le proporzioni: la cancel culture esiste in questa forma da almeno quattro anni e non è diventata più estrema, è sempre stata straordinariamente simile a se stessa e prevedibile nei suoi meccanismi, ed è anche percentualmente contenuta rispetto ad altre forme di protesta e rivendicazione sociale. Mentre queste vanno avanti per strada e nel mondo, la cancel culture vive su Twitter. Che è, e resta, un aspetto marginale di come si gestisce il cambiamento politico. E così, mentre molti progressisti si fanno ostaggio delle paure intimamente legate alla cancel culture, la società civile cambia. Non in fretta quanto dovrebbe, ma cambia: nel corso degli ultimi mesi, la corte suprema americana ha stabilito che è vietato licenziare qualcuno perché gay o transessuale.

Nello stesso momento storico in cui si discute l’allontanamento di opinionisti famosi dai giornali per via degli stessi meccanismi che li hanno resi famosi – senza la cancel culture Bari Weiss, notoriamente divisiva e “cancellatrice” a sua volta, non sarebbe mai esistita –, la corte suprema americana stabilisce che le aziende non possono licenziare lavoratori sulla base dell’etnia o dell’orientamento sessuale. Licenziati non per aver detto qualcosa di poco gradito, ma per come sono venuti e stanno al mondo, qualcosa che precede il diritto a parlarne. Sono due fatti diversi, e il merito di una questione non invalida la problematicità dell’altra. Però la domanda bisogna porsela, per quanto antipatica: senza la pressione della cancel culture, simili decisioni politiche, verrebbero prese? C’è una tendenza a ragionare per paradossi e iperboli in questa vicenda, ma l’uso dell’iperbole che si evince dalla lettera di Harper’s – la raffigurazione di una cancel culture esasperata che spadroneggia ovunque – è una figura retorica che confonde i problemi, e rischia di rendere ingiustizia ai movimenti per i diritti sociali, opacizzandone i meriti. Tra tutte le forme di retorica, è quella destinata a essere presa sul serio. È anche la figura retorica preferita da Twitter. Per tanti aspetti, la lettera sembra più ossessionata e intimorita dalla gogna mediatica e dai social network, che non dal senso di giustizia nel mondo che verrà.

La libertà di espressione è un diritto più o meno consolidato e acquisito nelle democrazie occidentali. Non sparirà domani. Il tema, più che il diritto di dire qualcosa o di non dirla per timore delle ripercussioni, è se ce la si può permettere o meno. Il concetto di permesso è più fragile e ambiguo di quello di diritto, ed è più complesso da analizzare. Perché più che il diritto di vita o di morte, di esistere in un contesto o meno anche solo in forma simbolica – nessuno sta bruciando Harry Potter in piazza, né il Racconto dell’ancella, Noam Chomsky non resterà senza un editore, e Andrew Sullivan troverà un altro lavoro domani –, chiama in causa questioni come la necessità di tutelare il proprio reddito, la rendita di posizione faticosamente costruita, la carriera più o meno precaria, il lusso di poter essere sempre un cattivo maestro, instaurando un rapporto vischioso con la convenienza, e l’opportunità.

Il sistema, le sue conseguenze, la nevrosi
Bari Weiss, arrivata a questo punto della sua stellare carriera con un metodo preciso basato spesso sulla negazione dell’altro, può permettersi di dimettersi dal New York Times. Una collega più giovane con un simile orientamento no, probabilmente, anche perché avendo appena cominciato plausibilmente ha anche molti meno soldi: ed è soprattutto lei che andrebbe messa in sicurezza, se ci teniamo al pluralismo. Ma c’è da chiedersi se una collega alle prime armi con un orientamento simile a quello di Bari Weiss, un orientamento oggi impopolare, userebbe Twitter e le pagine di un giornale come ha fatto Weiss, se sfrutterebbe la cancel culture, i troll e i nemici per farsi un nome, come spesso accade anche nel giornalismo italiano. Probabilmente no, perché è un fenomeno che si sta indebolendo, e che fa ragionevolmente paura (nessuno ama essere insultato oltre una certa misura, e con una certa violenza): e allora, forse, la scelta di farsi largo nel giornalismo in base alla forza della propria scrittura e delle proprie opinioni, e non in base all’uso strumentale degli hater e al senso dello scandalo suscitato dalla propria presunta scomodità, non è un fenomeno negativo. Rinunciare al bullismo di Bari Weiss e o alle provocazioni di Andrew Sullivan non è una gran perdita per il giornalismo, ma se c’è chi vuole continuare a scrivere e giocare nel sistema in quel modo, allora deve accettarne le conseguenze, ed è assolutamente libero di farlo. Se diventa inservibile per un editore, diventerà servibile per qualcun altro.

Nella lettera di Harper’s c’è una spia linguistica interessante: si parla di “free exchange of information and ideas”, libero scambio di informazioni e idee. Libero scambio è un’espressione contigua a “libero mercato”. Chi accetta di farne parte in un panorama editoriale con soglie di accesso ancora molto alte e costellato di privilegi, caratterizzato da una grande concorrenza a fronte di scarsi redditi, può farlo con molto dolore e conflitto personale, ma spesso accetta pienamente il gioco in cui questo scambio avviene: tramite piattaforme e giornali che hanno rinunciato a una funzione di sorveglianza e potere. Piattaforme che elitiste erano ed elitiste restano. Un sistema in cui c’è una fragilità che va molto oltre firme famose come quelle di Weiss e JK Rowling. Della lettera colpisce anche questo: una scarsa considerazione per chi di potere, in questo sistema, non ne ha affatto.

Una manifestazione di Black lives matter a Louisville, in Kentucky, Stati Uniti, 7 giugno 2020. (Luke Sharrett, The New York Times/Contrasto)

Il giornalismo americano culturalmente influente ha sempre ospitato firme che non erano un baluardo del progressismo radicale: basta pensare a Joan Didion. La maggioranza delle firme di oggi è di un progressismo non radicale: la stampa americana non è in mano ai soviet, e a scontrarsi con Trump non sarà Bernie Sanders ma Joe Biden. La voce della ragione trionfa ovunque. Sarebbe difficile immaginare che una scrittrice del calibro di Joan Didion, pur essendo portatrice di visioni spesso conservatrici, non verrebbe ospitata oggi sui giornali. Avrebbe maggiore concorrenza rispetto a ieri, non sarebbe così influente, ma forse saprebbe sfruttare questa concorrenza come stimolo. Avendo un’organizzazione del pensiero così lucida e implacabile, probabilmente sarebbe capace di fare a meno di Twitter perché ne stanerebbe le insidie.

Nelle discussioni emerse intorno alla lettera su Harper’s, sarebbe stato apprezzabile dare maggiore risalto al concetto del permesso, e della fragilità. Una parola o due sulla transitorietà della propria presenza, sul declino della propria popolarità. Più che del diritto di non sparire, sarebbe stato bello parlare del disorientamento che deriva dal non sapere se si è ancora benvenuti a restare. Ma non essere invitati alla festa non è la stessa cosa dei rastrellamenti degli squadristi o delle porte sfondate nel cuore della notte. In molti casi, più che rimandare alla censura, la lettera di Harper’s riflette una nevrosi che ha a che fare con la popolarità, una nevrosi incoraggiata dalla celebrity culture che ha sedotto scrittori e scrittrici e letterati di ogni tipo, e che si presta moltissimo ai rovesciamenti, essendo basata sui meccanismi del voto popolare. È un difetto congenito della celebrity culture, appunto, che ora si applica al pensiero intellettuale.

Chi di cancel culture ferisce, di cancel culture perisce. Chi del woke capitalism approfitta, per il woke capitalism ragionevolmente collasserà, perché le aziende domani troveranno nuove icone e nuovi eroi e non vale la pensa poggiare le proprie rivendicazioni su basi così fragili. La lotta primaria delle minoranze infatti è questa: non tanto cancellare i dissidenti progressisti, che si invalidano da soli quando sostengono la transfobia o si fanno alfieri del razzismo mascherato, ma imparare a non farsi cooptare da un sistema che oggi le eleva e domani le liquiderà.

Rovesciamenti di paradigma
Scoprire di non essere più tanto letti e amati non è un fenomeno di poco conto. Quando pensiamo ai rovesciamenti di paradigma, possono venirci in mente vari episodi della storia: dalla rivoluzione russa allo smantellamento delle colonie dell’impero britannico, al grande movimento antirazziale e per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni sessanta. Tutti questi momenti, caratterizzati dalle loro forme di cancel culture e di negazione del dissenso, dal dibattito su nuove e vecchie dittature, dal nuovo che destabilizza e rischia di essere più autoritario del vecchio, sono coincisi con un innegabile miglioramento della democrazia, e con il riconoscimento di nuovi diritti. E sono coincisi anche con una certa malaise, un certo malessere degli establishment culturali. Se pensiamo ai romanzi, ai carteggi, alle lettere degli intellettuali che avevano posizioni consolidate in quelle fasi, è evidente che tra lo slancio progressista, la gioia per i trionfi della democrazia, la felicità per la vittoria del proletariato e l’emergere di una cultura postcoloniale prima e decoloniale poi, si è insinuato il timore di non essere più rilevanti.

Di questi motivi e di questo malessere, i più bravi e le più brave sanno farne letteratura: basta pensare ai principi e conti russi in esilio in Francia, diventati quasi animali da zoo nei salotti, e a quel che ne ha fatto Marcel Proust. Basta leggere I mandarini di Simone de Beauvoir, in cui una generazione di intellettuali del dopoguerra discute costantemente di ciò che la renderà obsoleta e la farà fuori.

E così, quando è uscito White di Bret Easton Ellis, che si pone domande legittime – che fine faranno i romanzi se non si avrà più il permesso di dire niente e di immaginarsi diversi da quelli che si è, tutte domande che si fa anche Zadie Smith articolandole però con minore risentimento –, il dibattito che ne è seguito è stato interpretabile anche nei termini di una sofferenza personale, camuffata a tratti da lotta di principio. A generare questo sospetto è proprio il linguaggio disorganizzato con cui si è scelto di affrontarla, lontano dai fasti e meriti di Ellis romanziere. Come diceva James Baldwin, dietro tanto odio e veemenza a cui restare aggrappati senza cedere di un millimetro, c’è spesso una persona che non sa come dovrà affrontare il suo dolore. E di questo dolore si potrebbe anche smettere di provare vergogna; basterebbe chiamarlo per nome. Intorno a un libro come White si sono potuti sentire i lamenti simili a quelli di un soldato dell’impero britannico a cui dicono che da domani l’India sarà uno stato indipendente, e che si ritrova a sbandare fra strade di cui non riconosce più le insegne e i cartelli, dove tutti corrono per dare un nuovo nome alle cose. Uno sbandamento che, come sempre – quando la propria storia, il proprio passato e la propria carriera vengono sfidati dal nuovo contesto –, genera frustrazione, e financo allucinazioni.

È da un po’ che ho smesso di chiedermi se libri come Lolita o American psycho verrebbero pubblicati oggi

Si parla molto di diritti e giustizia, di potere e conflitto in termini politici, eppure qui sembra mancare non solo la storia della cultura, ma anche delle emozioni. David Foster Wallace parlava dei danni dell’ironia e del postmodernismo che lo aveva esasperato, dopo di lui è trionfata per un po’ la letteratura dell’empatia e della new sincerity che forse ha portato a un nuovo puritanesimo, dandoci pessimi libri ma anche Ben Lerner e Ocean Vuong, e Bret Easton Ellis arriva a sostenere che questo sia degenerato in una nuova letteratura da quaccheri e moralisti in cui non ci si diverte più, ignorando il grandissimo divertimento provocato dai libri di Colson Whitehead, o di Helen Oyeyemi, o di Carmen Maria Machado, o di tanti che scrivono anche intorno alla propria appartenenza etnica o di genere. Non ci sono molti editoriali che parlano di questo disorientamento e di questa fragilità, di questa vergogna. Non ci sono molti editoriali che denunciano la paura di essere non più sintonizzati con quello che succede fuori.

Una scrittrice potente come Margaret Atwood decide di firmare quella lettera e non di interrogarsi attivamente sull’eredità attuale del Racconto dell’ancella, sul timore che la propria iconicità si svaluti in fretta, e sulla trasmissione anche generazionale di quella letteratura, portando dentro di sé la contraddittorietà del suo femminismo e delle sue prese di posizione a favore di uomini denunciati per molestie sessuali. A Margaret Atwood non si chiede una coerenza implacabile. Forse le si chiede una diversa capacità di ascoltare. Il decentramento di sé – quella pratica per cui invece di fare sempre mea culpa del proprio privilegio si sta in silenzio e a osservare, lasciando che a condurre la conversazione siano gli altri – viene ancora percepito come una sconfitta, come una perdita e una rinuncia, un darla vinta ai censori.

È interessante che questo accada proprio mentre la letteratura decide di intervenire sul decentramento di sé, e di sperimentare con questo: basta pensare alla trilogia dell’ascolto di Rachel Cusk, a I vagabondi di Olga Tokarczuk, a Catherine Lacey in A me puoi dirlo, a Il contrario della nostalgia di Sara Taylor dove si ricorre a personaggi senza genere, senza un’identità sessuale del tutto definita, senza nomi, senza etnie o un io categorico. Proprio ora che siamo ossessionati dall’identità e da come la occupiamo e sfruttiamo, la letteratura va avanti.

Allargare i campi del proprio immaginario
È da un po’ che ho smesso di chiedermi se libri come Lolita o American psycho verrebbero pubblicati oggi. Mi chiedo però se verrebbero scritti. Dubito che un autore consapevole come Nabokov non arriverebbe mai a scrivere Lolita per censura interna e preventiva, per paura di ritorsioni (le ebbe comunque, e non poche) e nell’ottica di preservarsi dalla gogna pubblica. Trovo tuttavia affascinante la prospettiva per cui oggi quella storia non gli interesserebbe in quei termini, perché il mondo, il rapporto tra culture e quello tra i sessi, l’avvicendamento nella storia delle idee e di tutto ciò che circonda un autore o un’autrice mentre è al lavoro, gli arriverebbe addosso con una violenza e meraviglia tale che lui non si esimerebbe dal confronto con tutto quello che sta cambiando.

Si scrive sempre in una posizione di rischio altissimo, con la paura di non essere letti o di essere rigettati: dal punto di vista della fiction, quello della censura o della paura è spesso un problema iperbolico. L’ipotesi di non avere un pubblico, di essere fuori moda, di essere soli, è parte integrante del processo della scrittura in sé, e serve sempre. Perché tiene a bada la sicurezza, la superbia. La letteratura non soffre per queste cose: è l’egemonia culturale a soffrire.

Siamo circondati da molti discorsi sulla perdita, sui rischi di un potere nuovo che si afferma dimenticando le lezioni del passato, e spesso sorvoliamo su tutto quello che si guadagna, sulla possibilità che arrivi un nuovo Lolita, con una lingua che pare uscita dal nulla, e che sappia fare una sintesi del proprio tempo, con idee diverse sul bene e sul male, sull’io e sull’altro.

Perché uno dei temi è proprio questo: se nel mondo irrompe tutto questo bene, se si arriva a questa famigerata dittatura del bene, al momento abbastanza risibile e confutabile nei fatti, che fine farà il male, un deposito immenso per il romanzo, il cinema e l’arte, che ha permesso a così tanti autori, impresentabili e non, di prosperare?

Se prima pensavamo che il bene fosse appannaggio delle culture occidentali democratiche che andavano perfino a esportarlo altrove, oggi pensiamo che anche il male lo sia. Che alle minoranze non interessino tutte le ambiguità seduttive e le possibilità narrative del male, e del politicamente scorretto. Che anche lì non ci sia un desiderio di essere difformi e impresentabili. Diamo per scontato non solo che alle donne, ai neri, alle persone lgbtq+ e ai proletari di tutto il mondo non importi molto la tutela della propria libertà di espressione e che non abbiano paura di essere cancellati – il che è un ovvio controsenso logico, essendo stati elisi e rimossi per secoli –, ma anche che non scriverebbero mai il loro American psycho, e non girerebbero mai un film controverso come Joker.

Il problema è che quando lo girano, un film controverso, sfidando le case di produzione e il woke capitalism e chiede alle minoranze di essere sempre piacevoli e corrette, tendenzialmente lo ignoriamo: come ha puntualizzato Kanye West in una bella intervista di Steve McQueen su Interview anni fa, Hollywood aveva più bisogno che lui facesse 12 anni schiavo (un film moralista e debole) più che di vedergli fare Shame (un film controverso e molto bello con un protagonista – bianco – ostaggio della propria fame sessuale).

I ruoli e le incarnazioni del male restano ancora la prerogativa di determinate figure e soggetti

Dopo aver visto Joker di Todd Phillips, un film perfetto per essere cooptato sia dalla destra eversiva sia dalla sinistra legata alla fragilità economica e psichica del maschio bianco, e studiato per seminare il panico tra i cancellatori di ogni fazione, invece di pensare all’ennesimo film centrato sulla mascolinità di un reietto della società occidentale, mi sono chiesta se riusciamo a immaginare un film come Joker con una protagonista donna, possibilmente nera, psichicamente fragile, emarginata dal sistema economico, e violenta. Questo non significa dire che il film andava fatto così e non come è stato fatto: significa allargare i campi del proprio immaginario, perché ammettere la plausibilità di qualcosa nella fiction è anche un modo di certificare la sua cittadinanza nel reale. E la risposta è stata no: un film così non riusciamo ancora a immaginarlo. Ma sarebbe molto più divertente arrivare a poterlo fare. È molto più divertente quando gli impresentabili sono anche gli altri.

Riusciamo a sostenere che la nuova versione cinematografica di Cleopatra debba essere interpretata da un’attrice nera e non da un’attrice bianca, anche per ragioni di verosimiglianza storica, possiamo avere opinioni sul fatto che la disabilità al cinema debba essere rappresentata e recitata da persone disabili, ma i ruoli e le incarnazioni del male, il lusso del male, restano ancora la prerogativa di determinate figure e soggetti. E se non fosse più così? Se tra i tanti privilegi, i firmatari di Harper’s perdessero anche quello di essere sempre dalla parte del torto? Con tutte le sue perversioni e battute, Kanye West in qualche modo riesce a fare proprio questo: a sfuggire all’eccezionalismo del bravo nero. Ha i soldi per permetterselo.

Il mondo è cambiato, ma non troppo
In un’accesa conversazione con una scrittrice nigeriana conosciuta durante una residenza per lavorare a un romanzo, in cui io mi chiedevo fino a che punto potevo esercitare il mio diritto di romanziera bianca – potevo creare personaggi di qualsiasi tipo, senza il timore dell’appropriazione culturale? – e in cui lei sosteneva che per farlo dovevo studiare molto, o comunque provare ad astenermi perché c’erano troppi rischi, e io sostenevo che lei allora non doveva scrivere di classi subalterne in quanto figlia di accademici, questa scrittrice mi ha raccontato una scena interessante.

Durante una manifestazione contro il razzismo in Inghilterra negli anni sessanta ripresa dalle telecamere, uno speaker bianco aveva preso il microfono togliendo la parola a uno speaker nero che stava intervenendo. E la reazione della persona a cui era stato preso il microfono non è stata di strapparglielo di nuovo, o ricorrere alla violenza, ma intervenire con un commento: “Hai parlato abbastanza. È ora di passare il microfono e sentire qualcun altro”. In maniera composta, e ferma.

Passare il microfono è un gesto di grande eleganza in questa fase di negoziazione e di lotta, oltre che di giustizia, ed è anche una forma che permette alla propria arte di rigenerarsi. C’è un sollievo nel non essere più centrali e dover avere sempre la cosa giusta o sbagliata da dire; un sollievo che sta sfuggendo a molti interlocutori della conversazione, e che contiene immense possibilità espressive.

Tanti anni fa Tom Wolfe creava un’espressione destinata a colonizzare l’immaginario delle sinistre occidentali, e dei progressisti pronti a farsi beffe di sé: quando ha descritto i radical chic come Leonard Bernstein che invitavano le Pantere nere a parlare di sé, eroticizzandone il conflitto, o quelli come Norman Mailer che in The white negro manifestavano invidia per le energie violente e sexy degli afroamericani in rivolta rispetto al conformismo bianco.

Mi piacerebbe dire che oggi, nei salotti, si siano rovesciate le parti. Che sia Leonard Bernstein la figura esotica, e che sia Norman Mailer il conte russo in esilio, osservato come un animale allo zoo. Ma la realtà è che nei salotti e nei centri dell’establishment culturale si invitano ancora le Pantere nere con quella funzione, ed è sempre un Bernstein ad avere il potere di organizzare la ricorrenza. Solo che poi le Pantere nere arrivano, mettono a soqquadro il soggiorno, e provano a impossessarsi delle nuove parole, e dei nuovi vocabolari del pensiero progressista, facendo entrare in crisi un immaginario e seminando un dubbio che prima non c’era.

Non si dovrebbe mai invitare qualcuno se poi lo scopo è tenerlo a bada. Il mondo è cambiato, ma non così tanto, e non così in fretta come dovrebbe.

Qualcuno dovrebbe dirlo ai firmatari di Harper’s.

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